La guerra, a cosa serve? A molto poco

...se si è una "grande" potenza sul pianeta Terra nel XXI secolo

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Tom Engelhardt – antiwar.com – 24 aprile 2023

 

Sono nato il 20 luglio 1944, nel mezzo di un vasto conflitto globale già noto come Seconda Guerra Mondiale. Sebbene sia terminata con i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945, prima che potessi dire qualcosa di più di “mamma” o “papà”, in qualche strano modo sono cresciuto in guerra.

Vivendo a New York City, non sono stato vicino a nessun conflitto né in quegli anni né in seguito. Mio padre, invece, si era arruolato volontario nell’Army Air Corps all’età di 35 anni l’8 dicembre 1941, il giorno dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor. Ha combattuto in Birmania, è stato dolorosamente silenzioso sulle sue esperienze di guerra ed è morto il giorno di Pearl Harbor nel 1983. Era l’ufficiale operativo del 1° Commandos Aerei e la sua guerra, in un certo senso, è tornata a casa con lui.

Come molti veterani, di allora e di oggi, non fu mai disposto a parlare con suo figlio di ciò che aveva vissuto, anche se nei miei primi anni di vita amava ancora che i suoi amici lo chiamassero “Maggiore”, il suo grado dopo aver lasciato l’esercito. Quando la sua guerra veniva fuori in casa nostra, di solito era sotto forma di rabbia: perché mia madre aveva fatto acquisti in un negozio di alimentari vicino i cui proprietari, sosteneva, erano stati “profittatori di guerra” mentre lui era all’estero, o perché la mia prima auto, condivisa con un amico, era una Volkswagen usata (tedesca!), o perché mia madre era curiosa di andare – Dio ci salvi! – in un ristorante giapponese!

La cosa strana, però, è che in quegli stessi anni, per motivi che non abbiamo mai discusso, mi permise per un breve periodo di avere un amico di penna giapponese e, anche se io e mio padre non abbiamo mai parlato delle lettere che ci scambiavamo, abbiamo scollato i francobolli dalle buste che mi mandava e li abbiamo incollati nel nostro ultimo album di francobolli Scott.

Per quanto riguarda le prove dell’esperienza di guerra di mio padre, avevo due fonti. Nell’armadio della stanza degli ospiti del nostro appartamento, c’era un vecchio borsone verde in cui ogni tanto rovistava. Era pieno di tutto, dai documenti dell’Aviazione dell’Esercito al suo kit da mensa portatile e persino, anche se allora non lo sapevo, la sua pistola e i suoi proiettili di guerra (li avrei consegnati alla polizia alla sua morte, un quarto di secolo dopo).

Anche se non mi parlava della sua esperienza di guerra, io la vivevo in un modo molto specifico (o almeno così mi sembrava allora). Dopo tutto, mi portava regolarmente al cinema, dove ho visto versioni apparentemente infinite della guerra, in stile americano, dalle guerre indiane alla Seconda Guerra Mondiale. E quando guardavamo i film sul suo conflitto (o, nei miei primi anni di vita, le repliche di Victory at Sea sul televisore di casa) e lui non diceva nulla, ciò sembrava solo confermare che stavo vedendo la sua esperienza in tutta la sua gloria, mentre i Marines inevitabilmente avanzavano alla fine del film e i “giapponesi” morivano in uno spettacolo di massacro senza alcun commento da parte sua.

Da quelle guerre indiane in poi, come ho scritto molto tempo fa nel mio libro The end of victory culture, la guerra è sempre stata una storia della loro ferocia e della nostra bontà, in cui, alla fine, ci sarebbe stato un prevedibile “spettacolo di massacro” mentre noi avanzavamo e “loro” cadevano. Dalla collocazione della cinepresa derivava il piacere di assistere all’uccisione di decine o centinaia di non bianchi in una scena che normalmente precedeva la risoluzione positiva dei rapporti tra i bianchi. Era un modo per ordinare una selva di orrori umani in un racconto celebrativo del progresso attraverso la devastazione, una cultura della vittoria che, prima o poi, diventava più complicata da rappresentare perché la Seconda Guerra Mondiale si concludeva con la devastazione atomica di quelle due città giapponesi e, negli anni Cinquanta e Sessanta, con la crescente possibilità di un futuro Armageddon globale.

Se la guerra era un inferno, nella mia infanzia al cinema, ucciderli non lo era, che si trattasse degli indiani del West americano o dei giapponesi nella Seconda Guerra Mondiale.

Quindi, sì, sono cresciuto in una cultura della vittoria, che ho riprodotto più volte sul pavimento della mia stanza. Negli anni Cinquanta, i ragazzi (e alcune ragazze) passavano ore a recitare storie di battaglie americane trionfali con figure di combattenti generici: una squadra di cowboy per sconfiggere gli indiani e conquistare il West, una o due sacche di Marines verde oliva per assaltare le spiagge di Iwo Jima.

Se la nostra era una storia sanguinaria di guerra contro i selvaggi in cui il piacere usciva dalla canna di un fucile, sui pavimenti nazionali noi bambini eravamo lasciati soli, senza istruzioni apparenti, a reinventare la storia americana. Chi era buono e chi cattivo, chi poteva essere ucciso e a quali condizioni erano parte accettata di una cultura collettiva dell’infanzia che traeva forza dalla Hollywood del secondo dopoguerra.

 

Cosa penserebbe mio padre?

Oggi, a distanza di 60 anni, non essendo mai stato in guerra ma essendomi concentrato su di essa e avendone scritto per tanto tempo, ecco cosa trovo bizzarramente strano: dal 1945, il Paese con il più grande esercito del pianeta che, in termini di bilancio, lascia ampiamente indietro i nove Paesi successivi messi insieme, non ha mai – e lasciatemelo ripetere: mai! – vinto una guerra che contasse (nonostante abbia dato vita a troppi spettacoli di massacro). Cosa ancora più strana, in termini di lezioni apprese nel mondo della cultura adulta, ogni guerra persa ha, alla fine, portato questo Paese a investire più dollari dei contribuenti nella costruzione di quelle stesse forze armate. Se aveste bisogno di una formula a lungo termine per il disastro di un Paese che minaccia di crollare, sarebbe difficile immaginarne una più eclatante. A distanza di tempo dalla sua morte, devo ammettere che a volte mi chiedo cosa penserebbe mio padre di tutto questo.

Il punto è questo: l’esperienza bellica americana dal 1945 in poi avrebbe dovuto offrire una lezione fin troppo ovvia a noi e alle altre grandi potenze del pianeta sul valore dei giganteschi insediamenti militari e dei conflitti che li accompagnano.

Pensateci un attimo, storicamente parlando. La vittoria globale del 1945, conclusasi in modo troppo sinistro con lo sgancio delle due bombe atomiche e il massacro di circa 200.000 persone, sarebbe stata seguita nel 1950 dall’inizio della guerra di Corea. Le statistiche di morte e distruzione in quel conflitto furono a dir poco sconcertanti. Si trattò di uno spettacolo di massacro, che coinvolse gli eserciti della Corea del Nord e del suo alleato, la Cina appena comunista, contro la Corea del Sud e il suo alleato, gli Stati Uniti. Considerate le cifre: su una popolazione coreana di 30 milioni di abitanti, potrebbero essere morti ben tre milioni di persone, oltre a circa 180.000 cinesi e 36.000 americani. Le città del Nord, bombardate e martoriate, furono lasciate in totale rovina, mentre la devastazione della penisola era quasi al di là di ogni immaginazione. Fu uno spettacolo di massacro fin troppo letterale eppure, nonostante il nostro fosse l’esercito meglio armato e meglio finanziato del pianeta, quella guerra si concluse con un pareggio fin troppo letterale, un armistizio cha del 1953 non si è mai trasformato – non ancora oggi! – in un vero e proprio accordo di pace.

Dopo di che, passò un altro decennio e più prima del vero disastro di questo Paese nel ventesimo secolo, la guerra in Vietnam – la prima guerra americana a cui mi sono opposto – in cui, ancora una volta, l’aeronautica statunitense e le nostre forze armate in generale si dimostrarono distruttive quasi al di là di ogni immaginazione, mentre almeno un paio di milioni di civili vietnamiti e più di un milione di combattenti morirono, insieme a 58.000 americani.

Eppure, nel 1975, con il ritiro delle truppe statunitensi, il regime del Sud che avevamo sostenuto crollò e l’esercito nordvietnamita e i suoi alleati ribelli del Sud presero il controllo del Paese. Non ci fu nessun pareggio come in Corea, ma solo una sconfitta totale per la più grande potenza militare del pianeta.

 

L’ascesa del Pentagono su un pianeta in rovina

Nel frattempo, l’altra superpotenza dell’era della Guerra Fredda, l’Unione Sovietica, aveva – e questo dovrebbe suonare familiare a qualsiasi americano del 2023 – inviato il suo enorme esercito, l’Armata Rossa, in… sì, in Afghanistan nel 1979. Lì, per quasi un decennio, ha combattuto contro le forze di guerriglia afghane sostenute e finanziate in modo significativo dalla CIA e dall’Arabia Saudita (oltre che da un saudita in particolare, Osama bin Laden, e dal piccolo gruppo da lui creato alla fine della guerra chiamato – sì, di nuovo! – al-Qaeda). Nel 1989, l’Armata Rossa se ne andò zoppicando da quel Paese, lasciandosi dietro forse due milioni di afghani morti e 15.000 dei suoi. Non molto tempo dopo, la stessa Unione Sovietica implose e gli Stati Uniti divennero l’unica “grande potenza” sul pianeta Terra.

La risposta di Washington sarebbe stata tutt’altro che un promesso “dividendo della pace”. In quegli anni i fondi del Pentagono si sono a malapena ridotti. L’esercito americano riuscì comunque a invadere e occupare la minuscola isola di Grenada nei Caraibi nel 1983 e, nel 1991, in uno scontro molto pubblicizzato ma di livello relativamente basso e unilaterale, cacciò le truppe irachene del presidente Saddam Hussein dal Kuwait in quella che sarebbe poi stata conosciuta come la Prima Guerra del Golfo. Sarebbe stata solo un’anticipazione dell’inferno sulla Terra che sarebbe arrivato in questo secolo.

Nel frattempo, naturalmente, gli Stati Uniti sono diventati una potenza militare unica sul pianeta, avendo stabilito almeno 750 basi militari in tutti i continenti tranne l’Antartide. Poi, nel nuovo secolo, subito dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre, il presidente George W. Bush e i suoi alti funzionari, incapaci di immaginare un paragone tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, inviarono l’esercito americano in – giusto! – in Afghanistan per rovesciare il governo talebano. Seguirono un’occupazione e una guerra disastrose, uno spettacolo di massacri protrattosi a lungo che si sarebbe concluso solo dopo 20 anni di sangue, carneficina e spese enormi, quando il presidente Biden ritirò le ultime forze statunitensi in mezzo a una distruzione e a un disordine caotici, lasciando – sì, i talebani! – a gestire quel Paese devastato.

Nel 2003, con l’invasione dell’Iraq da parte dell’amministrazione Bush (con la falsa motivazione che Saddam Hussein stava sviluppando o possedeva armi di distruzione di massa ed era in qualche modo legato a Osama bin Laden), iniziò la Seconda guerra del Golfo. Sarebbe stata, ovviamente, un disastro, con diverse centinaia di migliaia di morti iracheni e (come in Afghanistan) migliaia di morti americani. Un altro spettacolo di massacro, sarebbe durato per anni e, ancora una volta, gli americani ne avrebbero tratto ben poche lezioni.

E poi c’è la guerra al terrorismo in generale, che ha essenzialmente contribuito a diffondere il terrore in parti significative del pianeta. Nick Turse ha recentemente colto questa realtà con un’unica statistica: negli anni in cui gli Stati Uniti hanno iniziato a contrastare il terrorismo in Africa occidentale all’inizio di questo secolo, gli episodi di terrorismo sono aumentati del 30.000%.

E la risposta a tutto ciò? La conoscete fin troppo bene. Anno dopo anno, il bilancio del Pentagono non ha fatto che crescere e ora si sta dirigendo verso i mille miliardi di dollari. Alla fine, le forze armate statunitensi hanno ottenuto un solo successo significativo dal 1945, diventando l’istituzione più apprezzata e meglio finanziata del Paese. Purtroppo, in quegli stessi anni, in modo davvero strano, le guerre americane sono tornate a casa.

Dubito, infatti, che Donald Trump sarebbe mai diventato presidente senza le disastrose guerre americane di questo secolo. Consideratelo, nel suo modo di terrorizzare, come la ricaduta tossica ” della guerra al terrorismo.

Forse non c’è mai stata una storia più eclatante di una grande potenza, apparentemente incontrastata sul pianeta Terra, che si è autodistrutta in questo modo.

 

Conclusione

Oggi, in Ucraina, assistiamo solo all’ultimo triste esempio di come un esercito vantato, straordinariamente finanziato sulla scia del crollo dell’Unione Sovietica – e sto parlando, ovviamente, dell’esercito russo – sia stato ancora una volta mandato in battaglia contro forze inferiori (*) con risultati notevolmente disastrosi. Vladimir Putin e i suoi uomini, come le loro controparti americane, avrebbero dovuto imparare la lezione dalla disastrosa esperienza dell’Armata Rossa in Afghanistan nel secolo scorso. Ma non è andata così.

Naturalmente dovrebbe esserci una lezione più ampia: non solo che nel XXI secolo non c’è gloria nella guerra, ma anche che, a differenza di alcune epoche passate, le grandi potenze non hanno più la probabilità di avere successo, a prescindere da ciò che accade sul campo di battaglia.

Speriamo che la potenza nascente del pianeta, la Cina, ne prenda atto, anche se organizza regolarmente minacciose esercitazioni militari intorno all’isola di Taiwan, mentre l’amministrazione Biden continua ad aumentare minacciosamente la presenza militare statunitense nella regione. Se i leader cinesi vogliono davvero avere successo in questo secolo, dovrebbero evitare le versioni americane o russe della guerra del nostro recente passato (e sarebbe bello se i fanatici della Guerra Fredda a Washington facessero lo stesso, prima di finire in un conflitto infernale tra due potenze nucleari).

È troppo tardi per chiedere a mio padre cosa significasse veramente per lui la sua guerra, ma almeno quando si parla di “grandi” potenze e di guerra al giorno d’oggi, una lezione sembra abbastanza chiara: non c’è niente di grande in loro, se non il loro potere di distruggere non solo il nemico, ma anche se stessi.

Non posso fare a meno di chiedermi cosa potrebbe pensare mio padre se potesse guardare questo nostro mondo sempre più disturbato. Mi chiedo se non avrebbe finalmente qualcosa da dirmi sulla guerra.

 

tom_engelhardtRedattore editoriale da 25 anni, Tom Engelhardt è autore di The End of Victory Culture, una storia del trionfalismo americano nell’era della Guerra Fredda, ora in edizione riveduta con una nuova prefazione e postfazione, e Mission Unaccomplished. Attualmente è consulente editoriale di Metropolitan Books, membro del Nation Institute e docente presso la scuola di giornalismo dell’Università della California a Berkeley.

 

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