di Zory Petzova, ComeDonChisciotte.org
La Pandemia è la nuova Ideologia dominante, che ha prepotentemente annullato dal discorso pubblico ogni altra categoria del sapere, ogni confronto, tema o sentimento che non abbiano qualcosa da dire sulla sua emergenza. Non importa se in chiave confermativa o sottrattiva, perché quello che si evince è il monopolio del discorso, che per riflesso diventa ordinatore sociale, criterio della ragione pratica, anche quando non ha nulla a che vedere con la ragione critica.
La semiotica della pandemia si configura nella triade dei nuovi simboli-feticcio che rischiano di penetrare e di imprimersi nella memoria dell’inconscio collettivo per generazioni a venire, determinando un nuovo linguaggio e una nuova antropologia, e facendo sbiadire contenuti essenziali non più funzionali e cogenti alla ‘nuova normalità’. La triade è composta dal tampone come mezzo diagnostico del tutto inidoneo e inaffidabile, dalla mascherina falsamente protettiva e dannosa per la salute, e dal vaccino inutile e pericoloso: una relazione a tre fra lo pseudoscientifico, il superstizioso e l’esoterico di ultima generazione. D’altronde, una ideologia per imporsi non deve convincere gli adepti con prove e argomentazioni scientifiche, bensì deve saper adoperare i meccanismi del condizionamento secondario, quello sperimentato da Pavlov, con la giusta dose di dogmatismo e di suggestione al contempo – quel inestricabile miscuglio fra vero, vago e fraudolento.
Se la mascherina è l’attributo omologato che copre la parte con cui ci presentiamo e comunichiamo con il mondo, cioè il viso, imposta dalle autorità ma benaccetta dalle maggioranze spaventate, bisogna chiedersi se in effetti non fosse l’incoronazione meritata di una evoluzione anomala, durata centinaia di migliaia di anni per giungere a questa deriva, e se tale processo avesse potuto andare diversamente. Un’evoluzione declinata verso una sempre crescente fragilità psico-fisica della specie, verso una ‘psicotizzazione’ della paura egoica, degenerata in auto-asfissia, privazione d’aria, separazione dal mondo, autolesionismo cerebrale.
Vediamo alcuni punti rilevanti della sperimentazione scientifica sulla mascherina come presidio medico, ossia quello a cui è preposta come obbligatoria nell’attuale contesto pandemico, trama sperimentale non certo priva di contraddizioni e di dettagli che pochi conoscono, un oscuramento di conoscenza che si iscrive senz’altro alle logiche di una medicina modificabile secondo interessi corporativi, di cui è sufficiente ricordare con poche righe le origini.
Negli inizi del 1900 il magnate del petrolio John Rockefeller prende il controllo su ogni giornale e mezzo di informazione, ma, non soddisfatto, decide di mettere mano sull’industria farmaceutica, influenzando, attraverso i lobby, le politiche e le norme legislative del sistema sanitario americano, rendendole progressivamente sempre più funzionali all’enorme potenziale commerciale del settore farmaceutico. Questo comporta il tramonto della medicina classica come approccio olistico alla salute psico-fisica dell’individuo e l’inizio dell’imposizione di protocolli di cura omologati e depersonalizzati, favorendo le carriere accademiche e professionali di chi promuove la nuova visione della medicina – quella che considera la salute non più un bene da proteggere, ma una risorsa su cui speculare e realizzare enormi profitti. Grazie a questa tendenza oggi in quasi tutto il mondo la medicina è nelle mani non dei medici che si comportano secondo il giuramento di Ippocrate, ma di affaristi titolati la cui unica preoccupazione è il profitto, o l’insano personalismo carrieristico con cui condizionare le norme medico-sanitarie.
Fra medici e ricercatori dediti al riscontro empirico, ci sono stati sempre quelli che hanno cercato di mettere luce su usi e protocolli accettati come necessari senza una prova di utilità, e fra tali verifiche risultano anche quelle svolte sulla mascherina chirurgica, considerando che finora il suo uso è stato ritenuto esclusivo all’ambiente ospedaliero. La letteratura medica degli ultimi 45 anni è comunque coerente e inequivocabile: le maschere sono inutili nel prevenire la diffusione di malattie e infezioni, sono elementi decisamente antigenici che diffondono esse stesse batteri e virus. Il punto che sorprende è proprio questo – che la gran parte degli esiti della ricerca non registrano la semplice indecisione fra si e no, fra utilità e inutilità dell’accessorio medico, ma una prevalenza di conclusioni che vedono la maschera un fattore di relativa utilità e addirittura negativo per lo status di salute del portatore, eccetto pochi casi di effettiva protezione. Ma andiamo con ordine:
1) Il primo gruppo di studi riguarda il livello di protezione delle maschere chirurgiche, indossate dal personale medico, nei confronti di pazienti operati, essendo quest’ultimi i soggetti più fragili ed esposti a infezioni- sia per le ferite chirurgiche che riportano, che per un sistema immunitario compromesso:
– il primo studio eseguito sulla maschera chirurgica è quello di Ritter et al del 1975, intitolato “The operating room environment as affected by people and the surgical face mask”, che arriva alla conclusione che: “I conteggi microbiologici sono stati determinati in una sala operatoria di 8 stanze e un corridoio. La conta batterica in una sala operatoria vuota è balzata statisticamente da 13 CFU / ft2 / ora (+/- 31) a 24,8 (+/- 58,8) quando le porte sono state lasciate aperte (persone nei corridoi) e 447,3 (+/- 186,7 ) quando sono state presentate 5 persone. L’uso di una mascherina chirurgica non ha avuto effetto sulla contaminazione ambientale complessiva della sala operatoria e probabilmente funziona solo per reindirizzare l’effetto proiettile del parlare e del respiro. Le persone sono la principale fonte di contaminazione ambientale in sala operatoria.” (1) Quindi lo studio afferma che dove ci sono esseri umani che respirano, lì ci sono batteri e virus che circolano, e le mascherine non cambiano la concentrazione di patogeni nell’aria.
– negli studi di Tunevall del 1991 il team chirurgico non indossa maschere per metà delle sue operazioni per due anni. Dopo 1537 operazioni eseguite con maschere, il tasso di infezione della ferita è del 4,7%, mentre dopo 1551 operazioni eseguite senza maschere, il tasso di infezione della ferita è solo del 3,5%. Quindi il risultato è perfino contrario a quello aspettato, anche se lo studio dice che tali differenze non sono statisticamente rilevanti, tuttavia conclude che: “Questi risultati indicano che l’uso di maschere facciali potrebbe essere riconsiderato. Le maschere possono essere utilizzate per proteggere il team operativo da gocce di sangue infetto, ma non è stato dimostrato che proteggano il paziente operato da un team operativo sano.” (oggi si direbbe asintomatico, ndr) (2)
–nel 1997 un team di Cambridge esegue un apposito studio sul nuovo modello di maschera chirurgica e conclude che: “man mano che la tecnologia ha sviluppato nuovi materiali e design, la loro efficienza di filtraggio è gradualmente migliorata. Tuttavia, non esiste un metodo di test standard per valutare tale capacità, e la sua influenza sui tassi di infezione della ferita chirurgica deve ancora essere dimostrata. Al contrario, studi sia in vitro che in vivo indicano che una maschera potrebbe non essere universalmente necessaria nell’ambiente chirurgico.” (3)
– nel 2001 uno studio di Lahme et al, eseguito sulle maschere dei pazienti conclude che: “Le maschere chirurgiche indossate dai pazienti durante l’anestesia regionale, non hanno ridotto la concentrazione di batteri presenti nell’aria nel campo operatorio nel nostro studio. Quindi sono superflue. Una maggiore concentrazione di germi nell’aria è stata rilevata nei pazienti durante l’anestesia generale. Le ragioni di questo risultato sono sconosciute, ma si può discutere come risultato di una maggiore attività e numero di personale coinvolto durante l’anestesia generale che causa più turbolenza dell’aria.” (4)
– nel 2009 Z. Bahli conduce una revisione sistematica della letteratura intitolata “Does evidence based medicine support the effectiveness of surgical facemasks in preventing postoperative wound infections in elective surgery?” e conclude che: “non vi è alcuna differenza significativa nell’incidenza di infezione della ferita postoperatoria tra gruppi con maschere e gruppi operati senza maschere”. (5)
– nel 2010 i chirurghi del Karolinska Institute in Svezia, riconoscendo la mancanza di prove a sostegno dell’uso di maschere, smettono di richiederle nel 2010 per anestesisti e altro personale di sala operatoria. “La nostra decisione di non richiedere più maschere chirurgiche di routine per il personale “impuro” che non esegue direttamente un intervento chirurgico è un allontanamento dalla pratica comune. Ma non ci sono prove a sostegno di questa pratica”, scrive la dottoressa Eva Sellden. (6)
– nel 2010 J. Webster et al esamina interventi chirurgici di vario genere eseguiti su 827 pazienti, dove tutto il personale ‘impuro’ indossa maschere in metà delle operazioni e nessuno dei membri del personale ‘impuro’ indossa maschere in metà delle operazioni e conclude che: “Le infezioni nel sito dell’intervento si sono verificate nell’11,5% del gruppo mascherato e solo nel 9,0% del gruppo non mascherato.” Di nuovo abbiamo un risultato inverso a quello atteso. (7)
-fra 2014 e 2016 vengono effettuati diversi studi e revisioni (Lip and Edwards, Carøe, Salassa e Swiontkowski, Zhou et al, Vincent ed Edwards e altri) e tutti pervengono unanimemente che non ci sono prove che le maschere possono ridurre il rischio di infezione sulle ferite chirurgiche o sul trattamento postoperatorio dei pazienti.
2) Vediamo invece gli studi che riguardano il livello di protezione delle mascherine per il personale medico esposto a pazienti portatori di infezioni:
– nel 2015, all’Università di Oxford (Dipartimento di Scienze chirurgiche) si svolge probabilmente lo studio più dettagliato, intitolato “Unmasking the surgeon: the evidence base behind the use of facemasks in surgery”, sull’utilità e il grado di protezione delle maschere chirurgiche, sia per il paziente esposto al contatto con il personale medico, che per il personale medico esposto a infezioni di vario ordine provenienti dai pazienti. Le conclusioni dello studio sono le seguenti: “Le maschere hanno un ruolo chiaro nel mantenere la pulizia sociale del personale chirurgico, ma mancano prove che suggeriscano che conferiscono protezione dalle infezioni ai pazienti o ai chirurghi che le indossano”. Però, visto che la percezione pubblica è a favore delle maschere e “dato che non ci sono prove che causino alcun danno, i sostenitori preferirebbero essere prudenti e incoraggiare il loro uso continuato… Nella psiche pubblica, le maschere sono diventate così fortemente associate a pratiche chirurgiche sicure e corrette che la loro abolizione potrebbe causare inutili sofferenze al paziente.” Lo studio riconosce l’effetto psicologico della maschera sia per il paziente che per il chirurgo, per il quale indossare la maschera è spesso una questione di rispettabilità, ma per quanto riguarda gli effetti empirici, lo studio riconosce che l’unica utilità accertata della maschera è fungere da barriera fisica contro il rischio di schizzi di sangue e fluidi corporei, un rischio maggiore per il chirurgo operante, “ma le maschere non conferiscono alcun grado di protezione dalle infezioni microscopiche che possono interessare il personale.” (8)
-nel 2019 è stato svolto uno studio randomizzato di Radonovich et al che mette in confronto maschere chirurgiche e maschere N95 come gradi di protezione dall’influenza, intitolato “N95 respirators masks for preventing influenza among health care personal”. La domanda che lo studio si pone è “se respiratori N95 o maschere mediche sono più efficaci nel prevenire l’infezione influenzale tra il personale sanitario a stretto contatto con pazienti con sospetta malattia respiratoria?” Lo studio parte dalla premessa che: ”benché sia i respiratori monouso N95 che le maschere mediche sono entrambi indossati dall’operatore sanitario per l’autoprotezione, tuttavia, queste maschere hanno diversi usi previsti: i respiratori N95 sono progettati per impedire a chi li indossa di inalare piccole particelle sospese nell’aria, devono soddisfare i requisiti di filtrazione, e adattarsi perfettamente al viso di chi li indossa, limitando la perdita di tenuta del viso; mentre le maschere mediche, chiamate maschere chirurgiche, hanno lo scopo di prevenire la trasmissione di microrganismi da chi le indossa al paziente (qualcosa che è stato confutato da tutti gli studi citati nel punto 1) ndr.). Le maschere mediche non si adattano perfettamente al viso e non impediscono in modo affidabile l’inalazione di piccole particelle sospese nell’aria. Tuttavia, le maschere mediche prevengono il contatto corpo a corpo e il contatto facciale con goccioline e spray di grandi dimensioni”.
I risultati finali dello studio sono piuttosto sorprendenti: “In questo pragmatico studio clinico randomizzato a cluster che ha coinvolto 2862 personale sanitario, non vi era alcuna differenza significativa nell’incidenza dell’influenza confermata in laboratorio tra il personale sanitario con l’uso di respiratori N95 (8,2%) rispetto a maschere mediche (7,2%).” Quindi i due tipi di maschere sono equiparabili nel (non)contrastare virus infettivi e micro patogeni. (9) JM
– altri studi precedenti sulle maschere chirurgiche concludono che: “La maggior parte delle maschere chirurgiche non sono certificate per l’uso come dispositivi di protezione delle vie respiratorie (RPD). In caso di una pandemia influenzale, le implicazioni logistiche e pratiche come la conservazione e il fit test limiteranno l’uso degli RPD a determinate procedure ad alto rischio che potrebbero generare grandi quantità di bioaerosol infettivi. Gli studi hanno dimostrato che in tali circostanze viene indossato un numero maggiore di maschere chirurgiche, ma la protezione offerta a chi indossa una maschera chirurgica contro gli aerosol infettivi non è ben compresa.” (10) Quindi, affinché ci sia una significativa efficacia contro virus infettivi, bisogna indossare almeno due mascherine una sopra l’altra, il che ridurrebbe notevolmente l’apporto di ossigeno al cervello e all’organismo.
-con l’evento della pandemia Covid, nel mese di giugno 2020 è stato prodotto su richiesta di OMS e pubblicato su The Lancet il famoso Meta-studio sull’uso generalizzato e universale delle maschere anche in ambienti extra ospedalieri, di socializzazione, come mezzo di contrasto al contagio virale, insieme al distanziamento sociale. Questo studio non produce nulla di sana pianta, ma accumula 172 studi osservazionali in 16 paesi e sei continenti, senza studi controllati randomizzati, e 44 studi comparativi rilevanti in contesti sanitari e non sanitari (n = 25.697 pazienti). E conclude che: “la trasmissione dei virus era inferiore con una distanza fisica di 1 m o più; la protezione è stata aumentata con l’allungamento della distanza. L’uso della maschera facciale potrebbe comportare una notevole riduzione del rischio di infezione (n = 2647; aOR 0,15, IC 95% da 0,07 a 0,34, RD −14,3%, da −15,9 a −10,7 ; bassa certezza), con associazioni più forti con N95 o respiratori simili rispetto a maschere chirurgiche usa e getta. La protezione degli occhi era anche associata a una minore infezione (n = 3713; aOR 0,22, IC 95% da 0,12 a 0,39, RD −10,6%, IC 95% da -12,5 a -7,7; bassa certezza).” (11)
-il Meta-studio solleva una seria di critiche e confutazioni da parte di scienziati indipendenti, fra cui quelli del Centre for Evidence-Based Medicine, University of Oxford- Tom Jefferson e Carl Heneghan, che contestano i parametri di distanza introdotti dalla Meta-studio come scientifici, dichiarando che: “Non ci sono prove scientifiche a sostegno della disastrosa regola dei due metri. La ricerca di scarsa qualità viene utilizzata per giustificare una politica con enormi conseguenze per tutti noi.” Gli scienziati smontano diverse imprecisioni nell’estrazione dei dati per la revisione Lancet e una serie di punti di dati non plausibili, confermando che i parametri del Meta-studio non sono basati su studi concreti, ma volti a giustificare il distanziamento sociale e il lock down. (12)
– ma visto che parliamo di maschere chirurgiche, vi è un altro punto ancora più compromettente nel Meta-studio (sollevato da Wang et al): per giustificare l’uso universale e indifferenziato di maschere mediche, lo studio di Lancet cita uno studio falsandone i dati, ribaltando i risultati dello studio stesso. Lo studio originale, fatto a Hubei, è uno dei pochi, se non l’unico, ad aver esaminato l’utilità delle maschere mediche in condizioni ospedaliere di epidemia covid, e le sue conclusioni sono sorprendenti: “I membri del personale medico nei centri che ricevevano pazienti COVID-19 avevano un rischio maggiore di contrarre l’infezione rispetto a quelli nei centri che non ricevevano pazienti COVID-19 (rischio relativo: 19,6; intervallo di confidenza al 95%: 12,6-30,6). Il contatto con pazienti COVID-19 (62,5%, 75/120) o colleghi infetti (30,8%, 37/120) era la modalità di trasmissione più comune. Circa il 78,3% (94/120) dei casi infetti indossava maschere chirurgiche, mentre il 20,8% (25/120) non ha utilizzato la protezione quando esposto alla fonte dell’infezione.” (13) Quindi chi indossava le maschere nel momento di esposizione ha contratto l’infezione con una percentuale molto maggiore. E questo fatto conferma non solo la ‘relativa’ funzione antivirale della maschera, ma ci collega con il punto cruciale – quello degli effetti collaterali di questo accessorio, il quale potrebbe essere la causa per cui la maggior parte dei medici che porta la maschera rimane infettato.
3) Sarebbe insufficiente discutere sull’utilità delle mascherine mediche senza fare un bilancio complessivo, tenendo conto degli effetti negativi che esse provocano sulla salute, anche perché sull’incertezza della funzione protettiva della maschera prevale senz’altro la certezza netta e dimostrabile dei suoi effetti dannosi. A differenza dei punti 1) e 2), qui sarebbe sufficiente citare uno degli ultimi studi fatti su questo argomento: è lo studio dell’epidemiologo Lazzarino dell’University College of London prodotto in tempi di pandemia, nel mese di aprile 2020. (14) Esso dice che: “Le maschere facciali rendono la respirazione più difficile; una frazione di CO2 espirata in precedenza è innalata a ogni ciclo respiratorio. I due fenomeni aumentano frequenza e profondità della respirazione, quindi la quantita di aria inalata ed espirata, ma la qualità dell’aria è fortemente peggiorata. Ciò può aumentare la diffusione di virus e batteri, fra cui sars-cov-2, perchè le mascherine diffondono aria contaminata” . Al netto di problemi dermatologici e di allergia, le maschere rallentano lo scambio fra anidride carbonica e ossigeno, ma tali problemi aumentano pericolosamente nel momento in cui si svolgono attività fisiche sportive o attività quotidiane che causano naturalmente un affanno maggiore (con la mascherina l’affanno spinge l’aria espirata verso gli occhi, il che potrebbe infiamarli). Ma benchè questi effetti si manifestano a tempo breve e in modo inconfondibile, bisogna sapere che a lungo andare l’indossare ossequioso della mascherina può causare danni irrecuperabili, portando perfino alla morte, come già tristemente accaduto a ragazzi in età infantile. Inoltre, è appurato che a medio e lungo termine la maschera provoca: confusione e incapacità di concentrazione, inadeguatezza cognitiva, vertigini, emicrania, depressione, attachi di panico, aritmia cardiaca, apatia, problemi con la memoria, infezioni polmonari, sindrome respiraroria acuta, ipossia cronica a livello cerebrale e di tessuti dell’organismo, la quale a sua volta è uno dei fattori per la diffusione di cellule tumorali.
E’ curioso il fatto che il Ministero della salute italiano nel mese di aprile 2020 fa raccomandazioni sull’uso delle mascherine facciali nella comunità, avvertendo di “tenere attentamente conto delle lacune delle prove di efficacia, della situazione dell’offerta e dei potenziali effetti collaterali negativi”, ma in ottobre rende le maschere universalmente obbligatorie.
Con la cognizione degli effetti collaterali disastrosi per la salute, sorge il dubbio se con l’imposizione obbligatoria della mascherina non si volesse instaurare una funzione non protettiva bensì induttiva all’addestramento delle persone, mirata al loro assoggettamento alle autorità, una disciplina che viene usata nella educazione di cani e altri animali domestici, per cui è stata oggetto di sperimentazione nella pratica scientifica di Pavlov. Un addestramento sociale nell’abituare alla privazione di aria, e quindi di vitalità, conducendo le persone verso una stato di salute sempre più precario, abbinato a un comportamento sempre più remissivo, amorfo e acritico.
Pavlov si era accorto di come con uno stimolo naturale (cibo) si è in grado di provocare una reazione involontaria (risposta), che in quel caso era la salivazione del cane. Ma associando per un certo numero di volte l’erogazione del cibo con un suono di campanello, alla fine è stato sufficiente solo il suono del campanello per determinare la salivazione del cane. In questo caso la salivazione è indotta come riflesso condizionato prodotto artificialmente, in mancanza di uno stimolo reale. Procedendo per analogia, la paura di inalare un virus sarebbe lo stimolo naturale per proteggersi con una mascherina; nel momento in cui subentra però la sanzione da parte delle autorità in funzione dell’obbligo universale della mascherina, la paura della sanzione diventa lo stimolo secondario che dopo un breve periodo inizia a funzionare anche in assenza della paura primaria (quella del contagio), provocando lo stesso comportamento, cioè l’indossare della maschera, come riflesso condizionato.
E’ curioso il fatto che sono state proprio le autorità cinesi ad accorgersene di questo condizionamento autolesivo, notando come, una volta abolito l’obbligo della mascherina, una gran parte delle persone continuavano a portarla anche all’aperto, non più per la paura del contagio quanto per la paura di essere sanzionati e giudicati male dagli altri, in particolar modo da chi continuava a portare la mascherina. Quindi le autorità, per sbloccare tale condizionamento e per dissuadere più efficacemente le persone dalla sopravvenuta abitudine riflessa, si sono viste costrette a mettere nei luoghi pubblici cartelli con la scritta “strongly not recommended”.
Questo senz’altro è stato l’unico momento in cui i governatori cinesi si sono veramente preoccupati per lo stato di salute dei propri sudditi al netto di ogni propaganda. Forse perché gli affari con le maschere stanno fruttando bene nell’Occidente, o forse perché sono passati ad addestramenti più edificanti.
Note:
(1) = https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/1157412/
(6) = https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/21068655/
(8) = https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/26085560/
(9) = https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/31479137/
(10) = https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/23498357/
(14) = https://www.bmj.com/content/369/bmj.m1435
3 novembre 2020