La nostra Meglio Gioventù e le Aziende italiane

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di Katia Migliore per ComeDonChisciotte.org

Pare che la tendenza del mondo del lavoro qui in Italia sia la seguente: si chiede l’esperienza anche ai neo laureati, possibilmente un paio d’anni, e poi gli si offre un bello stage a 500 euro al mese. Come a dire: caro giovane, non ho tempo di formarti, forse non ho neppure le persone per farlo, meglio se arrivi sapendo già di che si tratta così non perdiamo tempo, e comunque ringraziami perché senza di me saresti a casa sdraiato sul divano.
La situazione del mondo del lavoro per i nostri giovani è sempre più paradossale. Mi chiedo che cosa spinga le aziende italiane a chiedere ai nostri ragazzi appena usciti dal percorso scolastico e universitario di essere già “specializzati” in un determinato settore, e perché i nostri imprenditori hanno deciso di smettere i panni anche dei formatori di nuove risorse. L’apprendistato lavorativo che ha contribuito a creare la ricchezza del nostro patrimonio di conoscenze tecniche e artigianali è dunque definitivamente morto e defunto? Il valore sociale dell’impresa è un’idea da abbandonare definitivamente?

La scuola non è un posto di lavoro. Solo il contesto lavorativo può insegnare i fondamentali, e questo era un dato scontato fino ad alcuni decenni fa.
Il rapporto del nostro Paese con le nuove generazioni resta conflittuale: è ormai da anni che non si sentono ben volute in Italia, ed è per questo che sono sempre più spinte a cercare all’estero nuove speranze. La scelta di espatriare pare essere l’ultima soluzione
estrema, inevitabile in una condizione che sembra non offrire vie di scampo né visione del futuro.
La mobilità cresce sempre più perché l’Italia, con i suoi Governi da trent’anni indifferentemente di destra o sinistra, ha definitivamente messo da parte le politiche industriali e culturali adatte a offrire a un giovane il miglioramento del proprio status sociale, o anche semplicemente la realizzazione dei suoi sogni. Le condizioni indispensabili per crearsi una vita e possibilmente una famiglia accedendo a un lavoro sicuro sono venute a mancare. Noi sappiamo, per quanto questo fenomeno vada a mio avviso ulteriormente studiato e approfondito per evitare generalizzazioni, che c’è spesso sofferenza nei ragazzi italiani quando decidono di abbandonare il nostro Paese: chi parte lo fa tristemente e con la certezza di non avere alternativa. Ma noi adulti non possiamo biasimare questa scelta. Semmai dovremmo cominciare a chiederci quale sia il vero problema e cosa cominciare a fare per stimolare un’inversione di tendenza.

Partiamo dalle retribuzioni: è certo che la prima occupazione del neolaureato è pagata di più che in Italia. Non è difficile, del resto. Il nostro stage, mediamente, viene pagato dai 500 agli 800 euro al mese, talvolta con i buoni pasto, quasi mai i rimborsi per gli spostamenti. Perciò è un dato di fatto certo che la prima occupazione in Italia non permetta di raggiungere una sufficiente autonomia finanziaria.
Altro che pigrizia. Altro che giovani “mammoni”. Non ci si campa, con poche centinaia di euro al mese, ci tocca ribadire l’ovvio. E mentre la nostra classe politica fingeva di voler studiare delle soluzioni, nel 2021 35mila under 35 anni hanno spostato la residenza all’estero. Un’emorragia continua.
In Germania e Francia le retribuzioni di partenza sono nella media di 30.000-40.000 euro lordi annuali, raggiungendo in alcuni casi i 45.000 di retribuzione al primo impiego in Germania. In Gran Bretagna lo stipendio è legato all’età anagrafica, dopo i 22 anni si calcola all’incirca minimo sui 10 euro all’ora. Indipendentemente dal grado di istruzione e dal tipo di lavoro, espatriare per fare esperienza all’estero ai nostri ragazzi conviene di sicuro. Ci sarebbe da scommettere però che se ci fosse la possibilità di lavorare in Italia con stipendi appena poco più che decenti il fenomeno migratorio si ridurrebbe già in modo significativo.

Eppure, mi sembra di poter dire che non sia solo un problema di retribuzioni e stipendi. Torniamo alle domande iniziali di questo articolo e le responsabilità dell’imprenditoria italiana. A fronte di giovani con laurea triennale o magistrale, o anche master, sta aumentando progressivamente la tendenza da parte delle aziende di cercare e assumere con contratto di tirocinio anche giovani con esperienza di uno-due anni. Cioè può capitare di richiedere l’esperienza lavorativa a giovani appena usciti da una scuola, Università o Accademia, e in più pagarli molto poco indipendentemente dal loro percorso curricolare.

Una sorta di mentalità per la quale la botte ha sicuramente da rimanere piena nonostante la moglie ubriaca.
Colpa del costo del lavoro, si potrebbe dire. Si, eppure ci vedo anche un problema di mentalità. L’esperienza è ricchezza per un giovane, perché gliela si nega? Perché l’acquisizione di competenze lavorative di un ragazzo non può essere concepita anche come un investimento a medio-lungo termine aziendale?
Ribadiamo: giovani che hanno studiato per anni e che magari hanno anche lavorato per qualche anno, pagati 500 euro al mese. E se fossero anche 800 euro al mese la questione non cambierebbe: trattasi di stipendio da miseria.
Problemi di domanda e offerta, ci raccontano. Problema del costo del lavoro, la congiuntura economica, il contratto nazionale di lavoro e così via. Tutto plausibile, la difficoltà di sopravvivenza delle nostre imprese è fatto noto, e può essere tema di un altro dibattito. Ma la mentalità per cui non è più l’azienda che deve formare durante l’apprendistato il giovane lavoratore è sempre più diffusa e radicata e non è solo frutto di decisioni legate al conto economico.

Lo sconcerto di giovani che si sentono dire che i loro studi non bastano per trovare lavoro è qualcosa di palese, e non ci fa del bene. Va detto una volta per tutte: questa è una Nazione che ha bisogno di fare pace coi suoi giovani, con il suo futuro. Troppa denigrazione, troppa poca voglia di seguirli, di insegnargli come funziona il mondo del lavoro. E allora, oltre alle retribuzioni, proviamo a dare degli spazi, proviamo ad ascoltarli, creiamo condizioni ideali perché possano esprimere la loro creatività, realizzare i loro sogni. Insegniamo loro anche a lottare per ciò in cui credono. Insomma, facciamo in modo che tornino in Italia, anzi, facciamo in modo che non desiderino partire proprio, se non per fare un’esperienza diversa, mai forzata però.

“Nessuno nasce imparato”, diceva Totò. Cerchiamo di non dimenticarlo.

Katia Migliore

Pubblicato da Tommesh per ComeDonChisciotte.org

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