Di Claudio Vitagliano per ComeDonChisciotte.org
Nel secolo del vedutismo, del rococò e del neoclassicismo, un modesto paesaggista britannico arrivò in Italia, e cambiò la percezione che le persone avvezze all’arte avevano avuto sino ad allora di Roma, e soprattutto di Napoli. Il Gran Tour, tanto in voga tra i giovani nobili d’Europa, nel suo caso durò a lungo. Egli rimase sette anni nel nostro paese, tra Roma e Napoli, lasciando una testimonianza inedita di come i luoghi e le persone possono essere all’origine di sostanziali cambiamenti nell’animo umano. Quest’uomo si chiamava Thomas Jones, ed era nato nel Galles 34 anni prima, da una facoltosa e numerosissima famiglia che aveva immaginato per lui una carriera ecclesiastica. Alla morte dello zio materno che finanziava i suoi studi a Oxford, però, decise di dedicarsi esclusivamente alla carriera artistica. Egli si trasferì a Londra dove divenne allievo di Richard Wilson, il paesaggista forse più importante dell’epoca.
Nel periodo precedente il viaggio in Italia, la sua produzione era improntata ad una ordinarietà evidente in cui metteva in opera quasi pedissequamente gli insegnamenti del maestro e in cui era rilevabile oltre ciò, solo un certo influsso esercitato su di lui dall’opera di Francesco Zuccarelli, artista italiano che visse a lungo nella capitale inglese. Insomma, la sua carriera in patria, sotto il profilo puramente artistico, non fu connotata da alcunché di eclatante. Sembrerebbe addirittura che avesse problemi ad affrontare le opere in cui necessitasse la rappresentazione della figura umana, una decisa spia della sua insicurezza nella disciplina del disegno.
Nelle istituzioni importanti invece, fece celermente progressi (divenne membro della società degli artisti e in seguito ne fù anche direttore), cosa che avrebbe portato chiunque a ritenere che fosse fondamentalmente più portato per la politica che per l’arte. Nulla lasciava presagire l’avventura che ebbe a vivere da lì a pochi anni, che lo avrebbe portato ad essere ritenuto dai posteri un vero precursore, una specie di marziano catapultato sulla terra tra gli artisti dell’epoca, per lasciare in eredità a noi contemporanei l’immensità della sua poetica struggente.
Egli quindi, visse fino al 1776, una vita piuttosto ordinaria sotto il profilo umano e artistico che tale sarebbe rimasta, se non fosse per il fatto che si decise finalmente ad intraprendere il così tanto agognato viaggio in Italia; cosa che lo cambiò radicalmente, non solo come artista, ma anche come persona. Sicuramente la luce mediterranea che aveva tanto desiderato di scoprire, (in patria dipinse anche un paesaggio Italiano immaginario), i panorami naturali e i monumenti del nostro paese destarono in lui un incontenibile desiderio di esercitare l’arte nel segno della libertà. Ad avallare la supposizione che il fine ultimo del suo viaggio fosse la luce del sud, c’è il fatto che egli saltò le soste di Venezia e Firenze, incluse invece come tappe obbligate da tutti gli artisti europei del tempo. Il suo stato di grazia durò fino al 1783, quando decise di mettere fine alla sua permanenza a Napoli.
Più di 200 anni dopo il suo ritorno in patria, un appassionato d’arte, posò lo sguardo su “ A wall in Naples “ e rimase catturato dalla incredibile bellezza malinconica che emanava quel dipinto ad olio su carta poco più grande di una cartolina. Quell’appassionato è lo scrivente, che da allora si è messo sulle tracce dell’autore con l’intento di farsi rilasciare un’intervista. Oltre quelle già palesate sopra, troppe domande, troppo affascinanti e apparentemente senza soluzione, si affastellano nella mia mente per poter catalogare con il solo termine “originale” l’autore in questione e archiviarlo come tale.
Nell’intervista che segue, cercherò di chiarire quali sono stati i moventi, soprattutto di natura intima e umana (è mia convinzioni che tali fattori siano stati predominanti su qualsiasi altro) che hanno portato Jones a dipingere Napoli, come non ha mai fatto nessun altro, né prima né dopo di lui.
Lasciamo per il momento da parte le congetture, e per mezzo del protagonista stesso di questa vicenda, appuriamo la verità dei fatti.
Incontro Jones al bar Gambrinus in prossimità di piazza Plebiscito a Napoli, dove ha fatto ritorno solo per poter rispondere alle mie domande.
CV – Buongiorno Mr. Jones, ha fatto buon viaggio?
TJ – Paragonato a quello che feci nel 1776 per arrivare nel vostro paese, un paradiso…
CV – Partiamo dal principio, che ricordo ha di Roma?
TJ-Quando giunsi a Roma fui incantato dalle tracce della vostra storia. I continui rimandi alla bellezza classica, che si trovavano disseminati tra un monumento e l’altro nella città e dintorni, furono per la mia sensibilità, una irresistibile sollecitazione. La permanenza nella città eterna mi permise di capire da quale fonte d’ispirazione unica al mondo avesse preso le mosse il vostro Rinascimento, cosa che mi diede una nuova consapevolezza sul senso della pratica artistica. Inoltre, frequentai con enorme profitto per la mia maturazione, alcuni grandi artisti dell’epoca, come Cozens, Fussli e Piranesi. Ricordo ancora con immenso affetto il mio amico don Titta, il pittore Giovan Battista Lusieri , grazie al quale sono uscito dal buio ed entrato nella luce (non solo pittoricamente parlando). Inoltre, a Roma conobbi Maria Moncke, che divenne mia moglie e la madre delle mie figlie.
CV – E di Napoli?
TJ – A Napoli andai per la prima volta nel settembre del 1778, e decisi in occasione di quel viaggio di tornarci a vivere. Mi trovai in una città dal cosmopolitismo accentuato, in cui comunicare con il prossimo non comportava necessariamente l’assunzione di un certo formalismo come era in altre città d’Italia e in maniera più esasperata, nella mia patria.
A Napoli si respirava un’aria selvaggia che riguardava sia la nobiltà che la classe borghese e popolare. Era diffusa una visione esistenziale venata da un’anarchica dello spirito che accomunava la gente partenopea in modo più saldo di quanto avrebbero potuto dividerla le differenze di ceto. Devo ringraziare il clima culturale e soprattutto umano della città se la mia sensibilità ha smesso di essere incatenata a canoni che, a ben vedere, non mi appartenevano. Porto sempre con me anche il ricordo di tante persone comuni; la gente era generalmente affabile e cortese. Napoli era un teatro a cielo aperto, dove i napoletani erano tutti primi attori.
CV – Dall’Inghilterra lei approdò direttamente a Roma, diversamente da gran parte dei suoi connazionali che ritenevano Venezia e Firenze due tappe irrinunciabili. Abbiamo fatto delle supposizioni al riguardo, ma naturalmente solo lei può dissipare gli interrogativi su questa scelta.
TJ – La verità è molto vicina a quella che lei ipotizza nell’introduzione, con un piccolo dato in più che vado ad aggiungere. Ho sempre identificato l’Italia meridionale come il luogo pervaso dalla luce più consona alla creazione artistica, quella a cui aspiravo io per lo meno. Parlando del Regno di Napoli poi, e della sua vita sociale e culturale descrittami da molti compatrioti tornati da lì, era diventato nella mia fantasia un luogo mitico, che sull’indole curiosa di cui ero dotato, esercitava una irresistibile attrazione. Questo non valeva né per Firenze e neanche per Venezia.
CV – Come potrebbe definire il suo stile nel periodo napoletano?
TJ – Non saprei proprio. Sicuramente Il carattere della città così lontano dalle rigide formalità della società britannica, mi influenzò parecchio, fino al punto di non sentirmi più legato a nessuna scuola, tanto meno a quella di Williams. Diciamo che vivevo alla giornata…e creavo alla giornata.
CV – Si, ma i suoi dipinti del periodo napoletano e in particolar modo quelli eseguiti nel 1782, avevano una estetica comune che si materializzò in una precisa poetica, la stessa che ci ha intrigato al punto tale da indurci ad intervistarla. Può dirci qualcosa di più al riguardo?
TJ – Potrei, se è veramente necessario dare un nome o appioppare una specifica apposita all’arte che ho espresso a Napoli, iniziare col dire che essa era un’arte minore, intima, la side street della mia epoca. Un’arte universale che si nutriva dell’essenza stessa della vita come essa si manifesta nella quotidianità ad ogni latitudine. I miei dipinti volevano mettere in scena un luogo non luogo nella città più caratterizzata dell’epoca. Napoli, è uno dei posti della terra in cui il particolare e l’universale si fondono perfettamente. L’immenso orizzonte e i muri scrostati sotto il nostro naso sono il racconto dell’esistenza che questa città mette in scena quotidianamente sotto i nostri occhi. Possiamo affermare, che rapportando il tutto ai vostri giorni, all’epoca tentai di descrivere ciò che è un grande organismo, partendo dall’osservazione delle cellule.
Forse, con più precisione, potremmo definire la mia arte : vedutismo metafisico.
CV – Noi crediamo che l’ Italia, e con maggior esattezza Napoli, siano state all’origine della sua catarsi, che fece emergere una forma di estroversione fino ad allora latente. Ha un fondamento di verità questa nostra impressione?
TJ– Sono sempre stato una persona timida, alla quale serve un piccolo incoraggiamento per creare relazioni. Ecco, diciamo che Napoli, ha saputo aiutarmi a superare la timidezza che ha sempre contraddistinto il mio carattere. Per il mio ceto, nella cultura da cui provenivo, non erano certo permesse libertà di costume come quelle che imparai ad assumere nella città partenopea in quanto abituali norme di comportamento.
CV – Lei si trasferì da Roma a Napoli, per cercare commesse che non aveva più. Sappiamo dell’ostracismo di cui fù oggetto da parte della comunità inglese presente in città per mano di Thomas Jenkins e James Byres. Erano loro che facevano il bello e il cattivo tempo nel mercato dell’arte, condizionando fortemente i gusti dei propri connazionali, consigliandogli su quali artisti puntare per le loro collezioni. Perché i suoi compatrioti le voltarono le spalle?
TJ – Mi trasferii a Napoli certamente perchè non avevo più commesse, ma il motivo principale era un altro. In quel periodo la mia riluttanza a dipingere su commissione iniziò ad assumere il carattere dell’insofferenza. Avendo già soggiornato per 5 mesi in città e avendo potuto appurare che Napoli, essendo la città più grande d’Italia, la più illuminata sotto l’aspetto culturale e quella che offriva più opportunità a chi voleva tentare nuove strade, mi ci trasferii. Ero convinto di poter dipingere senza dover sottostare troppo alle regole del mercato, che percepivo sempre di più come una cappa soffocante che toglieva aria alla mia immaginazione. Questo modo nuovo di interpretare il mestiere, dando origine nel tempo a contrasti, anche di tipo personale, mi alienò la simpatia dei miei connazionali.
CV – In ultima analisi quindi, non sarebbe sbagliato dire che fu il suo carattere a rappresentare un ostacolo al successo commerciale.
TJ – Probabilmente ci fu un concorso di colpa. Forse la mia sensibilità si era allineata troppo al carattere mediterraneo che assunsi sempre di più come se mi fosse congenitamente appartenuto. La disinibizione che contraddistinse il mio umore nel periodo napoletano, e che mi diede il coraggio di superare quelli che erano allora i canoni del paesaggismo o del vedutismo coevi, rappresentò per i miei conterranei la scusa che gli permise di stabilire una incolmabile distanza tra loro e me. In realtà, erano i mutamenti nella mia mentalità a pesare di più e a non essere accettati. Per cui essi, mi esclusero nella mia totalità , come uomo e come artista. Mi trovai isolato ma paradossalmente con le mani completamente libere, e ciò non mancò di avere conseguenze sulla mia produzione artistica che divenne ai loro occhi sempre di più “astrusa”. La luce di Napoli che mi aveva così affascinato e che trasponevo nei miei dipinti dai temi così umili, davano alle opere quel carattere magico che richiamava il sentimento in maniera prepotente, e questo non era nelle corde dei potenziali committenti. La scelta di rappresentare gli scorci più umili della città che a me tanto commuovevano fù vista come una specie di sacrilegio. In fondo, ero rimasto un artista dilettante che perseguiva la passione da cui era posseduto sin dall’infanzia. Insomma, anche se avevo desiderato farlo, non riuscii ad attrezzarmi mentalmente per far fonte al mercato. Per essere più chiaro, dico che la mia passione non riuscii a trasformarla in una professione.
CV – Ragion per cui, alla fine, neanche a Napoli le cose cambiarono. Persino il patrocinio che le accordò Lord William Hamilton, ambasciatore Inglese presso il regno di Napoli, risultò del tutto inutile. Fù questo il motivo per cui ad un certo punto, rassegnatosi all’isolamento, lei dipinse solo ed esclusivamente per il piacere di farlo. Crede che se non si fossero verificate queste condizioni avverse, sarebbe comunque ora ricordato da noi contemporanei come un grande innovatore?
TJ – E’ sicuro che la mia predisposizione a eludere le tendenze imposte dal momento era già ben ravvisabile, ma forse senza l’isolamento in cui mi costrinse la comunità britannica, alcune opere non avrebbero mai visto la luce. Non avrei quindi nessun esegeta in cerca del senso recondito della mia arte. Mi sarebbe data comunque attenzione ma non questa enorme attenzione di cui mi fate oggetto voi uomini del terzo millennio. Neanche lei avrebbe perseverato tanto nel cercare la verità della mia opera se non avessi dipinto “A wall in Naples”.
CV – Parliamo delle opere su carta, di cui appunto “A wall in Naples” è quella più famosa. La sua libertà creativa era in un certo senso incentivata dall’utilizzo di materiali non “istituzionali” come la tela?
TJ – Si. La possibilità che mi offriva il piccolo formato, e la velocità di esecuzione che permetteva l’olio su carta, rispondevano alla perfezione all’urgenza creativa da cui ero mosso , cosa tra l’altro alla quale non ponevo più nessun ostacolo. Avevo sempre eseguito schizzi, ma nel 1782 essi persero per sempre la funzione da me assegnatagli in precedenza, e cioè quella di preparare l’esecuzione di tele più grandi. Mi ritenevo soddisfatto del risultato, e tali schizzi erano per me l’opera finita. La non compiutezza dell’opera non si configurava come un difetto ma allargava anzi il campo interpretativo, invogliando il fruitore ad utilizzare la propria immaginazione. Oggi si parlerebbe di “non finito” , oppure, semplicisticamente, secondo il vostro grande semiologo Eco, di opera aperta.
CV- A proposito di schizzi, sappiamo che lei ha sempre avuto difficoltà a cimentarsi nel disegno della figura umana. Come ha vissuto questa difficoltà nel corso della sua carriera?
TJ – A dire il vero ho convissuto con questa mia pecca in modo colpevole e frustrante. Per lunghi periodi mi sono sforzato addirittura di dimenticare questo problema. Ho insomma mentito a me stesso e guardato altrove quando la cosa diveniva evidente, pur di non mettere in discussione una carriera artistica da me sognata e voluta con tutte le forze. So cosa sta pensando, e le rispondo prima che lei formuli la domanda : non so dirle se mi sono dato alla pittura di paesaggio per la paura di fallire nella rappresentazione della figura umana. È andata così…e non mi sono mai sentito di indagare oltre.
CV – Il motivo del suo successo attuale tra noi contemporanea, come lo spiega?
TJ – Be’, naturalmente i due secoli che sono passati da quando dipinsi “ A wall in Naples” permettono di poter giudicare la mia opera effettuando confronti con l’arte posteriore a me che all’epoca non erano naturalmente possibili. E’ un fatto incontrovertibile che tutte le avanguardie che si sono succedute dall’inizio del secolo scorso, hanno aperto le porte ad una interpretazione molto meno rigida delle manifestazioni inerenti all’arte. Non è un caso che oggi, riguardo a certi fenomeni, i critici e gli storici si pongano in tanti casi, la domanda se una certa produzione sia ascrivibile al mondo dell’arte o meno. Voglio però, anche a costo di ridimensionare ciò che feci allora, dire che ci furono altri grandi innovatori oltre me , e penso in modo particolare a Goya o subito dopo a Turner. Loro furono più rivoluzionari del sottoscritto. Io sono stato sostanzialmente un innovatore per caso, diciamo così, in cui le circostanze hanno avuto un peso determinante. Essi invece, erano da sempre padroni della loro arte con una forte e lucida spinta a deviare dai percorsi usuali battuti dagli artisti coevi. Quello che mi rende piuttosto orgoglioso però, è il fatto di aver dato un’interpretazione di Napoli diversa da ogni altro modo in cui è stata raffigurata. Soprattutto, ho rinunciato nella sua rappresentazione ad ogni stereotipo che fà riferimento alla categoria del pittoresco, tendenza, che a guardarmi intorno direi piuttosto ancora viva. Forse, ma non ne sono sicuro, ho colto il carattere più segreto della città.
CV – Per come la vediamo noi, le confermo questa sua supposizione. E aggiungiamo che la modestia nel riconoscere in altri, doti di innovatori più grandi di quelle che vengono a lei attribuite, le fa onore.
TJ – Ma guardi, non è modestia, credo di essere sinceramente obiettivo. Se mi permette di usare un’espressione a me cara, le dico che la mia vicenda nella storia dell’arte è stata sostanzialmente un’incidente di percorso. La mia opera non ha dato seguito a nessuna scuola e non ho avuto, all’epoca e neanche dopo, nessun emulo.
Ho dato piuttosto un piccolo contributo che, sedimentando nel tempo insieme all’apporto di tanti altri artisti, votati alla discontinuità, hanno preparato l’avvento delle avanguardie di fine ottocento, inizio novecento. Non mi permetto comunque di dire e neanche lontanamente di pensare che senza di me l’impressionismo non sarebbe mai sorto.
CV – Secondo lei, perché l’interesse che suscita la sua opera tra gli amanti dell’arte, non viene ancora condiviso dalla gran massa del pubblico?
TJ – Forse perché come le dicevo prima sono un incidente di percorso che non viene ritenuto importante dall’establishment che governa il mondo dell’arte.
Penso in ogni caso che dovrebbe di nuovo rivolgermi questa domanda tra qualche lustro. Anche Vermeer è stato riscoperto alla fine dell’ottocento. Certo non voglio stabilire un parallelo con l’immenso olandese, però sappiamo che la storia dell’arte è piena di corsi e ricorsi che determinano lunghe dimenticanze e repentine riscoperte. Posso dire che anche se non sono Vermeer, potrei nel mio piccolo rappresentare per il grande pubblico una buona attrazione. Anzi, mi permetta per una volta di esagerare, potrei rappresentare una fonte di catarsi poetica inaspettata e tutta da scoprire.
CV – Sappiamo che dopo il suo ritorno in patria, dipinse per qualche anno ancora, ma senza troppo successo e che alla morte di suo fratello John entrò in possesso dell’eredità di Pencerring, cosa che lo indusse nel 1789 a lasciare Londra per ritirarsi in Galles. Cosa gli rimase dell’esperienza napoletana?
TJ – A Napoli, ho vissuto il periodo più importante della mia vita. Sono maturato come uomo, ho avuto due figlie e ho scoperto il mio vero carattere. Inoltre, guardando a ciò che sta avvenendo due secoli dopo, sento di aver contribuito al mondo dell’arte lasciando a voi posteri opere che non sono del tutto mediocri. Si sbagliarono allora, ma l’attenzione che riscuoto oggi presso di voi, mi ripaga delle amarezze passate.
CV – Con il senno di poi, nel 1783, sarebbe tornato in patria?
TJ – No.
Di Claudio Vitagliano per ComeDonChisciotte.org
17.06.2024