Il dilemma di Vladimir Lenin

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CHERIS HEDGES
truthdig.com

Questo è l’intervento di Chris Hedges al Left Forum di New York City, venerdi scorso.

Vladimir Lenin può essere ricordato in due modi. Uno da brillante tattico rivoluzionario. In alternativa, come Lenin, il nuovo zar. Era stato, ironia della sorte, il più fervido sostenitore in Russia proprio della stessa cosa che aveva sradicato, l’anarchia rivoluzionaria. Il suo opuscolo “Lo stato e la rivoluzione” era inequivocabilmente un manifesto anarchico, con Lenin che scriveva che “finché c’è uno stato non c’è libertà, quando c’è libertà non ci sarà nessuno stato.” Ma Lenin, una volta arrivato al potere si era rivelato, come Leon Trotsky, un opportunista che aveva fatto promesse, come “tutto il potere ai soviet,” che non aveva alcuna intenzione di mantenere. Aveva usato il terrore politico, arresti ed esecuzioni di massa per schiacciare i soviet autonomi ed auto-gestiti e le rappresentanze dei lavoratori. Una volta al potere, era stato a capo di una élite centralizzata ed autocratica. Aveva criminalizzato il dissenso, bandito i partiti politici d’opposizione, imbavagliato la stampa e istituito un sistema di capitalismo di stato che aveva privato i lavoratori della loro autonomia e dei loro diritti.

Lui, come Maximilien Robespierre, potrà anche essersi considerato un idealista, ma una delle sue ex-compagne, Angelica Balabanova, citando le parole di Goethe, aveva detto che “desiderava il bene … ma aveva creato il male.” Lo stalinismo non è stato un’aberrazione. E’ stato l’erede naturale del leninismo.

Una volta al potere, come aveva sottolineato Rosa Luxemburg in “La rivoluzione russa e il leninismo o il marxismo?,” Lenin era diventato il nemico del socialismo democratico. Si era appoggiato al fanatico Felix Dzerzhinsky, il capo della neonata Cheka, che, durante il primo anno della rivoluzione, aveva ufficialmente giustiziato 6.300 persone, anche se, a mio avviso, la cifra è molto sottostimata. Era stato lo stesso Lenin che, nel novembre del 1917, aveva detto: “Noi non applichiamo il terrore come hanno fatto i rivoluzionari francesi, che hanno ghigliottinato gente inerme, e spero che non lo applicheremo.

L’anarchico Mikhail Bakunin aveva avvertito, prescientemente, che i marxisti si proponevano di sostituire il capitalista con il burocrate. La società marxista, aveva detto, non era altro che il capitalismo sotto la gestione centralizzata dello stato e sarebbe stata, secondo lui, ancora più oppressiva. Ecco perché Noam Chomsky, correttamente, definisce Lenin il dittatore  una “devianza verso destra” e un  “controrivoluzionario.”

Ma non si può negare la brillantezza di Lenin. Ha ridefinito il panorama politico del 20° secolo. Decenni dopo la rivoluzione russa, in Spagna, Cina, Cuba, Vietnam e Sudafrica i popoli oppressi hanno cercato ispirazione in Lenin e nella sua rivoluzione. La disuguaglianza sociale e la distruzione delle istituzioni democratiche operate dal neoliberismo e il sequestro del potere da parte delle multinazionali danno tuttora importanza a Lenin, che aveva dovuto affrontare molte delle stesse problematiche sul dispotismo, l’imperialismo e il capitalismo. Lenin il rivoluzionario ha molto da insegnarci.

Lui, come John Dewey, aveva capito che, finché la classe capitalista avrà il controllo dei mezzi di produzione, non sarà mai possibile una vera democrazia.

Lenin era pienamente consapevole che le rivoluzioni avvengono per combustioni spontanee, che nessuno, compresi i rivoluzionari, può prevedere. La rivoluzione del febbraio 1917 era stata, come l’assalto francese alla Bastiglia, una rivolta popolare inaspettata e non pianificata. Come aveva sottolineato lo sfortunato Alexander Kerensky, la rivoluzione russa “era arrivata spontaneamente, non era stata inventata da nessuno, era nata nel caos dovuto al crollo dello zarismo.”

Questo vale per tutte le rivoluzioni. La stoppa è lì. Ciò che la infiamma è un mistero.

La chiave del successo, e questo vale per tutte le rivoluzioni, è il rifiuto da parte della polizia e dell’esercito, come era avvenuto a Pietrogrado, di ristabilire l’ordine e difendere il vecchio regime. Trotsky aveva affermato che i regimi decaduti inevitabilmente portano al potere leader di stupefacente incompetenza, corruzione e imbecillità, figure come lo zar Nicola II e Donald Trump. Persino le élite, alla fine, non vogliono più difenderle. I sistemi di governance fossilizzati, evidenziati negli Stati Uniti dalle nostre elezioni gestite dalle multinazionali, dal nostro Congresso disfunzionale, dalla nostra stampa commerciale e dal nostro fallito sistema giudiziario, che ha legalizzato il gerrymandering (una versione aggiornata di quello britannico-ottocentesco dei “borghi putridi“), sono i pupazzi trasparenti della cabala dominante. Una riforma che passi attraverso queste strutture è impossibile. Questa consapevolezza crea un’enorme divisione tra i liberali, che sperano nelle riforme (li si può vedere, ancora una volta, mentre investono stupidamente tempo ed energie nel Partito Democratico) e i rivoluzionari, che cercano non di correggere il sistema o di lavorarci dall’interno, ma di distruggerlo.

Lenin, come Karl Marx, aveva capito che le rivoluzioni non venivano fatte dal lumpenproletariat. Il lumpenproletariat è molto spesso il nemico della rivoluzione e l’alleato naturale dei fascisti. [I sottoproletari] gravitano verso i vigilantes armati reazionari, attirati dall’ebbrezza della violenza, e costruiscono la loro ideologia distorta attingendo alle teorie della cospirazione e della supremazia bianca. Vediamo questo fenomeno in alcuni dei sostenitori di Trump,  nelle milizie bianche e nei gruppi di odio. Lenin aveva un’antipatia temperamentale nei confronti degli intellettuali, ma sapeva che non c’era altra classe che potesse plasmare e guidare un movimento rivoluzionario. Questo è il motivo per cui aveva fatto affidamento così pesantemente su intellettuali come Trotsky e Lev Kamenev, entrambi in seguito eliminati da Josef Stalin.

I rivoluzionari, aveva detto Lenin, devono essere costantemente autocritici e autoriflessivi. Devono studiare attentamente e imparare dai fallimenti e dalle sconfitte. Devono essere ferrati in storia, filosofia, studi economici e cultura generale. Devono avere una devozione assoluta alla causa, un disprezzo per la sicurezza personale, una disciplina ferrea e rispetto per la gerarchia di partito, una devozione servile al dovere e la capacità di fondere le loro personalità nel gruppo. I rivoluzionari, per quanto utopistici possano essere i loro ideali, devono essere anche politici realisti. Lenin disdegnava la purezza dottrinale, ricordando ai suoi seguaci che “la teoria è una guida, non una Sacra Scrittura.” Sapeva, tuttavia, che la maggior parte degli intellettuali (lui e Trotsky erano eccezioni) mancava della capacità di agire in modo rapido e decisivo. Ciò spiegherebbe perché Lenin, una volta arrivato al potere, si fosse appoggiato sempre più spesso a ceffi come Stalin e Yakov Sverdlov, il responsabile dell’esecuzione dello zar deposto e della sua famiglia. Trotsky, nonostante la sua abilità di oratore e di comandante dell’Armata Rossa, aveva scarso interesse per le minuzie quotidiane dell’attività di governo, una carenza che avrebbe consentito a Stalin di allontanarlo dal potere, costringerlo all’esilio e, infine, inviare un agente segreto in Messico per piantargli uno scalpello da ghiaccio in testa.

Le rivoluzioni sono invariabilmente guidate da leader messianici, come Cromwell e Robespierre, che possiedono una strana combinazione di alti ideali e, come scrive Crane Brinton, “un completo disprezzo per quelle inibizioni e quei principi che servono alla maggior parte degli altri uomini come ideali.” Questi leader rivoluzionari non sono, sottolinea Brinton, i filosofi-re di Platone, ma dei filosofi-assassini. Queste qualità permettono loro di spazzare via i moderati (che dopo una rivoluzione ricevono un potere nominale) e di trasformare i partiti rivoluzionari in macchine efficienti. Queste qualità permettono loro di schiacciare le forze della reazione, che inevitabilmente arrivano per distruggere l’ordine rivoluzionario. Lenin e Trotsky, poco dopo aver preso il potere, avevano dovuto mobilitarsi rapidamente su una dozzina di fronti per combattere le armate bianche zariste e i loro alleati stranieri.

Lenin aveva capito che le sollevazioni di massa arrivano in un attimo fugace che, se non viene colto al volo dal rivoluzionario, potrebbe non ripresentarsi più. In quei momenti il rivoluzionario deve abilmente sfruttare le illusioni autodistruttive che accecano e paralizzano le élite dominanti e cavalcare l’onda dei disordini, fino ad arrivare al potere. Il tempismo è tutto, Lenin ripeteva continuamente. In fatto di tempismo, Lenin era un maestro. “Ci sono decenni in cui non succede nulla, e ci sono settimane in cui accadono decenni,” aveva scritto.

Lenin aborriva la violenza anarchica, la “propaganda dell’azione.” Gli assassini da parte degli anarchici di zar, principi, imperatrici, presidenti e primi ministri, che aveva liquidato come atti di autoindulgenza nevrotica, non hanno mai avuto e mai avrebbero istigato, aveva sottolineato, una rivolta popolare. Il terrorismo, aveva scritto, demoralizza rapidamente quelli che lo praticano e distrugge il gruppo rivoluzionario che lo adotta. Avrebbe stroncato il vandalismo adolescenziale e la mancanza di un’organizzazione coerente e di idee che caratterizzano i black bloc e antifa. Lenin chiamava questi anarchici rinnegati “liberali con le bombe” perché, come i liberali, credevano che la sola propaganda, dell’azione e della parola, avrebbero portato ad un cambiamento radicale. Come Lenin aveva sottolineato, il terrorismo e la violenza avevano solo spaventato la gente, demonizzato e isolato i rivoluzionari e legittimato la repressione dello stato. La violenza non è mai stata un sostitutivo della mobilitazione di massa. Non è mai stata un’alternativa al lungo e tedioso lavoro di costruzione di un partito politico rivoluzionario. E, senza un partito rivoluzionario, Lenin aveva correttamente ammonito, la rivoluzione è impossibile.

L’assoluta inutilità del terrore è chiaramente dimostrata dall’esperienza del movimento rivoluzionario russo,” aveva scritto Lenin, sebbene il suo stesso fratello fosse stato giustiziato dopo il fallimento di un complotto per assassinare lo zar. “… I singoli atti di terrorismo … creano solo una sensazione di breve durata, e conducono nel lungo periodo all’apatia e all’attesa passiva di un’altra ‘sensazione.’”

Le rivoluzioni possono essere fatte da minoranze di militanti, ma il loro potere deriva dall’articolazione delle aspirazioni coscienti della maggior parte della società. L’ossessionarsi su figure di governo specifiche, piuttosto che sulle strutture del potere repressivo, distoglie l’attenzione dagli obiettivi più importanti. Lenin si riferiva allo zar come “l’idiota Romanov” e aveva detto ai suoi compagni bolscevichi che si trattava di una persona di poca importanza. Avrebbe liquidato anche la nostra preoccupazione per Donald Trump. Il totalitarismo corporativo, con la sua sorveglianza totalitaria, le guerre infinite, la polizia militarizzata, il trasferimento di ricchezza verso l’alto, i programmi di austerità e il collasso delle infrastrutture e dei servizi sociali di base, dall’educazione alla salute, l’ecocidio, la schiavitù per debito e il depotenziamento e l’impoverimento dei lavoratori sono tutti precedenti a Trump. Mike Davis in “Prisoners of the American Dream” [Prigionieri del sogno americano] ci mostra come le ondate di violenza e di repressione dello stato contro la classe operaia e la sinistra da parte delle amministrazioni democratiche e repubblicane abbiano effettivamente anticipato l’emergere del socialismo.

Lenin aveva messo in guardia sul fatto che quando il capitalismo è seriamente minacciato, il fascismo è sempre l’opzione predefinita, non solo per le élite dominanti, ma anche per la classe liberale. I liberali, che temono la sinistra radicale, diventano, al momento della rivoluzione, il nemico dei rivoluzionari. Lenin, come Trotsky, aveva studiato da vicino la Rivoluzione Francese e la Comune di Parigi. Quando le élite francesi non erano riuscite a far sì che i Prussiani invasori distruggessero la Comune, lo avevano fatto da sole, lasciando 30.000 morti sul terreno, di cui 14.000 giustiziati, uomini e donne. Dopo la Prima Guerra Mondiale, il Ministro della Difesa tedesco, Gustav Noske, membro del Partito Socialdemocratico, aveva organizzato i veterani di guerra nei Freikorps, una milizia di destra. Noske aveva usato questa milizia, il precursore del Partito Nazista, per annientare la rivoluzione tedesca del 1918-19 e la rivolta marxista della Lega Spartachista. Allo stesso modo, i Freikorps avevano rapito e assassinato Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg il 15 gennaio 1919. Durante la Seconda Guerra Mondiale, in Francia, il maresciallo Philippe Pétain e i collaboratori di Vichy si erano alleati con gli occupanti nazisti per contrastare quella che temevano potesse essere una rivolta comunista.

Lenin sosteneva che il modo più efficace per indebolire la determinazione dell’élite dominante fosse quello di dir loro esattamente che cosa aspettarsi. Questa audacia e questa sfacciataggine attirano l’attenzione degli organi di sicurezza dello stato, ma non generano ostilità pubblica verso il movimento rivoluzionario; al contrario, conferiscono al movimento fascino e prestigio. Il rivoluzionario, aveva scritto, deve fare richieste inequivocabili che, se accettate, significherebbero la distruzione dell’attuale struttura di potere. E il rivoluzionario non deve mai scendere a compromessi su queste richieste.

La pubblica denuncia dei centri di potere corrotti, compresi quelli militari, indebolisce la fiducia e la credibilità delle élite al potere. Mentre la forza rivoluzionaria acquista slancio, le élite dominanti tentano di fare concessioni che indeboliscono ulteriormente la loro credibilità e la loro forza.

Le potenze imperiali, si era reso conto, erano particolarmente vulnerabili e fragili. Non erano autosufficienti, ma dipendevano dallo sfruttamento delle risorse e del lavoro straniero, nonché da un vasto apparato militare che prosciugava le risorse dello stato. L’imperialismo porta con sé monopoli corporativi, una caratteristica della fase avanzata del capitalismo. Sposta il potere dalla classe manifatturiera alla classe parassitaria dei finanzieri, dei rentiers, la cui professione, scriveva Lenin, “è l’ozio.” Lo stadio avanzato del capitalismo rovescia l’economia classica. Quello che era considerato improduttivo, il parassitismo della classe dei rentier, diventa l’economia reale. E quello che era considerato il settore produttivo dell’economia, il lavoro e l’industria, è trattato da parassita. L’ascesa degli speculatori globali è la morte per il sistema capitalistico, che si auto-consuma.

La Luxemburg, forse l’unica marxista contemporanea intellettualmente all’altezza di Lenin, aveva previsto il pericolo rappresentato dal dominio ferreo di Lenin prima sul partito e poi sulla Russia stessa. Era una feroce oppositrice dell’ordinamento capitalista e dell’imperialismo tanto quanto Lenin, ma si opponeva all’autorità centralizzata e criticava l’implicito disprezzo di Lenin per la classe operaia. Qualsiasi rivoluzione che giustificasse una dittatura, come aveva fatto Lenin (anche se aveva insistito sulla sua temporaneità), era pericolosa. L’unico modo per proteggere il socialismo rivoluzionario dall’autocrazia e dall’irrigidimento era dare maggior potere al popolo attraverso le istituzioni democratiche e la libertà di espressione.

Aveva scritto:

“La libertà solo per i sostenitori del governo, solo per i membri di un partito, per quanto numerosi possano essere, non è affatto libertà. La libertà è sempre ed esclusivamente libertà per chi la pensa diversamente. Non a causa di qualche concetto fanatico di “giustizia,” ma perché tutto ciò che è istruttivo, salutare e purificatore nella libertà politica dipende da questa caratteristica essenziale, e la sua efficacia svanisce quando la “libertà” diventa un privilegio speciale.”

La Luxemburg, in questo senso, era la vera rivoluzionaria. Una rivoluzione socialista non sarebbe stata costruita da un’avanguardia auto-consacratasi che dominava tutti gli aspetti della società e della cultura, ma attraverso una sperimentazione senza fine, creatività, dissenso, dibattito aperto, rovesci e progressi. “Il socialismo, per sua stessa natura, non può essere introdotto tramite ukaz [editti]. … Solo una vita senza ostacoli, effervescente, che scorre in mille nuove forme ed improvvisazioni, che porta alla luce una forza creativa, corregge da sola tutti i tentativi sbagliati.

Aveva continuato:

“Ma con la completa repressione dell’attività politica, anche la vita nei soviet è destinata a diventare sempre più paralizzata. Senza elezioni generali, senza libertà illimitata di stampa e di assemblea, senza un libero dibattito di opinioni, in ogni istituzione pubblica la vita muore, diventa una mera parvenza di vita, in cui solo la burocrazia rimane l’elemento attivo. La vita pubblica gradualmente si addormenta, qualche decina di leader di partito, di energia inesauribile ed esperienza sconfinata, dirigono e comandano. Tra di loro, in realtà, solo una dozzina di teste eccezionali hanno il vero potere e una rappresentanza della classe operaia viene invitata di volta in volta a riunioni in cui devono applaudire i discorsi dei leader e approvare all’unanimità le risoluzioni proposte; in fin dei conti, quindi, è solo l’affare di una piccola cricca, una dittatura, certo, non del proletariato, ma solo di una manciata di politici. … Tali condizioni portano inevitabilmente ad una brutalizzazione della vita pubblica: tentati omicidi, uccisioni di ostaggi, ecc.”

I leninisti, naturalmente, sosterranno che gli strumenti autoritari che Lenin e Trotsky avevano utilizzato per costruire e proteggere lo stato sovietico erano essenziali, che senza di essi la rivoluzione sarebbe stata distrutta. Non possiamo scartare con disinvoltura questa tesi, viste le reali minacce esistenziali che il nuovo ordine rivoluzionario aveva dovuto affrontare e la molteplicità di forze schierate contro di esso. Bakunin e gli anarchici avrebbero potuto anche aver ragione nella loro analisi sui pericoli insiti in uno stato bolscevico centralizzato, e allora? Secondo me, [gli anarchici] non offrono soluzioni convincenti, ma presentano invece oniriche banalità sulla cooperazione volontaria e il federalismo delle comuni.

La storia ha ampiamente dimostrato che se non c’è un partito rivoluzionario, o se un partito rivoluzionario viene distrutto, le forze della reazione trionfano. Basta guardare all’ascesa al potere del generale francese Louis-Eugène Cavaignac, che aveva schiacciato la rivolta del 1848 a Parigi; a Luigi Napoleone; al generale tedesco Wilhelm Groener, che aveva brutalmente represso le rivolte popolari seguite alla sconfitta del paese nella Prima Guerra Mondiale; a Benito Mussolini; ad Adolf Hitler; e, nella nostra epoca, a Suharto e ad Augusto Pinochet. I vecchi generali zaristi, a cominciare da Lavr Kornilov, che un collega generale aveva descritto come un uomo con “il cuore di un leone e il cervello di una pecora,” si stavano preparando, appoggiati dai loro alleati occidentali, a balzare sul nuovo ordine rivoluzionario e a soffocarlo.

Possiamo però chiederci se ne fosse valsa la pena pagare il costo imposto da Lenin. Se, per poter esistere, dobbiamo creare immagini speculari dell’autocrazia e del terrore, allora non siamo migliori dei mostri che abbiamo cercato di uccidere. La Luxemburg aveva ragione: i fini non giustificano mai i mezzi. Quelli che percorrono fino in fondo quella strada, quelli che gettano alle ortiche tutta la moralità, come aveva fatto Lenin, non tornano indietro, e ci sono alcune prove che Lenin, all’approsimarsi della fine della sua vita terrena, fosse disgustato dalla sua stessa creazione. “Pensi di guidare una macchina, però è lei che ti sta guidando e, all’improvviso, altre mani, diverse dalle tue, sono sul volante,” aveva detto con rimpianto.

Forse il più grande lascito di Lenin è il suo realismo politico, il suo odio per i dogmatismi e il suo meticoloso studio del potere. Se non comprendiamo il potere e il suo funzionamento, siamo condannati. La convinzione di Che Guevara nella sua stessa propaganda, la dottrina del foquismo, secondo cui la rivoluzione viene innescata da piccole bande armate ribelli, non solo ha portato alla sua morte in Bolivia, ma ad una serie di insurrezioni fallite in America Latina e in Africa e alla stupida decisione dei leader degli Studenti per una Società Democratica, o SDS, il più grande movimento antimilitarista negli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam, di implodere su se stessi e formare un proprio movimento clandestino, il Weather Underground. Possiamo imparare molto da Lenin il rivoluzionario su cosa fare, e molto da Lenin il dittatore su cosa non fare. Lenin avrebbe insistito perché lo facessimo.

Chris Hedges

Fonte: truthdig.com
Link: https://www.truthdig.com/articles/the-dilemma-of-vladimir-lenin/
01.07.2019
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

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