Il 30 novembre del 1994 muore suicida il filosofo francese Guy Debord. Nato il 28 dicembre del 1931, Debord è stato il cofondatore nel ’52 dell’Internazionale Lettrista e nel ’57 dell’Internazionale situazionista, il movimento che metteva in stretta relazione il pensiero e l’azione, l’arte e la vita. Il suo saggio più famoso, “La società dello spettacolo”, è stato un importante punto di riferimento per i movimenti del ’68 e degli anni Settanta, francesi e italiani.
DI FRANCO BERARDI BIFO
Il 30 novembre di dieci anni fa, commentando a caldo la morte di Debord, scrissi un pezzo che iniziava con la frase: il suicidio di Debord non è altro che il suicidio di Debord e non è legittimo interpretarlo come un momento del suo pensiero. E’ vero, non è giusto interpretare un gesto così complesso come il suicidio sulla base delle semplici complicazioni della politica o della filosofia. Oggi però dovremmo ragionare non solo sull’eredità teorica che il situazionismo ha lasciato, ma anche sulla premonizione che quel suicidio portava dentro di sé. D’altronde possiamo oggi rileggere l’intera esperienza del situazionismo come una premonizione, un presagio doloroso.
Il movimento situazionista si dissolse nel momento in cui sui muri di Parigi compariva la scritta “l’immaginazione al potere”. Il ’68 portava a compimento il sogno delle avanguardie storiche, del dadaismo, del surrealismo, il sogno dell’abolizione dell’arte e della vita quotidiana, e soprattutto della fusione di arte e vita quotidiana, il sogno di una vita in cui la differenza prevalesse sulla ripetizione. Ma, come abbiamo poi scoperto, l’immaginazione si è cristallizzata nell’Immaginario, e il predominio dell’immaginario ha paralizzato l’immaginazione. Macchine di produzione omologata dell’Immaginario hanno infiltrato la mente collettiva, e l’hanno cablata introducendovi automatismi psichici, linguistici, relazionali. Dobbiamo «riconoscerlo: la società reale non è più capace di immaginare nulla che non sia stato prodotto nei laboratori del Sistema Globale Omologato.
Questo effetto di omologazione dell’immagin/azione da parte dell’Immaginario Debord lo chiamò (nell’opera sua più celebrata) “spettacolo”. Spettacolo è ciò che deve essere visto, ma non può essere in nessun caso vissuto.
La generazione del ’68 lascia dietro di sé un’eredità tragica. L’attesa di felicità era costitutiva della cultura di quella generazione che, nata dopo la guerra più devastante della storia, si riprometteva di non subire mai più una violenza così disumana.
Ma quella attesa è stata delusa, e delusa due volte. Anzitutto la costruzione di comunità singolari di felicità extrastorica (situazioni) non è stata perseguita, non è stata organizzata scientificamente, perché ci si attendeva (dialetticamente) la felicità dalla storia, dall’inverarsi del Comunismo, dal sopravvenire di una totalità non alienata. In secondo luogo perché la storia non è il luogo della felicità, e ciò garantisce l’infelicità dei dialettici.
Sottrarsi alla storia, sottrarsi alla sua pretesa totalizzante, e così svuotare la totalità dello sfruttamento e della guerra. Questo è ciò che il situazionismo avrebbe potuto indicare, se non fosse stato hegeliano. Cosa altro vuol dire d’altronde “situazione” se non proprio questo: uno spazio esistenziale immaginato e costruito secondo regole che non obbediscono a nessun principio di totalità? Ma il ’68 (e il situazionismo con lui) non ha saputo pensarsi come fuga, come sottrazione, come diserzione attiva. Ha voluto concepirsi come nuova totalità da instaurare.
Debord è stato l’ultimo degli hegeliani, l’ultimo grande dialettico, anche se ha saputo paradossalmente percepire il formarsi di un campo nel quale la dialettica non ha più alcuna efficacia, né interpretativa né pratica.
La realtà attuale del semio-capitalismo che si dispiega attraverso la trasformazione digitale della produzione comunicativa non assomiglia affatto a una negazione dialettica, e non procede a nessun processo di totalizzazione. Al contrario, è la frammentazione che prende il sopravvento nell’universo sociale della rete. E l’attesa dialettica è divenuta una trappola, ha impedito di volgere al positivo in forma di situazioni felicemente singolari, la potenza conoscitiva produttiva immaginaria esistenziale di cui la società post sessantottarda è divenuta capace.
E così la potenza produttiva del lavoro cognitivo si è rivolta contro l’esistenza e la felicità dei lavoratori cognitivi, la potenza spettacolare della comunicazione sociale si è rivolta contro la comunicazione sociale intesa come processo di condivisione vissuta.
Debord ha visto il limite della dialettica, ma non ha voluto superarlo, andare oltre, uscire dall’ossessione della totalità storica, e andarsene libero per la sua strada. Quando qui dico Debord voglio dire tutti noi, che non abbiamo saputo (né sappiamo né forse sapremo mai) liberarci da Hegel, liberarci dall’orizzonte storico. Il punk, che continuò consapevolmente il percorso del movimento situazionista, ha percepito il dissolversi di ogni possibile totalità futura. Il grido “no future” segnalò che nessuna totalità tollerabile sembra più essere possibile. E il suicidio è divenuto un comportamento socialmente diffuso, o addirittura un’arma contro gli altri e contro se stessi, l’unica via di fuga dalla intollerabile sofferenza di un esistere di cui è cancellato il senso.
Franco Berardi Bifo
Fonte:www.liberazione.it
1.12.04