Quali saranno gli effetti della pandemia sull’occupazione? I dati comunicati al termine dell’ultimo consiglio direttivo della Banca Centrale Europea (BCE) ci aiutano a comprendere la portata della recessione che stiamo vivendo e fanno presagire il peggio per gli anni a venire. Per il 2021, infatti, la BCE stima ‘un picco del tasso di disoccupazione al 9,5%’ per l’Eurozona (i Paesi dell’Unione che adottano l’euro), dal 7,6% del 2019.
Per quanto evidenti, questi numeri non ci permettono, tuttavia, di catturare la portata di questa platea di disoccupati in termini assoluti. Per rendere meglio l’idea, stiamo parlando, per l’anno in corso, di quasi 16 milioni di persone in tutta l’area dell’euro, dato che sale a 20 milioni di individui se includiamo anche i paesi dell’Unione che non hanno adottato la moneta unica. Un numero spaventoso.
Così come spaventoso è il grido d’allarme lanciato pochi giorni fa dall’ISTAT, che segnala che nel secondo trimestre del 2020 il tasso di occupazione nella fascia d’età 15-34 anni è sceso al di sotto del 40% (38,6%). In aggregato, il numero di occupati cala di circa 470.000 unità (-2,0%) rispetto al trimestre precedente. Per capire la gravità della situazione, occorre, altresì, tener conto del fatto che in Italia, così come in altri Paesi, ammortizzatori sociali e divieto di licenziamento hanno contribuito a limitare l’emorragia di posti di lavoro. Con la fine di questi interventi, i numeri della disoccupazione potrebbero divenire ancor più drammatici.
Si potrebbe obiettare che tali dati siano figli dell’esplosione della pandemia da Coronavirus e delle misure di contenimento del contagio messe in campo dai vari governi. Uno sguardo più accorto ci permette, tuttavia, di comprendere come le schiere dei disoccupati fossero ben nutrite anche quando parole come Covid e lockdown non erano ancora entrate nel nostro vocabolario. Nel 2018, ben prima dell’esplosione della pandemia, l’Eurozona contava infatti 13,3 milioni di disoccupati (3,5 milioni in Spagna, 2,7 in Italia, 2,6 in Francia, e 1,4 persino nella moderna ed efficiente Germania). Dati alla mano, possiamo pertanto affermare che la pandemia ha soltanto rimpolpato le fila dei senza lavoro. Fila che, come appena visto, erano già fin troppo lunghe quando il Coronavirus ancora non era approdato dalle nostre parti. Allo stesso tempo, il perimetro dell’Unione europea si conferma essere uno spazio in cui la disoccupazione è un fenomeno che ormai assume i caratteri della normalità, sia in termini di portata che di persistenza negli anni.
Viene da chiedersi, a questo punto della storia, quali siano le ragioni ultime di questo ‘fallimento’ della società in cui viviamo. Le risposte sono variegate e non mancano di ingegno.
Qualcuno sostiene che, in realtà, questi lavoratori sarebbero quasi tutti occupabili se solo fossero compatibili, per caratteristiche individuali e professionali, con altrettanti posti di lavoro che esisterebbero, ma che non sarebbero ‘riempiti’ perché le imprese non trovano in quei 16 milioni di disoccupati le competenze che richiedono quegli impieghi. Insomma, stando a queste interpretazioni la disoccupazione sarebbe ‘colpa’ dei lavoratori che, per inclinazioni personali o per scelte scellerate dal punto di vista della loro formazione, si sarebbero da soli emarginati dal mondo del lavoro, oppure dei sistemi educativi che non garantirebbero quel necessario livello di tecnicismo ai programmi scolastici. Questa spiegazione, tuttavia, non può che essere considerata una vera e propria boutade: quei posti di lavoro ‘occupabili ma non occupati’ semplicemente non esistono, se non nell’immaginario di qualche liberal pensatore tirapiedi delle classi dominanti.
Qualcuno si spinge ancora più in là e, buttando la croce ancor più vistosamente sui lavoratori, prova a convincerci che la disoccupazione sia figlia delle eccessive tutele di cui godrebbero le maestranze (la contrattazione collettiva, l’eccessiva pressione sindacale, le rigidità nel mercato del lavoro). Tutele che non permetterebbero quella ‘necessaria’ flessibilità che, come per incanto, incentiverebbe le imprese ad assumere più lavoratori. Anche questa spiegazione si scontra con la realtà dei fatti: il mondo dal lavoro ha sperimentato negli ultimi anni le più pervasive misure di deregolamentazione, sia dal punto di vista normativo (riduzione delle tutele contro il licenziamento, aumento del ricorso ai contratti a termine, decentramento della contrattazione salariale) che dal punto di vista politico (la riduzione della sfera di influenza dei sindacati è, ormai, un fatto acclarato). In altri termini, le ricette liberiste per rendere più ‘dinamico’ il mercato del lavoro sono state applicate alla lettera. Gli unici risultati sono stati l’aumento della disoccupazione, la stagnazione dei salari e l’incremento della fetta di prodotto interno lordo finita nelle pance dei padroni.
C’è però un’altra, più convincente, spiegazione della disoccupazione che assume dei tratti più generali e ci permette di comprendere al meglio le vere ragioni economiche e politiche di un fenomeno così massiccio, specialmente nel contesto europeo. A ben vedere, la dinamica occupazionale dipende dall’andamento generale dell’economia: tenderà a crescere quando quest’ultima cresce, e tenderà a peggiorare nei periodi di recessione. Pertanto, il vero volano dell’occupazione è la crescita economica, che sarà tanto più accentuata quando sarà più alta la domanda di beni e servizi da parte di famiglie, imprese e settore pubblico. Le imprese, infatti, assumono lavoratori se hanno necessità di assumerli, e questa necessità cresce al crescere della produzione che intendono realizzare. Peccato che di questa crescita, da qualche anno, non vi sia traccia. Nella sfera privata dell’economia, ciò accade per effetto di salari al palo che non permettono ai consumi di progredire, e dello stesso contesto macroeconomico stagnante che non induce le imprese a investire. In periodi in cui anche la domanda estera frena, resterebbe, come possibile ‘traino’ dell’economia e dell’occupazione, il settore pubblico. Ma, ahinoi, il contesto europeo, per sua natura e costruzione, non permette ai Governi di fornire impulso all’economia nei periodi di stagnazione o crisi: i bilanci pubblici sono infatti chiamati a rispettare sistematicamente i vincoli di bilancio dettati dai trattati europei (Trattato di Maastricht, Fiscal Compact e compagnia cantante). Ecco che allora è la stessa architettura dell’Unione europea, legando le mani ai Governi, ad impedire che gli unici veri attori capaci di stimolare l’economia nei periodi di vacche magre sostengano produzione e occupazione. Lo stesso accentuarsi della crisi occupazionale dovuto alla pandemia è un fattore che dipende da tale architettura, con misure di sostegno all’economia che tardano, con risultati disastrosi, e quando arrivano sono palesemente insufficienti.
Ecco allora che lo sconcertante affresco della situazione occupazionale nel contesto europeo non ci stupisce affatto: contenimento della spesa pubblica, competizione sui salari e libera circolazione di merci e capitali non possono che contribuire a generare stagnazione e quindi alta disoccupazione.
A ben vedere, quello che abbiamo etichettato come ‘fallimento’, se analizzato attraverso le lenti della lotta di classe, si palesa tuttavia come un fallimento solo per chi sta da una precisa parte della barricata, quella dei lavoratori e delle lavoratrici. Mentre, al contrario, il mondo delle imprese non può che trarre giovamento da questa situazione: questi 16 milioni di disoccupati rappresentano infatti una delle armi più affilate per contenere le rivendicazioni salariali di chi, fortunatamente, un lavoro ce l’ha. Ecco che da fallimento, questo ‘esercito industriale di riserva’ diventa motivo di successo economico e politico dei capitalisti, che nella spartizione della torta vedono aumentati i propri profitti a spese dei lavoratori. Una situazione opposta a quella che si verificherebbe in un contesto di piena occupazione.
Se, quindi, l’aumento dei disoccupati registrato a causa della crisi da Covid rappresenta tutta la violenza subìta dalla classe lavoratrice in questo periodo di pandemia, l’esercito di disoccupati è ormai all’opera da anni su scala europea con una funzione ben precisa: mantenere bassi i salari e far dilagare povertà e precarietà. Stanno provando a raccontarci come la situazione in Italia stia gradualmente migliorando, ma si tratta di un evidente specchietto per le allodole: solo mettendo radicalmente in discussione le politiche economiche neoliberiste, rese inevitabili dalla struttura del progetto di integrazione europea, potremo gettare le basi per un’alternativa in cui la piena occupazione torni ad essere un obiettivo sociale e politico e la dinamica salariale torni a prosperare, lasciando aperta la possibilità che lavoro, diritti e stato sociale non vengano visti solo come costi da abbattere.
–
Link fonte: https://coniarerivolta.org/2020/09/15/il-lavoro-ai-tempi-della-pandemia-un-esercito-di-disoccupati/
16.09.2020
—
Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org