DI TONGUESSY
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L’attore Luca Zingaretti, alias il commissario Montalbano, nel dare una spiegazione all’enorme successo di una serie televisiva inaugurata nel 1994, più di vent’anni fa, ha fornito una spiegazione molto interessante: «In un mondo troppo svelto, il commissario Montalbano rappresenta l’elogio e la virtù della lentezza».
Sinceramente a me non sembra che gli episodi di Montalbano siano la massima espressione della lentezza, anzi. Nel giro di poche decine di minuti Zingaretti riesce ad assicurare alla giustizia il criminale di turno nonostante le palesi difficoltà delle indagini. Nella vita reale purtroppo le cose vanno diversamente, e gli annali sono zeppi di Giorgiana Masi e Giulio Regeni. Per non parlare delle varie stragi, da Portella della Ginestra alla Moby Prince. Storie atroci senza finali sensati.
Secondo Vittorio, ex agente dei Servizi segreti che per anni si è occupato di antiterrorismo in Italia è sbagliato l’intero sistema, l’organizzazione investigativa, che contribuisce a creare caos e a rendere “misteriosi” omicidi dalle dinamiche banali.
Fatto sta che in Italia si commettono seicento omicidi l’anno e nel 40-45 per cento dei casi non si trova l’assassino. Altro che Montalbano: qui lentezza e giustizia procedono di pari passo, cioè non si muovono proprio.
Tralasciando le questioni penali, la lentezza è e rimane una costante del nostro tempo, pur dominato dalla velocità. E’ una società schizofrenica che oscilla costantemente tra le spettacolari velocità da Formula1 o gli scioglilingua rap ed i tempi esasperanti dei processi civili o di certe dinamiche sociali.
Il tempo ciclico immutabile di Verga sembra avere un posto d’onore assieme alla dedizione per la velocità di Marinetti. La modernità si coniuga per antinomie, lasciando ferite insanabili nel corpo sociale. Si passa quindi dal parcheggiare l’auto esattamente sotto al bar dopo spericolate manovre allo scopo di arrivare qualche microsecondo prima (il caffè si raffredda!), al tenere sotto scacco un’intera colonna di vetture per assecondare il proprio sonnolento bisogno di lentezza.
All’estremo opposto di chi ha trovato nell’azzardo della velocità il proprio modus vivendi, si colloca chi ha bisogno di almeno 1km di strada libera a destra e sinistra per attraversarla in auto, e quella pletora di nullafacenti che non avendo impegni prestabiliti si dilettano a creare ingorghi sociali presso uffici delle poste e del comune, supermercati, negozi e dovunque portino a spasso le loro interminabili quanto discutibili conversazioni.
Ma se una qualche ragione di tali lentezze possono essere scovate nelle lunghe giornate da riempire per chi ha ormai smesso di produrre e si dedica a tempo pieno a scovare il modo per arrivare a fine giornata, non mi riesce a trovare alcuna giustificazione per quelle persone che, in piena età lavorativa, si comportano da moribondi comunque.
Sia chiaro che questa non è una perorazione a favore del taylorismo sociale, ci mancherebbe. Piuttosto vuole offrire uno spunto di riflessione sul significato che comunemente si dà a quell’astrazione che si chiama Tempo.
“Il Tempo è relativo, il suo unico valore è dato da ciò che noi facciamo mentre sta passando”, diceva Einstein. Ecco, se una parte consistente di persone desse valore ad un tipo specifico di Tempo, potremmo anche arrivare ad una qualche conclusione: è normale passare il Tempo in un certo modo, ad esempio passare la maggior parte della propria esistenza in un ufficio con annesse ore spese in interminabili code per raggiungerlo.
Questa sarebbe la normalità che, secondo Alda Merini, “è un’invenzione di chi è privo di fantasia”. Il problema quindi, per noi dotati di fantasia, è che ci sono svariate “normalità”, ovvero differenti ed inconciliabili modi per trascinare il proprio culo dalla culla alla tomba. C’è chi sembra avere una certa urgenza di estrema unzione, e chi non dimostra di averne alcuna e in qualità di highlander (“sono in vita da quattro secoli e mezzo, e non posso morire”) si prodiga affinché il mondo si conformi a questa sua predisposizione.
Sono i figli di una scopata noiosa, secondo un’azzeccatissima definizione di Don Juan (Castaneda). La noia di quel primordiale istante pervade la loro esistenza come un marchio che non può essere modificato. La noia è il fulcro centrale attorno cui ruota la lentezza delle loro vite, e nulla ha a che vedere con la lentezza dell’ammirazione. Un cibo per essere assaporato a pieno ha bisogno di lentezza, così come ne ha bisogno un’opera d’arte o un viaggio.
Il non-fare di Don Juan si colloca al di fuori del binomia velocità-lentezza. Entrambi sono forme di fare, per quanto strano possa sembrare. La lentezza è una forma rarefatta di quel fare pruriginoso che è tipico della modernità.
Kundera nel suo libro “La lentezza” dice che “la velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo” e “chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca” . La lentezza (che lo scrittore ceco collega al ricordo) sarebbe quindi una velocità monca e non il suo antidoto. Se la modernità è velocità, la lentezza non corrisponde all’antimodernismo ma ad una esternazione di quel cancro che si chiama noia, che più spesso di quanto si immagini trova un temporaneo rimedio nella velocità.
Celentano da parte sua ci informa che “chi ha fretta è lento, chi sa aspettare è rock”, rimarcando così l’ontologia delle non appartenenze. Il cerchio si chiude: per noia ci si ritira nella lentezza oppure per noia si cavalca l’onda veloce. Il non-fare qui non si vede.
I latini, totalmente ignari di Celentano e delle sue strabilianti ontologie, avevano invece contrapposto il negotium all’otium: alle occupazioni lavorative doveva seguire un periodo dedicato alla contemplazione e allo studio. In rapporti variabili, il binomio è presente in Cicerone, Orazio, Ovidio, Seneca e giù giù fino ai giorni nostri quando otium viene ormai tradotto in ozio, termine che oggi ha assunto connotati negativi.
E qui si ritorna alla lentezza che non è otium, non è l’assaporare la vita, ma una forma bislacca di negotium, di attività. L’ultima forma di otium è andata persa con il declino della nobiltà. Per i nobili il negotium era qualcosa di inadatto ai ruoli di prestigio di chi vantava sangue blu, con tutti i prevedibili eccessi che una vita di otium portava. La modernità, dal Rinascimento in poi, pur senza disconoscere il ruolo dell’otium ha portato in prima fila il ruolo dei soldi legati al negotium. Una volta che la borghesia ebbe soppiantato la nobiltà nella gestione della Res Publica, la strada del negotium ovvero della velocità diventava spianata ed in discesa. Al punto che oggi le nuove elites si vantano di lavorare come mai prima.
Marissa Mayer, amministratore delegato di Yahoo, dichiara a Bloomberg: «Il segreto della fortuna delle aziende è quello di avere dipendenti che si impegnano duramente. Si può arrivare a una media di 130 ore alla settimana». Come si fa? «Bisogna sapersi organizzare bene. Pianificare quando dormi, quando fai la doccia e anche quanto spesso vai in bagno.» Apoteosi della velocità da negotium, e bara inchiodata sull’otium così caro ai ricchi dantan (oltre che ai latini).
Sul versante opposto del fare si colloca la lentezza che, come dicevo, è noia coniugata in altro modo. Se la velocità manageriale rappresenta una volontà di potenza (povero Nietzsche!), la lentezza ne simboleggia la mancanza: il vissuto diventa il piattume di chi è nato da una scopata noiosa e si dedica al fare poco.
Così mentre chi è obbligato ad onorare i diktat imposti dall’etica protestante (punta di diamante della Modernità) si lascia trascinare nel vortice delle pianificazioni coatte che permettono di pagare le bollette e portare a scuola i pargoli, c’è anche chi non riesce a tirare fuori dal cappello nulla che possa allentare la garrota che il sistema ci ha implementato di default.
Anzi pare ci trovino gusto nello stringere quella maledetta vite. Si sacrifica una vita alimentare sana a favore di pranzi veloci in mense o fast food per recuperare qualche minuto non dico per l’otium ma per quelle impellenze che si affastellano nella vita di ognuno; purtroppo questa rincorsa verso un ipotetico punto di equilibrio sembra davvero ozioso (oh yes!), tante sono le incombenze. Eppure c’è sempre chi trova il modo per obbligarci a seguire la sua congenita e noiosa lentezza, il che si traduce in ulteriore debito temporale, ovvero altro affanno e stress. Ne sentivamo davvero bisogno.
Un bel giorno uno dei tanti imbecilli che popolano l’emisfero settentrionale del Nuovo Mondo ha decretato: il tempo è denaro. La cosa, agli imbecilli, è sembrata assolutamente naturale. Secondo le parole dello storico Commager: “In Franklin poterono fondersi le virtù del puritanesimo senza i suoi difetti.” Lentamente e senza neanche l’assunzione di droghe, questa visione puritana di entanglement tra astrazioni ha divorato le persone di ogni latitudine e longitudine. Con un altro entraglement chiamato Lebensraum non ci andata meglio, ma per fortuna è durato relativamente poco. Fatto sta che la dedizione al dio Tempo e Denaro da allora non ha più conosciuto freni.
La velocità, ovvero l’entaglement di tempo e denaro, ormai domina una buona parte delle nostre esistenze, in ossequio al puritanesimo d’oltreoceano. La nostra esistenza conscia è dominata dalla velocità: svegliarsi presto, lavorare, un boccone poi ancora lavorare, cucinare, pulire, governare figli piccoli e genitori anziani, rispettare i vari obblighi e vincoli… significa immettersi pienamente e consapevolmente (grazie garrota!) nel grande e tumultuoso fiume carsico della velocità. Che ogni tanto sparisce, inghiottito dalla lentezza.
Come nel caso in cui si incappi in qualche coda stradale per lavori o per incidente, o perché la cassiera sta amabilmente chiacchierando con la sua anziana vicina di casa. O quando si è invischiati in qualche guaio giudiziario senza Montalbano e la velocità che lo contraddistingue. La lentezza diventa così un fattore sistemico, una delle due principali modalità attraverso cui si realizza controllo sociale.
C’è chi parla di lotta tra la parte bassa e quella alta della società, ma esiste anche una lotta tra la parte veloce e quella lenta. Ho il sospetto che i manovratori di entrambe siano gli stessi. Ai padroni del vapore fanno comodo tanto i Franklin e le Mayer quanto i nati da scopate noiose, senza i quali dovremmo riscoprire il valore dell’otium invece di inveire contro la lentezza che blocca il nostro vivere veloce.
Fonte: https://comedonchisciotte.org/
06/09/2019