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La Redazione

 

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LA CIA ED IL MOSSAD LANCIANO IL PIANO “ANTI-SIRIA” IN MEDIO ORIENTE

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A cura di Davide
Il 7 Marzo 2005
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Dettagli ed obiettivi delle operazioni terroristiche lanciate con l’assassinio di Rafic Hariri in Libano e con l’attentato esplosivo a Tel Aviv.
Profilo operativo del piano d’invasione della Siria: campagna di azione psicologica ed argomentazione mediatica per giustificare l’intervento militare.
La lobby ebraica ed il progetto di “rimodellamento” del Medio Oriente.

DI MANUEL FREYTAS

Stati Uniti e Francia hanno appena lanciato una campagna mediatica internazionale volta ad esercitare pressioni sulla Siria, affinché ritiri le sue truppe militari dispiegate in Libano, sotto l’accusa che la sua presenza serve a proteggere i gruppi “terroristici” che minacciano la pace e la stabilità della regione.
Dal canto loro i siriani rispondono – quasi senza eco nella struttura dei mezzi di comunicazione di massa – che l’unica cosa “minacciata” dalla loro presenza nel Libano è l’espansione del dominio dello Stato di Israele, socio strategico e privilegiato delle politiche depredatorie degli USA in tutto il Medio Oriente.La manovra conta sull’approvazione dell’ONU, dell’Unione Europea, della Russia e dei paesi della Lega Araba coinvolti negli interessi economici della dominazione imperiale ebraico-nordamericana, tanto in Medio Oriente come nella zona del Golfo.

Le grandi catene internazionali, abituali centrali mediatiche della CIA, realizzano da parte loro una scoperta campagna “anti-Siria” ricreando nei suoi contenuti e titoli il modello paradigmatico delle accuse alla Siria realizzate dai funzionari di Washington e Tel Aviv.

Si ripete quanto già avvenuto per l’Iraq: senza alcun tipo di elaborazione od analisi, le grandi catene informative imperiali manipolano l’opinione pubblica internazionale mescolando parole chiave come: “Siria”, “terrorismo”, “guerra civile”, “attaccante suicida”, “tensione”, “combattenti”, “estremismo islamico”, nella loro conosciuta ricetta di “demonizzare” il “nemico” di turno della macchina militare statunitense.

Come ieri Saddam ed il suo regime, oggi è la Siria ad essere accusata di “dittatura protettrice dei terroristi”.

George W.Bush e Jaques Chirac ripeterono questa settimana, durante il loro incontro in Europa, che Damasco deve ritirare i 14.000 soldati che mantiene dispiegati nel Libano, in compimento della risoluzione dell’ONU votata nel settembre dello scorso anno.

Il sottosegretario di Stato, William Burns, disse a Beirut, dove assistette alle funzioni funebri dell’ex premier libanese, che “l’assassinio di Hariri deve aiutare il Libano a liberarsi dalla presenza della Siria. La segretaria di Stato Condoleezza Rice, intanto, segnalò che “disgraziatamente il governo siriano non va verso un miglioramento delle sue relazioni con noi bensì verso un deterioramento”.

La soluzione al dilemma: la Siria deve ritirarsi dal Libano e riorganizzare il suo regime nel quadro di un “processo democratico”, come segnalano gli statuti del “mondo libero” scritti da George W.Bush e dai suoi instabili soci all’ONU.

Il Piano

Espulsa la Siria dal Libano, rimane aperta la porta per un intervento militare statunitense-israeliano orientato a sterminare le basi logistiche ed i comandi operativi delle organizzazioni armate che combattono Israele e gli USA nella regione, soprattutto in Iraq e Palestina.

Il piano d’azione psicologica mediatica per giustificare le operazioni contro la Siria è un calco di quello che utilizzarono per invadere l’Iraq: appoggio al “terrorismo internazionale” e possesso di armi di distruzione di massa.

Tra le tesi a sostegno, costantemente riproposte dalle centrali mediatiche della CIA, si menzionano:
a) La Siria mette in pericolo la pace in Medio Oriente, e la sua presenza militare può imbarcare il Libano in un’altra crudele guerra civile come quella che visse nella decade del ‘70.
b) La situazione del Libano, come paese occupato dalla Siria e dalla rete internazionale del “terrorismo islamico”, giustifica un’operazione militare per la sua “liberazione”, e per lanciare nel seguito le forze fino a Damasco e sterminare la radice originaria della “minaccia islamica” alla regione.

Le idee-forza, lanciate massicciamente per mezzo di slogan giornalistici, coronano il piano-madre del sionismo ebraico-nordamericano di Washington, forgiato dal trio di esperti comandato dal vicecapo alla Difesa, Paúl Wolfowitz.

Questa lobby, diretta politicamente dalla Casa Bianca dal vicepresidente Dick Cheney, e capeggiata nella segreteria della Difesa dal suo titolare, Donald Rumsfeld, rappresenta essenzialmente l’interesse dei fabbricanti d’armi, delle industrie petrolifere e dei consorzi di servizi che operano contratti milionari col Pentagono statunitense.

Il gruppo dei neoconservatori, esecutore della linea madre della politica estera nordamericana a partire dall’11 settembre, difende apertamente l’intervento militare in tutta la mappa del Medio Oriente per eliminare “la minaccia araba verso Israele”.

Dopo aver pianificato l’invasione dell’Afghanistan (con il pretesto di distruggere la rete “Al Qaeda”) e l’occupazione militare dell’Iraq (con il pretesto di eliminare le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein), la lobby ed i falchi nordamericani, fortificati dalla rielezione di Bush e contando sulla sottomissione di Europa e Russia alla “guerra contro il terrorismo”, hanno posto sotto mira tre paesi chiave: Siria, Libano ed Iran.

Il gruppo di falchi militari e civili pro-Israele pianificò l’invasione dell’Iraq a partire da un principio basato sulla “teoria del bowling” del Medio Oriente, secondo il quale un colpo diretto contro l’Iraq potrebbe abbattere vari regimi arabi del Medio Oriente.

Giacché tale principio è fallito in Iraq, reiterano ora la stessa teoria ponendo al centro la Siria ed il mirino puntato sui restanti paesi, definiti “obiettivi” nell’agenda del Pentagono nel secondo mandato di Bush, come ad esempio l’Iran, altro obiettivo strategico di grande portata che i falchi vogliono conseguire.

Il piano, battezzato progetto di “rimodellamento del Medio Oriente”, fu riaffermato dal presidente George W.Bush nel suo discorso di assunzione del secondo mandato, lo scorso 20 gennaio.

Per precisare il nuovo contesto, il capo della Casa Bianca ricordò, nel suo discorso, gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, come “un giorno di fuoco”, ed aggiunse: “il nostro dovere non è definito dalle parole che uso, bensì dalla storia che abbiamo visto insieme”.

“La migliore speranza di pace nel nostro mondo risiede nell’espansione della libertà in tutto il Pianeta”, affermò Bush chiarendo che la politica estera iniziata dopo l’11 settembre continuerà inalterabile e con più forza con il falco nero, Condoleezza Rice, a capo del Dipartimento di Stato.

Il discorso di Bush non faceva altro che “riciclare” con parole aggiornate il progetto di “rimodellamento del Medio Oriente”, vestito ora da crociata liberatrice contro il terrorismo e le “tirannie del mondo”.

Il governo siriano, secondo il decalogo bushiano della Casa Bianca, si adatta perfettamente al modello: è un regime “dittatoriale” che protegge e promuove il “terrorismo”.

L’Operazione Siria, pezzo forte del piano, ha per obiettivo strategico garantire il controllo delle riserve energetiche nel Medio Oriente e negli Stati del Golfo, assicurare una base di controllo geopolitico-militare con proiezione verso l’Asia, e continuare le conquiste di nuovi mercati, appoggiandosi sul potere nucleare-militare d’Israele a livello regionale.

Il piano ha per alleati la Giordania ed alcuni paesi della Lega Araba, e conta sul fatto che la maggior parte degli emirati mantengano un atteggiamento passivo come quello tenuto con l’Iraq. Dopo la conquista militare dell’Iraq rimangono solo tre paesi fuori controllo: Iran, Siria e Libano.

Nella decade degli anni ‘50 David Ben Gurion lanciò la tesi-madre: per porre fine alla minaccia dei suoi vicini, Israele deve prendere il controllo dell’“anello più debole della catena della Lega Araba”: il Libano.

Il generale sionista Ariel Sharon, che nel 1982 entrò coi suoi carrarmati a Beirut ed aiutò le milizie cristiane a massacrare gli abitanti degli accampamenti di rifugiati della capitale, Sabra e Chatila, è il grande prosecutore della tesi di Ben Gurión.

Il piano di sterminio della resistenza palestinese ed irachena, obiettivo centrale in questa fase, richiede di distruggerne le basi logistiche ed operative in Siria e Libano.

Circa le operazioni militari contro la Siria, nel Pentagono domina l’idea degli attacchi aerei “preventivi” con compito di “ammorbidimento” ed appoggio all’invasione terrestre dei carrarmati e forze speciali israelo-nordamericane.

Nel gennaio del 2004, Donald Rumsfeld presentò a Bush un documento elaborato sulla base d’informazioni raccolte dalla CIA in Medio Oriente.

La relazione assicurava che i “terroristi”, tra i quali figuravano i membri del movimento Hezbolláh, “continuano ad attraversare la frontiera dalla Siria all’Iraq” per prendere contatti con i gruppi iracheni che lottano contro le forze d’occupazione USA. Lo stesso documento forniva “prove” di armi chimiche in possesso della Siria.

In conclusione la relazione sollecitava Bush a lanciare attacchi aerei “preventivi” ed incursioni di forze speciali in territorio siriano, così com’erano stati eseguiti nella cosiddetta “zona di esclusione” dell’Iraq prima dell’invasione militare nel marzo del 2003.

L’attacco aereo israeliano al Libano, nel gennaio 2004, servì da modello sperimentale e per la segnalazione dei nuovi obiettivi, violando per la prima volta la “linea blu”, ovvero la frontiera approvata dall’ONU nel maggio del 2000.

Per lo sviluppo di questa fase del piano è necessario che CIA e Mossad preparino il “clima anti-Siria” e le condizioni politico-sociali derivanti da un confronto tra ufficialità ed opposizione in Palestina, e tra pro-siriani ed anti-siriani in Libano.

Questa tappa – in esecuzione – prepara e precede la fase delle operazioni militari lanciate per porre fine al “terrorismo disgregante” ed alle lotte fratricide in Medio Oriente, la cui testa organizzativa e logistica – secondo gli strateghi sionisti di Washington ed il Pentagono – si trova in Siria.

Nella fase uno del piano, che sta funzionando in questo momento, la CIA ed il Mossad (servizio segreto israeliano) giocano un ruolo chiave nell’armamento e nell’esecuzione delle operazioni fraudolentemente addebitate al “terrorismo”, nella tattica divisionista per portare allo scontro oppositori e filogovernativi, e nei tracciati della campagna di azione psicologica volta a creare basi di consenso locale ed internazionale ad un intervento militare in Siria.

L’operazione Palestina

In una prima fase, il piano richiede la dimostrazione che la Siria continua a stare dietro le quinte di tutte le operazioni terroristiche, attraverso la sua presenza militare in Libano e l’esistenza nel suo territorio di basi e campi d’addestramento di “estremisti” islamici.

Rispetto all’attacco terroristico di sabato notte a Tel Aviv, fonti dei servizi segreti arabi concordano sul fatto che si trattò di un’operazione della CIA e del Mossad, con la stessa metodologia operativa già utilizzata per implicare la Siria nell’assassinio di Rafic Hariri.

In entrambe le operazioni si perseguirono obiettivi simili: rompere le linee di negoziazione tra ufficialità ed opposizione ed acutizzare all’estremo il conflitto per provocare una reazione armata.

In un video diffuso dalla AFP ed altre agenzie, il presunto autore del massacro di Tel Aviv rivendica l’attentato in nome del movimento radicale palestinese Jihad Islamica, adducendo che “l’attacco fu eseguito in risposta agli assassini ed alle distruzioni di case” commesse da Israele.

Nel video, il soggetto identificato come capo locale delle Brigate Al Qods, braccio armato del movimento, appare armato con un fucile automatico davanti ad una bandiera della Jihad Islamica e con altri tre fucili al suo fianco. Accusa l’Autorità Palestinese, che denunciò energicamente l’attentato, di “collaborare” con Israele e Stati Uniti. “Faranno la fine del generale Antoine Lahad”, afferma riferendosi al capo dell’Esercito del Libano Meridionale, una milizia pro-israeliana, che si rifugiò in Israele dopo la ritirata israeliana dal sud del Libano nel maggio del 2000.

Attraverso alcuni portavoce, l’organizzazione Jihad Islamica aveva comunicato, immediatamente dopo l’attentato di sabato notte, che il gruppo che rivendicava l’attacco era una frazione scissa dell’organizzazione, la quale aveva realizzato una tregua ed aspettava una risposta dal governo israeliano alle sue richieste di libertà di prigionieri palestinesi. Pertanto l’imputazione dell’attacco era assurda.

Portavoce di Damasco, dal canto loro, segnalavano che il gruppo che si era attribuito l’attentato ed il presunto autore dell’attacco suicida erano stati infiltrati da agenti della CIA e del Mossad, e che l’operazione era stata realizzata localmente con l’obiettivo di frustrare il processo di tregua della guerriglia col governo di Abás, ed impastoiare il negoziato per la liberazione dei prigionieri palestinesi, negoziato che si stava realizzando tra le organizzazioni armate palestinesi ed il governo di Sharon.

Curiosamente, poco prima che il presunto gruppo attaccante assumesse la paternità, fonti del Ministero della Difesa israeliano assicuravano che l’attentato era stato portato a termine dalla Jihad Islamica, seguendo le istruzioni dei capi nella capitale siriana, mentre l’Autorità Palestinese manteneva la versione che addossava la responsabilità agli Hezbollah del Libano.

Domenica, fonti del governo Siriano affermarono che l’operazione della CIA e del Mossad con l’apparizione del video del presunto kamikaze, era stata pianificata per acutizzare la confusione tra il governo palestinese ed i gruppi armati e per verificare la disposizione ad un conflitto armato tra quei settori.

La CIA ed il Mossad avevano necessità di mostrare ciò che emergeva con immediatezza dall’atto terroristico a Tel Aviv: la violenza politica che mette a rischio il processo di pace in Medio Oriente ed il regime costituzionale in Palestina.

L’operazione doveva essere in perfetta sintonia con l’accusa ufficiale del governo israeliano.

Dopo l’attentato di sabato notte a Tel Aviv, il Ministro della Difesa, Shaul Mofaz, incolpò la Siria di essere dietro al movimento radicale palestinese Jihad Islamica, gruppo rivendicatosi autore dell’attacco.

La radio militare israeliana riportò la dichiarazione di Mofaz durante una riunione di importanti responsabili di sicurezza dello Stato Maggiore a Tel Aviv: “Disponiamo di prove che mettono direttamente in collegamento la Siria con questo attentato”.

Altro segno complementare lo diede Ariel Sharon nel non rilasciare dichiarazioni nelle ore seguenti l’attentato.

La radio militare israeliana rivelò che il primo ministro israeliano venne informato durante tutta la notte sugli avvenimenti, ma non si pronunciò fino alla domenica, così consigliato da agenti ufficiali dei servizi segreti che gli suggerirono di aspettare “la reazione dell’ANP e del suo presidente Mahmud Abás”.

La domenica, dopo aver verificato la mancata determinazione di Abas verso i gruppi armati, Sharon disse che il processo di pace era in pericolo e minacciò di frenare i negoziati con l’ANP, se questa non avesse preso “energiche misure” contro i gruppi estremisti.

In sintesi, Sharon, seguendo il manuale della CIA e del Mossad, approfittò del massacro di Tel Aviv per fare un passo avanti verso lo scontro interno tra palestinesi. Una formula che CIA e Mossad continueranno ad alimentare con azioni psicologiche ed ulteriori attentati.

L’operazione Libano

Dopo l’assassinio dell’ex premier libanese Rafic Hariri, la televisione Al Iraquía aveva mostrato immagini di nuovi presunti “combattenti” iracheni, due dei quali confessarono di aver ricevuto addestramento all’uso di armi ed esplosivi in Siria.

“Fui reclutato nel 2001 dai servizi segreti siriani nel porto siriano di Latakia, dove ricevetti istruzione nella fabbricazione di esplosivi, preparazione di autobombe ed assassini”, assicurava uno dei detenuti, identificato come Mohanat Abdula Sultán al Tai, secondo l’emittente irachena.

L’operazione fu realizzata nel bel mezzo delle accuse di Washington e Tel Aviv al governo siriano per l’attentato che pose fine alla vita di Hariri, un alleato storico degli USA che capeggiava i settori anti-siriani del Libano.

Portavoce dei servizi segreti siriani segnalarono che la manovra aveva a che vedere con la preparazione di un “clima anti-siriano”, lanciato da Casa Bianca e Pentagono, per giustificare le operazioni militari già previste contro la Siria e le organizzazioni operanti dal territorio libanese contro Israele.

Rafic Hariri, alleato di Washington assassinato due settimane fa in Libano, era stato sconfitto nell’agosto dello scorso anno quando la sua richiesta di rinuncia dell’attuale presidente e di ritiro delle truppe siriane, fu respinta dalla maggioranza del Parlamento libanese, dovendo così rinunciare al suo incarico di primo ministro.

Nell’opinione dei portavoce di Damasco, il settore “anti-Siriano” di Hariri, dopo la sua sconfitta, aveva perso seguito politico, mentre invece il suo assassinio ha rafforzato l’opposizione al governo ed i gruppi pro-statunitensi che chiedono il ritiro delle truppe siriane dal Libano.

Hariri manteneva una posizione di dialogo tanto col governo pro-siriano come con le organizzazioni armate islamiche, e scommetteva di prendere di nuovo il potere in un processo democratico, confidando sul suo carisma politico.

Il Ministro della Giustizia, Addoum, minimizzò la possibilità che l’attentato fosse attribuibile ad Al Qaeda, per i vincoli economici e politici di Hariri con l’Arabia Saudita.

Il premier assassinato, d’altro canto, manteneva buone relazioni con la Siria attraverso l’ex capo dei servizi segreti militari di quel paese, generale Ghazi Kenaan, che gli servì come aggancio tra Siria ed Arabia Saudita durante il suo mandato di primo ministro del Libano.

Il suo assassinio pertanto non aveva alcun senso pratico e non portava alcun vantaggio ai settori pro-siriani né al governo alleato della Siria in Libano, e meno ancora alle organizzazioni della resistenza che mantennero lo status di riconoscimento ufficiale durante la gestione di Rafic Hariri come primo ministro.

Le versioni ufficiali fornite dalla stampa segnalavano inoltre che Hariri, con sette guardie del corpo ed un aiutante personale, più altre sette persone, erano state uccise da un’autobomba carica di 300 chili di dinamite.

Mezzi d’informazione arabi, tra i quali la catena Al Jazeera, avevano segnalato dopo la morte di Hariri, che l’esplosivo utilizzato per l’attentato non era presente nell’arsenale di alcuna organizzazione islamica della regione, ed il suo alto potenziale (uccise Hariri e la sua scorta al completo, oltre ad altre persone) era dimostrato dal cratere di quasi 10 metri di diametro che aveva lasciato.

L’esplosione fu tanto potente che ruppe le finestre in un raggio di vari isolati e distrusse le auto Mercedes Benz del convoglio come se fossero giocattoli.

Fonti di sicurezza segnalarono che le caratteristiche tecniche della bomba erano tanto avanzate che l’attacco eluse l’azione dei dispositivi di blocco ad alta tecnologia, di cui erano fornite le automobili del corteo di Hariri, predisposti per interferire con telefoni cellulari e televisori.

La stampa araba rese pubbliche perizie dei servizi segreti libanesi, le quali segnalavano che il materiale esplosivo utilizzato nell’attentato si trova soltanto in possesso della CIA, del Mossad israeliano e dell’M-16 britannico, e proviene dalla centrale nucleare di Dimona in Israele.

In sintesi, e come sostengono i siriani ed i servizi segreti arabi, tutte le impronte digitali dell’attentato contro Rafic Hariri conducono ragionevolmente alla CIA, al Mossad ed ai principali beneficiari del suo assassinio: Washington e Tel Aviv, che hanno così ottenuto l’argomento giustificatorio principale per il loro piano d’invasione della Siria.

Manuel Freytas – IAR –
www.resistenze.org – popoli resistenti – siria
da: www.rebelion.org – 01-03-2005
Ripreso da:www.uruknet.info
Traduzione dallo spagnolo a cura di Adelina Bottero e Luciano Salza

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