Intervista a Harry Browne, autore di «The Frontman. Bono (Nel nome del potere)»

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di  Wu Ming 1 e Alberto Prunetti

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[E’ uscita da pochi giorni  (3.3.2014) in italia l’inchiesta di Harry Browne su filantropia, affari, fandonie e potere di Bono Vox. Quella che segue è la prima intervista italiana all’autore, in esclusiva per Giap. Le domande sono di Wu Ming 1 e Alberto Prunetti (curatori dell’edizione italiana) e dello scrittore Max Mauro. Quest’ultimo conosce bene Dublino, dove ha vissuto e fatto ricerca sulla cultura popular e le questioni di razza e classe nelle realtà urbane irlandesi. Un suo saggio su “razzializzazione” e calcio giovanile in Irlanda è incluso in questo libro. La traduzione di domande e risposte è di WM1.]

 

AP. Il tuo libro dà un contributo importante a un genere che ha valore anche dal punto di vista narrativo. The Frontman è una biografia, un saggio, un pamphlet politico, una miscela di tutti questi generi. Come mai hai deciso di impostare la tua scrittura su quest’ibridazione? Stavi seguendo qualche esempio, forse nella tradizione della pamphlettistica radicale?

HB. Sono lieto che lo riteniate un contributo importante! La cornice concettuale e di genere di The Frontman si deve a Verso, la casa editrice britannica, che pubblica la collana “Counterblasts”. L’idea di fondo della collana è rivitalizzare la tradizione del pamphlet tipica del diciassettesimo e diciottesimo secolo, con libri dedicati a singoli personaggi, che sono saggi biografici duri e polemici in forma di pamphlet estesi. O, per usare un’espressione vernacolare del XXI secolo, sono dei “takedown“. Io ero già abituato ai takedown di un migliaio di parole, ne avevo scritti a dozzine su varie pubblicazioni, e alcuni riguardavano già Bono, ma sono rimasto sorpreso quando da Verso mi hanno fatto sapere che dovevo scrivere un “pamphlet” di settantamila parole! Mentre lo scrivevo, comunque, non avevo consapevolezza di quali generi stessi usando o di come li stessi miscelando. Per gran parte del tempo, ero concentrato sullo scrivere un “libro di fatti” più che una polemica, un serbatoio di fatti veri che anche gente di opinioni diverse avrebbe trovato difficile confutare.

WM1. Ci sembra che da diversi mesi Bono stia rispondendo a The Frontman senza mai nominare il libro. Le sue prediche e interviste più recenti sono piene zeppe di excusationes non petitae. Le sue spiegazioni su quanto bene ha fatto suonano come risposte a domande che i giornalisti gli fanno di rado ma che sono state il punto di partenza per il tuo libro. E’ corretto?

HB. Penso di sì. Va detto che io non sono il primo autore ad aver scritto certe cose su Bono, ma probabilmente è vero che il libro e la visibilità che ha avuto gli hanno fatto capire che doveva pur rispondere, o almeno provarci, o almeno dare l’idea di farlo. L’esempio più vistoso è un’intervista su The Observer del settembre scorso, dove, senza esplicitare il prestito, già nella titolazione si riprendeva la parola “potere” direttamente dal sottotitolo del mio libro. «Bono: c’è differenza tra ingraziarsi il potere ed essere vicini al potere». Nei commenti sotto il post, l’autore dell’intervista (che ci era andato molto leggero), ha ammesso – in tono spregiativo – di aver letto The Frontman. Ma Bono è andato più vicino a menzionare il libro di quanto abbia fatto il giornalista! Nessuno dei due, comunque, ha affrontato o risposto davvero alle critiche principali.

WM1. Nel tuo libro fai un ritratto molto duro dei media mainstream irlandesi, li descrivi più o meno come una servizievole schiera di leccaculi, sempre pronti a guardare Bono e gli U2 attraverso lenti rosa. Qual è stata la loro reazione al libro?

HB. Ci sono state reazioni diverse. Intanto, nessun importante organo di stampa irlandese mi ha intervistato. Io non ci avevo fatto caso, poi sono andato in Spagna e in Messico a promuovere l’edizione in spagnolo, e tutti i giornali e periodici più importanti mi hanno intervistato! I due giornali più influenti d’Irlanda hanno stroncato il libro (senza far presente che dentro li avevo criticati), ma nemmeno gli autori di quelle stroncature hanno difeso in toto Bono: hanno dovuto riconoscere (vista la diffusa antipatia popolare nei suoi confronti) che criticare Bono è giusto, ma hanno aggiunto che il mio particolare modo di criticarlo non andava bene, per via delle mie opinioni politiche o del mio presunto “fanatismo” [Tutto il mondo è Belpaese, N.d.T.]. Resta il fatto che quei giornali, e anche altri, Bono lo criticano di rado.

WM1. Puoi spiegare ai nostri lettori che non hanno ancora letto The Frontmancome mai la stampa irlandese è così reverente nei confronti di Bono, mentre nella società è spesso bersaglio di derisione e satira? E’ solo perché è un pilastro dell’establishment, o c’è una ragione culturale più profonda? 

HB. In generale, bisogna almeno che una persona ricca e influente venga condannata per un crimine prima che i media irlandesi decidano di parlarne con un po’ di spina dorsale. E’ probabilmente così in molti paesi, ma in un posto piccolo come Dublino l’effetto è ingrandito. Alcuni esponenti dell’alta società irlandese mi hanno detto, in privato, che hanno adorato il libro ma non possono dichiararlo in pubblico. Una qualsiasi conversazione da pub a qualunque livello della società irlandese è molto, molto più corrosiva di The Frontman, ma l’Irlanda ha un’antica tradizione di gossip che prospera sulla (e si crogiola nella) differenza tra quel che si dice in privato e quel che si pubblica. Per quanto riguarda Bono, va aggiunto che lui e gli U2 sono il più famoso prodotto da esportazione del paese dopo la Guinness. Quindi, c’è un certo perverso orgoglio nel tenere per noi i nostri peccati. Detto questo, molto del materiale che ho usato in The Frontman è tratto da fonti pubblicate, e alcune erano irlandesi!

MM. Quello che hai detto sul criticare Bono in privato ma non in pubblico risolleva un’annosa questione: la mancanza di pubblico dissenso nell’Irlanda contemporanea e postcoloniale. Mi sembra che, sotto questo aspetto, tu sia uno dei pochi ad andare controcorrente. Nel tuo libro precedente, Hammered by the Irish, hai raccontato la storia dei Pitstop Ploughshares, cinque pacifisti irlandesi che nel 2003 hanno causato un danno da due milioni e mezzo di dollari alle forze militari USA. Si dice che, per via del tuo esplicito appoggio al movimento contro la guerra, tu abbia perso la tua rubrica sull’Irish Times. Adesso prendi un’icona nazionale e ne fai a pezzi l’immagine. Mi chiedo se la tua libertà intellettuale e la tua audacia abbiano qualcosa a che fare con la tua biografia: sei nato in Italia da un prete cattolico [padre Harry J. Browne] e una femminista e docente universitaria [Flavia Alaya], sei cresciuto negli USA e sei “emigrato” in Irlanda quand’eri già adulto. Ti senti mai un outsider?

HB. Comincio dalla parte finale della domanda: di certo non mi sento mai un insider! La storia della mia vita contiene molti elementi che influenzano questa condizione, e naturalmente c’entrano anche gli spostamenti geografici. Per esempio, io ero uno dei pochissimi ragazzini “bianchi” in un quartiere tutto nero e latino di Paterson, New Jersey, poi sono andato all’università in un college d’élite dove ero il primo a provenire dalla mia scuola. Detto ciò, non sono eccezionalmente audace, né mi sento solo. Sono una voce tra tante in Irlanda che, sebbene trascurate dal mainstream, fanno sentire forte il loro dissenso. Non credo che qui in Irlanda siamo più messi a tacere che in altri paesi: raramente passa un mese senza una mia intervista in TV o alla radio. Certo, il mio percorso l’ho scelto, ma è dipeso anche molto dal caso. Per esempio, i due libri sono nati da inviti che sentivo di non poter – o dover – rifiutare. L’esempio dell’attivismo dei miei genitori ce l’ho sicuramente in testa, da qualche parte, a ricordarmi cos’è importante. Sono abbastanza fortunato da avere un buon lavoro e la libertà che ne deriva. Uno dei Pitstop Ploughshares diceva spesso che il vero significato della parola «respons-abilità» è «capacità di rispondere». La mia posizione privilegiata mi dà un po’ di questa capacità, più di quanta possano averne molte persone in questo mondo di crudeltà e precarietà. Disprezzerei me stesso (ed è dir poco!) se non ne facessi uso.

AP. Il tuo libro non è solo su Bono, ma su tutto lo spettacolo della filantropia. Di recente, uno degli uomini più ricchi d’Europa, il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, è stato condannato in Italia per la morte di 3000 lavoratori e cittadini esposti alle fibre di amianto dentro e intorno alle sue fabbriche. In giro per il mondo, Schmidheiny è ben conosciuto e rispettato in quanto filantropo. Non solo: un’università americana gli ha dato una laurea honoris causa per il suo presunto impegno a favore dell’ambiente. In Italia lo hanno giudicato colpevole di disastro ambientale. Cos’è che spinge questi ricchi bast… ehm, individui? La loro filantropia serve solo a lavarsi la coscienza? Oppure, difendendo questa o quella causa, diventano ancora più ricchi? Pensi che il capitalismo abbia un bisogno sistemico di filantropia?

HB. E’ un’ottima e difficile domanda, alla quale sarei tentato di rispondere, semplicemente, «Sì». Ma cercherò di dire qualcosa di più! Ovviamente, la filantropia ha una lunga storia, è più vecchia del capitalismo, e penso che vi sia un elemento di quello che Peter Buffett, figlio del “grande filantropo” Warren, chiama «riciclaggio di coscienza sporca». Ma il fenomeno neoliberista del «filantro-capitalismo» va ben oltre: i i filantro-capitalisti sostengono che i processi di accumulazione di ricchezza, da un lato,  e la beneficenza dall’altro, in realtà siano intrinsecamente collegati, non solo in sequenza (diventa ricco, poi dona qualcosa), ma in modo organico: prosperare facendo del bene. Buffett ha scritto di come gli enti di beneficenza vengano incoraggiati a parlare del loro «ritorno sugli investimenti». Questo progetto ideologico, naturalmente, va oltre l’auto-giustificazione dei ricchi bast… ehm, individui. E’ un discorso egemonico, un insistere sul fatto che non c’è alternativa a questo mondo che è non-proprio-il-migliore-ma-è-in-rapido-miglioramento dei mondi possibili. Bono, quando proprio vuole sembrare radicale, al massimo dice qualcosa tipo:  «A volte mi piacerebbe che ci fosse un’alternativa al capitalismo». Il che equivale a negare ogni possibilità di vero cambiamento. E anche in quel caso, tornerà subito al suo argomento centrale: che non c’è motivo di attaccare, o anche solo ridimensionare, il potere dei ricchi autocrati, perché saranno proprio loro a salvare i poveri.

MM. “Politicamente” parlando, Bono è stato più attivo a livello globale che in Irlanda. Una delle poche eccezioni, mi sembra, fu quando si occupò delle tensioni in Irlanda del Nord. Tu, però, critichi Bono per le sue posizioni di condanna della sola IRA. Puoi spiegarci perché pensi che sbagliò a muoversi come fece? Avrebbe potuto fare diversamente, visto cos’erano e sono gli U2 (per la “pace”, per il papa ecc.)?

HB. In The Frontman, le critiche alla posizione di Bono sull’Irlanda del Nord riguardano due periodi distinti: la prima metà degli anni Ottanta, quando erano in corso i Disordini, e la seconda metà degli anni Novanta, durante il processo di pace seguito al cessate-il-fuoco.
Per prima cosa, gli anni Ottanta: anche se gli U2 erano “per la pace” (chi non lo è?), all’epoca non erano particolarmente “per il papa”, e non solo perché erano in gran parte protestanti! Influenzati dalla teologia della liberazione, simpatizzavano con movimenti rivoluzionari in America centrale e Sudafrica. Ma quando si trattava di esprimersi su quel che accadeva vicino a casa, avevano le stesse posizioni dell’establishment britannico e di quello irlandese, cioè: condanna solo per la violenza irlandese-repubblicana, silenzio sulle sue cause e sul ruolo stragista dello stato, persino quando, come nel caso di Sunday Bloody Sunday, usavano il nome di una strage di stato!
Mi ha un po’ stupito che qualcuno se la sia presa con The Frontman per aver fatto notare questo. La storia degli anni seguenti ha provato, a detta di quasi tutti, che la strada da percorrere era il dialogo inclusivo, non certo la demonizzazione unilaterale. Anzi, oggi i politici e opinionisti irlandesi si vantano spesso di avere un modello da esportazione di processo di pace inclusivo. Io ho ricordato che una volta non la pensavano affatto così, e la cosa non gli fa piacere. Ci furono eccezioni, naturalmente, persone che aiutarono ad aprire la via per la pace, ma è del tutto normale che Bono non sia stato tra queste! Certo, come dico nel libro, in una cosa si è dimostrato leggermente migliore di altri personaggi dell’establishment: di recente, parlando di come ex-membri dell’IRA partecipavano con successo al governo dell’Irlanda del Nord, ha avuto la decenza di dirsi imbarazzato per il senso di superiorità morale che aveva da giovane.
Questo, però, non scusa i suoi vergognosi e fuorvianti proclami sul ruolo che ebbe nel processo di pace degli anni Novanta. Come spiego nel libro, la sua partecipazione si limitò a una banale photo-opportunity poco prima del referendum del 1998 sul cosiddetto “Accordo del Venerdì Santo”. Negli anni a seguire, lui e The Edge hanno detto che quella foto risolse una delicata situazione di stallo e convinse la gente a votare Sì. Puro nonsense: tutti sapevano che il Sì avrebbe vinto, e il margine di vittoria nel Nord fu superiore al 40%. Questo è uno dei peggiori esempi di come Bono ingigantisca il proprio ruolo, e una delle cose che più mi ha fatto arrabbiare mentre facevo le ricerche per The Frontman.

The Frontman è pubblicato da Alegre, edizione italiana a cura di Wu Ming 1 e Alberto Prunetti.

 

Fonte: http://www.wumingfoundation.com/giap/2014/03/intervista-a-harry-browne-autore-di-the-frontman-bono-nel-nome-del-potere/

18.07.2017

 

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