DI SILVIA BARALDINI
Oggi Mumia Abu Jamal inizia il suo ventiquattresimo anno di detenzione nel braccio della morte dell’istituto penale statale SCI Greene nello stato della Pennsylvania. Costruito nel 1996, SCI Greene è basato sul sistema dei pod, moduli che isolano totalmente i detenuti. Mumia vive in una cella di 8 piedi per 12 (2,5 metri per 3,7), ermeticamente sigillata, totalmente bianca ed asettica. Nessuna immagine, fotografia o ricordo può inquinare la asetticità dell’ambiente ed il letto, il tavolo ed il piccolo armadio di metallo sono fissati al muro. Il tutto ideato per comunicare a lui, o a qualsiasi altro individuo imprigionato nelle stesse condizioni, un senso di impotenza, la deprivazione della possibilità di poter determinare anche gli aspetti più insignificanti e banali della propria esistenza. Dal lunedì al venerdì gli è permesso un’ora d’aria in un piccolo cortile collegato alla sua cella, coperto da una rete metallica e circondato da quattro pareti di cemento. Questo non avviene il sabato e la domenica. Tre volte alla settimana gli è permesso di comunicare con il mondo esterno per quindici minuti. Tutte le comunicazioni sono controllate e registrate. I colloqui avvengono una volta a settimana attraverso un muro di plexiglas. Sono passati tre anni da quando il giudice federale William Yohn, in seguito ad un appello fondato sulla dottrina del’habeas corpus (petizione di terminare l’illegale detenzione del corpo stesso di un detenuto da parte delle autorità giudiziarie) ha ribaltato la sua condanna a morte. Yohn ha giudicato incostituzionali le istruzioni del giudice Sabo alla giuria e ha ordinato una nuova sentenza per Mumia. Purtroppo il giudice ha confermato la condanna originale.
Immediatamente il procuratore ha presentato un appello alla decisione e la corte ha sostenuto la sua richiesta di continuare la detenzione di Mumia nel braccio della morte, mentre l’appello prosegue nel suo lento iter. La Corte d’appello del Terzo distretto federale ha due opzioni: confermare la sentenza del giudice Yohn o condannare Mumia nuovamente alla pena di morte. Nella prima istanza il procuratore ha già dichiarato la sua intenzione di chiedere l’ergastolo senza la possibilità di qualsiasi sconto. Purtroppo per via della legge contro il terrorismo del 1996 firmata dall’allora presidente Clinton, Mumia, come ogni condannato a morte negli Stati Uniti, ha diritto ad un solo appello.
Come molti sostenitori di Mumia temevano, l’impatto della sentenza di Yohn, che non ha messo in discussione l’impianto accusatorio né ha preso in considerazione le divergenti testimonianze oculari emerse negli ultimi anni, ha influito negativamente sulla mobilitazione nazionale ed internazionale che si era formata in sua difesa. I giorni delle grandi mobilitazioni sono finiti ed oggi sono in pochi ad occuparsi ancora di questo caso. Anche la campagna diffamatoria da parte della famiglia di Daniel Faulkner e del sindacato della polizia ha avuto l’effetto di spostare il dibattito dal rapporto tra polizia e comunità afroamericana e le sue conseguenze sul caso stesso, sul fatto che Mumia debba provare la sua innocenza. Un’impostazione che favorisce l’accusa ma contraddice il principio basilare della giurisprudenza anglosassone: la colpevolezza deve essere stabilita beyond a reasonable doubt (oltre ogni dubbio) dall’accusa e non l’innocenza provata dall’imputato.
Ma quali furono le circostanze che portarono all’arresto di Mumia? La notte del 9 dicembre 1981 Mumia intervenne in difesa di suo fratello che veniva malmenato dalla polizia di Philadelphia. Durante lo scontro sia Mumia che il poliziotto Daniel Faulkner furono feriti, in seguito Faulkner morì. Mumia fu immediatamente accusato di avergli sparato, anche se alla sua pistola calibro 38, per la quale possedeva il regolare porto d’armi, non sono mai stati attribuiti gli spari che hanno ferito ed ucciso il poliziotto. Inoltre le testimonianze oculari parlano della presenza di un altro individuo dileguatosi nella confusione e mai identificato. Non so se a distanza di ventitrè anni sarà mai possibile chiarire le circostanze di quell’avvenimento o dissipare tutti i dubbi sollevati dai colpevolisti.
Ma rimane incontrovertibile che fin dalla sua gioventù Mumia Abu Jamal si è trovato nel mirino della polizia di Philadelphia, vittima di una campagna repressiva a causa del suo coinvolgimento nel movimento di liberazione degli afroamericani. In un primo momento per il suo attivismo come membro delle Pantere Nere, poi come giornalista indipendente e difensore mediatico della comunità afroamericana di Philadelphia e poi come sostenitore di Move, l’organizzazione fondata da John Africa, la cui ideologia sosteneva un totale rigetto del capitalismo e la costruzione di comunità alternative imperniate su uno stile di vita biologico. Mumia era stato licenziato dalla radio, dove lavorava, per aver duramente condannato gli sgomberi di Move dalle loro case da parte della polizia.
In particolare aveva guadagnato l’odio del potente capo della polizia, successivamente anche sindaco di Philadelphia nel ‘81, Frank Rizzo, che aveva guidato la repressione contro le Pantere Nere. Nel suo ultimo libro, We Want Freedom (Vogliamo la nostra libertà), Mumia racconta come Rizzo dopo lo sgombero della sede principale del partito avesse costretto tutti i presenti a sfilare per le strade del quartiere a marcia indietro, completamente nudi e con le mani alzate. Bisogna ricordare che nel 1984 per “stanare” i ribelli di Move le autorità municipali avevano scelto di bombardare il quartiere dove si trovavano le abitazioni dell’organizzazione distruggendo ben 66 case e radendo al suolo interi isolati.
Mumia non ha mai esitato a denunciare questi soprusi ed a utilizzare la sua professione per segnalare le violazioni dei diritti umani da parte del governo americano, da Philadelphia all’Iraq. Particolarmente efficace sono stati gli articoli scritti da Mumia dopo le foto di Abu Grahib nelle quali aveva riconosco una guardia carceraria di SCI Greene tra gli aguzzini. Il luogo era cambiato ma non il comportamento.
Per quanto fisicamente isolato continua la sua denuncia da dietro le “sbarre”. E’ la sua voce che deve essere messa a tacere a tutti i costi. Negli Stati Uniti del dopo 11 settembre il prezzo del dissenso e della opposizione si è elevato e non è impensabile che l’esecuzione di Mumia diventi di nuovo un obiettivo prioritario. Ma anche l’alternativa di lasciarlo languire nell’isolamento del suo pod non è accettabile.
E non paga riporre speranza che il tanto screditato sistema di giustizia americano possa riconoscere che nel caso di Mumia Abu Jamal sono stati commessi errori di metodo e di sostanza. Questo anniversario deve essere l’occasione di riattivare in Italia la campagna a suo favore e di muoversi per ottenere una soluzione politica, quale la concessione della grazia da parte del presidente americano.
Silvia Baraldini
Fonte:www.liberazione.it
9.12.04