LA VERITA’ NELLA STORIA

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DI ROMOLO GOBBI

Dialogos

In occasione della traduzione in francese di due miei vecchi libri, sperando che destino maggior interesse di quanto ne hanno ottenuto in Italia, mi sono deciso a tentare un nuovo contatto con i lettori italiani. Approfitto della rete anche per divulgare un libro, arrivato alle seconde bozze, ma mai stampato in Italia: “Tre piccoli popoli eletti”, una storia parallela di Irlanda del Nord, Sudafrica e Israele. Ancora una volta, ho insistito sull’importanza del mito nella determinazione della storia, senza ignorare gli interessi economici e le forze politiche. Più in generale, il metodo storico da me usato è la sintesi delle tre grandi metodologie della storiografia moderna: il materialismo storico, il “lungo periodo” de “Les Annales” e l’importanza della religione, sostenuta da Toynbee. Il risultato dovrebbe essere una visione della storia ispirata alla “teoria della complessità”, libera dagli schemi razionalisti e non influenzata dal mito occidentale del progresso infinito.

Esiste un concetto di verità che è dominante tra la gente: è vero ciò che è accettato dalla maggioranza della popolazione. A pochi viene il dubbio che questa verità sia il risultato di manipolazioni cultural-politiche finalizzate a coprire altre verità e, spesso, interessi nascosti.

Eppure esiste anche a livello della saggezza popolare il detto: “la verità offende”. Dunque, non sempre, o meglio, raramente, la verità coincide con il pensiero dominante, sostenendo il quale si ricevono onori e riconoscimenti. Se invece la verità enunciata suscita reazioni indignate, vuol dire che essa ha toccato nel vivo interessi costituiti, carriere costruite, pigrizie consolidate.Le reazioni indignate all’uscita dei libri di Pansa “Il sangue dei vinti” prima e “La grande bugia” poi, dimostrano la validità del concetto popolare che “la verità offende”. Ma dimostrano anche la validità dell’assunto che esistono nella storia sempre due verità, quella dei vinti e quella dei vincitori. Dunque, si potrebbe concludere che in storia la verità ultima debba sortire da una mediazione tra la verità dei vinti e quella dei vincitori. In questo senso sembrerebbe muoversi l’accordo firmato tra Francia e Germania di costituire un’équipe di storici delle due nazioni per scrivere un testo di storia comune per le scuole dei due Paesi, sebbene a distanza di quasi due anni dall’annuncio dell’iniziativa ancora non si sia sentito nulla. In realtà, nonostante la buona volontà, le due verità possono dimostrarsi incompatibili: basti pensare che esistono quattro versioni contrapposte del conflitto che ha scisso l’ex Jugoslavia e che nei vari tronconi gli studenti devono studiare la versione serba, o quella croata, o quella bosniaca o quella slovena. In questo caso è chiaro che il lavoro di mediazione tra storie diverse si fa sempre più complesso.

Bisogna dunque far ricorso ai principi della teoria della complessità, la nuova scienza che unifica varie branche dello scibile umano, dalla fisica alla biologia, all’etologia, all’antropologia culturale e alle scienze cognitive. Queste ultime riuniscono la psicologia con la neurologia, la filosofia, l’informatica, le reti neuronali, l’intelligenza artificiale. Una delle prime scoperte delle scienze cognitive è che il nostro cervello funziona secondo lo schema vero-falso, che corrisponde allo 0-I dell’informatica, o alla corrente, aperto-chiuso, dell’elettronica. Dunque il nostro cervello costruisce delle griglie che fanno passare solo le informazioni che rientrano nella categoria di vero e respingono quelle che contrastano con questa.
Per superare questo schema fissato dalla natura nel nostro cervello non basta cercare una mediazione tra i due poli contrapposti, bisogna invece cercare un terzo polo, che si contrapponga agli altri due in modo da ricostruire una nuova polarità vero-falso. Ovvero, per usare lo schema fondamentale della politologia, “amico-nemico”, bisogna individuare un nuovo nemico, che accomuni vincitori e vinti (francesi e tedeschi). Solo così si potrà costruire una nuova verità che superi le precedenti. L’operazione non è semplice, soprattutto se il nuovo nemico comune è anche l’unico, vero, vincitore. Infatti, il vincitore avrà costruito una sua verità, che sarà quella dominante e a sostegno del dominio culturale ci sarà il dominio economico e finanziario della potenza vincitrice.

Ragionando da europei, quali siamo, potremmo individuare facilmente l’antagonista comune, quello che si contrappone economicamente alla crescita europea e che ha imposto alla cultura europea la sua verità storica. Sto parlando degli USA, la cui politica recente è nettamente contrapposta a quella europea, anche se pare che alcuni governi europei non se ne siano accorti mentre altri sono scesi a compromessi con la potenza dominante.

In realtà, la storia degli Stati Uniti è stata sempre improntata dall’antieuropeismo, fin dalle origini, ma soprattutto per tutto il XX secolo. Per capire questa verità bisogna scoprire le basi su cui poggiarla: le potenzialità espansive dell’economia americana fin dalla fine dell’800 erano ostacolate dagli imperi coloniali europei, che costituivano dei mercati esclusivi per le nazioni colonialiste. E’ stato dunque interesse prevalente degli USA eliminare gli imperi coloniali europei per arrivare al mercato globale di cui tanto si parla oggi, che non esce dal cappello di Smith o Marx, ma dalla politica estera americana fin dall’800. Prima ancora della dottrina Monroe, che escludeva esplicitamente l’Europa dal continente americano, vi furono le dichiarazioni d’indipendenza degli stati del centro e del sud America, alle quali contribuì certamente la politica USA.

Dopo questo primo attacco all’impero portoghese e spagnolo, vi fu la guerra ispano-americana (Remember the Maine the evil to Spain) con la conquista di Cuba, con l’accaparramento della famigerata base di Guantanamo e la conquista delle Filippine, che procurarono agli USA una sanguinosa guerriglia. Eliminato l’impero spagnolo, restavano da eliminare i più vasti imperi europei: quello inglese, quello francese e quello tedesco.
La versione ufficiale della prima guerra mondiale descrive gli USA come potenza pacifica e neutrale, che però neutrale non fu, perché finanziò fin dall’inizio gli Alleati in misura enorme (basti pensare che l’ultima rata del debito inglese avrebbe dovuto essere pagata nel 1986 ! ). L’intervento finale degli americani venne solo quando stavano per vincere le potenze centrali e quindi le banche USA avrebbero perso enormi fortune. In effetti, le nazioni europee prima della guerra vivevano pacificamente da vari anni nel cosiddetto “Concerto europeo” dominato dall’alta finanza, trasversale e unificante gli stati europei. Senza il finanziamento americano l’Europa non si sarebbe dilaniata in quello che è stato definito “il più grande errore della storia moderna” (Niall Ferguson, “La verità taciuta”, Corbaccio). In conseguenza della I guerra mondiale sparirono gli imperi minori, quello germanico, quello russo e quello ottomano. Ma gli imperi più grandi di Francia e Inghilterra finirono per ingrandirsi a spese di quello tedesco e ottomano. E proprio per questo gli USA, che avevano dichiarato di essere contrari alle annessioni, si ritirarono in isolamento, senza però dimenticarsi che la loro potenza economica, cresciuta durante la guerra, necessitava di più vasti mercati e aveva come principali ostacoli l’impero inglese e quello francese.

Fu così che gli USA finanziarono Inghilterra e Francia perché dichiarassero una nuova guerra alla Germania. Alla fine questa perse la guerra, ma sparirono anche in pochi anni gli imperi inglese e francese e subito quello degli alleati dei tedeschi, gli italiani e i giapponesi. Ecco che l’industria americana, che aveva superato il 50% dell’intera produzione industriale mondiale, potè avere il suo mercato globale o quasi. Per ottenere la globalizzazione completa gli USA dovettero affrontare e vincere la guerra fredda con l’URSS. Tra l’altro, l’ideologia ufficiale della II guerra mondiale vede schierate le democrazie contro gli stati totalitari, dimenticandosi appunto che il principale alleato delle democrazie era lo stato superautoritario dell’Unione Sovietica. Esiste un’enorme letteratura sugli espedienti usati da Roosvelt per costringere gli Stati Uniti ad entrare in guerra (Pearl Harbour) e per convincere la maggioranza degli americani (di origine tedesca, italiana, irlandese, ma anche ebrei contro il mandato britannico in Palestina) e dei loro rappresentanti al Congresso.

Eppure la verità ufficiale sulla II guerra mondiale è quella che si trova sui libri di testo dei vinti e dei vincitori. Scalzarla non sarà un’impresa facile, anche perché gli USA, oltre al dominio economico e finanziario sul mercato globale, hanno anche realizzato un impero mediatico a livello mondiale. Infatti la prima entrata del commercio americano deriva proprio dalla vendita all’estero dei prodotti mediatici americani: films, televisione, musica, etc… Quanti films abbiamo visto sulla II guerra mondiale! E continuano ancora a farne! I films americani distribuiti in Europa durante un anno costituiscono circa il 70% dell’intero mercato e forniscono agli USA approssimativamente il 60% dei circa 9,6 miliardi di dollari delle entrate americane annue per films prodotti a Hollywood.

E’ per mantenere questo dominio mediatico-economico che gli USA, dopo quasi vent’anni, sono tornati a far parte dell’UNESCO, l’organizzazione dell’ONU che si occupa di educazione, scienza e cultura. Infatti, durante la 32a sessione della Conferenza Generale dell’UNESCO, tenutasi a Parigi nel 2003, era prevista l’approvazione di una “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale” dei vari paesi, che consentisse a i singoli stati di difendere la propria cultura, intervenendo a finanziarne i prodotti. Gli USA fin dall’inizio della Conferenza hanno fatto conoscere la loro opinione contraria all’adozione di una Convenzione di questo genere (“Bad Idea”), che li avrebbe danneggiati sul piano economico e ideologico, pretendendo che i prodotti culturali fossero trattati come tutte le altre merci per le quali è vietato ogni intervento degli stati nella produzione e nella difesa dei prodotti nazionali.
Ciò nonostante, la Conferenza ha adottato il 17 ottobre 2003 a schiacciante maggioranza dei 3000 delegati dei 199 paesi membri, una Convenzione per la “Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale”, e cioè “le tradizioni e le espressioni orali, comprese le lingue, in quanto vettori del patrimonio culturale, le arti dello spettacolo …”, e che consente il contributo degli stati in difesa delle proprie espressioni culturali.

Naturalmente gli USA hanno votato contro e comunque non sarebbe la prima volta che gli Stati Uniti si rifiutano di ratificare trattati approvati da quasi tutti i Paesi, come l’accordo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni che provocano l’effetto serra o quello che istituisce la corte internazionale sui crimini contro l’umanità e, infine, quelli che vietano la produzione e l’uso delle mine anti-uomo e delle bombe a frammentazione.

Tutta la vicenda della 32a Conferenza dell’UNESCO non ha avuto alcun riscontro sulla “libera” stampa italiana, nonostante si trattasse di problemi vitali per la cultura e l’economia del Paese. Il pensiero unico dominante non solo ci fornisce le versioni addomesticate dei fatti, ma ci nasconde anche i fatti quando questi parlano da soli.
Dunque, se si vuole essere all’altezza del conflitto in corso tra America ed Europa, anche la verità storica deve produrre le proprie armi per difendersi dalle pretese egemoniche di un pensiero unico a livello globale.

Romolo Gobbi
Fonte: http://www.romologobbi.com/index.asp
Link: http://www.romologobbi.com/articoli.asp?id=14
20.05.2007

Il testo, aggiornato e ridotto, di una mia conferenza “La verità nella storia”, tenutasi a Milano in occasione della Giornata di Studio: “La Storia, La Scuola, La Memoria”

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