Il complesso industriale carcerario negli Stati Uniti

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blankSradicati nel loro stesso paese: come lavorano i detenuti.

Le carceri costituiscono un affare succulento, soprattutto negli Stati Uniti: vi si trova manodopera a basso costo, senza diritti e, ovviamente, in cattività. Molte grandi imprese, tra cui Microsoft, Starbucks e Colgate Palmolive approfittano di questo sistema. Profitti a parte, il complesso industriale carcerario degli Stati Uniti funziona come un’immensa macchina repressiva, di controllo e di sfruttamento.
Detenuti nello Stato del Kansas.

Nel 1961, il Generale e Presidente Dwight Eisenhower utilizzò per la prima volta l’espressione “complesso militar-industriale” per designare l’alleanza strategica tra i circoli militari statunitensi ed i produttori di armi, il cui scopo era di aumentare i loro profitti tramite la promozione del loro prodotto: la guerra.

Durante la guerra fredda tale alleanza ha generato enormi profitti nel settore privato – in particolare grazie al sostegno politico ed economico dello Stato – che faceva sempre più ricorso alla forza militare, sosteneva le guerre di contro-insurrezione e spingeva alla produzione di armi nucleari. Il “complesso industriale carcerario” (in inglese PIC) designa il vasto sistema di repressione, di controllo e di sfruttamento che è diventato oggi il sistema carcerario statunitense.

In effetti, negli ultimi 30 anni, la popolazione carceraria è esplosa e dal 1990 è raddoppiata. [1] Si contano oggi 2 milioni di detenuti, a cui bisogna aggiungere i 5 milioni di persone in libertà condizionata [2].
Gli Stati Uniti, che rappresentano il 5% della popolazione mondiale, detengono quindi il 25% dei prigionieri del pianeta.
Inoltre, dopo la “guerra contro la droga” condotta dal governo di Ronald Reagan (1981-1989), la composizione etnica della popolazione carceraria si differenzia notevolmente rispetto a quella della società statunitense. Il 63% dei detenuti appartiene alla minoranza nera ed a quella latina, mentre esse costituiscono solo il 25% della popolazione nazionale [3]. Nonostante tale disparità abbia una relazione evidente con la distribuzione della ricchezza a seconda delle origini etniche così come i numeri della criminalità, ciò non spiega tutto. Numerosi esperti sono infatti dell’idea che si tratti del conseguimento insidioso di politiche discriminatorie. Il carcere sarebbe il sistema più redditizio per far sparire coloro che la società ritiene inaccettabili. Perché?

Pilar Maschi, ex detenuta e madre single di una bambina di cinque anni è attualmente attivista a tempo pieno nel movimento abolizionista “Critical Resistance”. Questa associazione si batte per l’eliminazione di tutti i carceri e per la ricostruzione di comunità e di relazioni di solidarietà. Ecco la spiegazione da lei fornitaci: A partire dagli anni ’70, lo Stato ha condotto una feroce battaglia contro i movimenti di rivolta femministi e di rifiuto generale della guerra in Vietnam. Contemporaneamente si sono intrapresi profondi cambiamenti nella struttura produttiva. I capi d’azienda, con l’appoggio del governo, hanno licenziato milioni di persone il cui lavoro non era più necessario. Diventate inutili, queste persone vengono etichettate come pericolose per la società e schedate dal PIC come scioperanti o criminali, che ha trovato così il modo più semplice per generare un beneficio economico sulla pelle di questi esclusi. Nel 1970 i detenuti negli Stati Uniti erano 200.000, oggi il numero supera i 2 milioni.

Ik Aikur, originario della Nigeria, anche lui attivista nel “Critical Resistance” a New Haven (Connecticut) sottolinea l’alto grado di esclusione nelle comunità di colore le cui sole opportunità sono il servizio militare, lavori mal pagati e precari oppure intraprendere un’attività illegale che prima o poi li porterà diritti in carcere e quindi ad una maggiore emarginazione. Immaginate che una sola condanna per infrazioni legate alla droga o ad atti di violenza comporta l’impossibilità legale di venire assunti. Le donne sono doppiamente penalizzate dal Pic: sia come detenute, che come compagne o parenti di detenuti di sesso maschile che per mancanza di possibilità di reinserimento tornano nelle loro comunità e riproducono gli stessi schemi di violenza. L’incarcerazione massiccia ha effetti terribili tra i gruppi sociali già emarginati, con alti tassi di consumo di droghe e di disoccupazione, in particolare tra gli afro-americani, i sudamericani e gli indigeni vittime del PIC.
“Critical Resistance” calcola che un giovane afro-americano su tre si trova in carcere o è stato detenuto. Nelle comunità più povere queste cifre sono ancora più elevate.

Gli affari sono affari

Negli anni ’90 è iniziato il boom della privatizzazione dei servizi di sicurezza. I centri di detenzione per emigranti clandestini del Servizio Immigrazione e Naturalizzazione (SIN) – che dispone di centri speciali per emigranti, ma utilizza anche carceri convenzionali – si integrano anch’essi al sistema. Nell’anno fiscale 2000, il budget del SIN era di 4.270 milioni di dollari, in aumento dell’8% rispetto all’anno precedente. [4]

Dopo l’11 settembre, che ha avuto come conseguenza l’incarcerazione a tempo indeterminato di migliaia di cittadini di origine araba, gli investimenti in questo settore sono in continuo aumento. Le imprese private che si fanno carico della gestione, della sicurezza e della deportazione di stranieri, a partire dagli anni ‘90 hanno anch’essi approfittato dell’aumento di finanziamenti destinati all’incarcerazione di clandestini. La prima esperienza di prigioni private è stata realizzata negli anni 80, sotto l’amministrazione Reagan, con la costruzione di alcune carceri di sicurezza minima a Houston e a Lardo in Texas. Con l’aiuto di consulenze “tecniche” di ex direttori di carceri e col denaro di aziende private – in particolare di Kenticky Fried Chicken – è stata fondata la “Corrections Corporation of America (Cca)“, attualmente la più grande impresa privata del settore, che ha contratti negli Stati-Uniti, a Porto Rico, in Inghilterra ed in Australia. L’ex agente dell’FBI Gorge Wackenhut, da parte sua, ha fondato la Wackenhut Corrections, altra importante impresa specializzata nelle carceri private.

Non è difficile immaginare cosa sia successo negli ultimi vent’anni: nell’ultima fase della Guerra fredda, l’industria della guerra, la tecnologia, il know-how della sicurezza si sono rivelati affari succulenti. Il “complesso industriale penale” presenta diverse sfaccettature. Ma la più redditizia per le grandi imprese che lo gestiscono, come per quelle che cercano di ridurre i propri costi di produzione, è l’abbondanza di mano d’opera a buon mercato nelle carceri. Un esempio eclatante è quello dell’impresa LTI Inc. che, d’accordo con la Wackenhut Corrections, ha addirittura spostato i propri impianti di produzione all’interno delle strutture carcerarie in modo da approfittare della mano d’opera. Quale luogo migliore in cui trovare lavoratori che percepiscono un salario minimo e non possono avere alcuna rappresentanza sindacale?

Non si tratta di un caso isolato. In California, il sistema è fiorente grazie ai bassi costi della manodopera (22 centesimi di dollaro all’ora [6] e genera profitti a diverse aziende: Microsoft, Colgate Palmolive, Starbucks…[7]. I detenuti non possono permettersi di rifiutare questi lavori, pena la perdita di vantaggi acquisiti (come la libertà vigilata o privilegi ottenuti grazie alla buona condotta). Questi schiavi moderni – obbligati a lavorare e privati di ogni diritto – sono di grande utilità per le aziende che li utilizzano. Nel 1980 i profitti ricavati dal lavoro dei detenuti erano di 392 milioni di dollari. Nel 1994 avevano raggiunto la cifra di 3 miliardi e 310 milioni di dollari, grazie all’aumento del numero dei detenuti.

Le aziende principali del settore si chiamano Wackenhut Corporation, CCD e Correctional Services Corporation. Esse hanno già esportato il modello ad altri Paesi anglofoni e progettano di estendere i loro mercati nei prossimi anni ad altri Paesi industrializzati. Gli effetti perversi di tale strategia sono evidenti: la richiesta di mano d’opera a buon mercato e di investimenti determina una forte pressione sulle forze dell’ordine e sul sistema giudiziario affinché aumenti il numero di detenuti. Il business del PIC rappresenta d’altronde la sola opportunità di produrre ricchezza e di creare lavoro in comunità rurali molto povere.

Ruth e Craig Wlmore sono i responsabili del California Prison Moratorium Project, un movimento il cui scopo è di impedire la nascita di nuovi carceri e di chiudere quelli già esistenti. Ruth ha appena scritto un libro su queste lotte in California il cui titolo è più che eloquente: Golden Gulag. La California, al quinto posto nel mondo per importanza economica, possiede anche le statistiche più inquietanti: negli ultimi due decenni, ha costruito 23 prigioni con una capacità da 4000 a 6000 prigionieri. L’esempio di Corcoran (contea di Kings) è eloquente. Questo piccolo centro agricolo annovera 2 carceri ed un totale di 11000 detenuti. La popolazione di 9000 abitanti è la stessa dal 1980, data in cui fu costruito il primo stabile. A quell’epoca, 1000 abitanti del posto vivevano sotto la soglia di povertà. Dieci anni più tardi, dopo che lo Stato aveva investito 1 miliardo di dollari nelle strutture carcerarie, i poveri sono diventati 2000 (8).

Repressione, esclusione e consenso

Di fronte a questa situazione, è quanto meno sorprendente il grado di accettazione generale del PIC. Le organizzazioni che protestano contro un sistema che, nonostante tutto, fa degli Stati Uniti il primo Paese per numero di detenuti sono poche. Paul Wright, detenuto nello Stato di Washington ed editore della rivista Prison legal News, analizza questo fenomeno di accettazione generalizzata. In uno dei suoi interventi [9], egli illustra il modello culturale che sostiene l’idea del PIC in quanto sistema di giustizia che cerca la punizione a tutti i costi e che vuol difendere la parte “sana” di una società in piena decomposizione.

Basta osservare la produzione culturale ufficiale per capire come la costruzione di un immaginario collettivo fa parte integrante del PIC.
Dalle grandi produzioni hollywoodiane fino alla creazione pubblicitaria per ogni tipo di prodotto, i riferimenti al mondo carcerario propagano l’idea di un mondo duro e difficile, ma giusto ed indispensabile. Questo processo porta ad una moralizzazione del sistema carcerario sostenuto dalla tesi che mettere gente prigione è non soltanto giusto, ma indispensabile perché la società resti sana e possa salvare i propri valori.

L’estensione e la crescita negli ultimi anni della quantità e della diversità delle forme di detenzione negli Stati Uniti non ha eguali nel mondo. E, partendo dal supercarcere di Pelican Bay (California), fino a Guantanamo (Cuba), Abu Ghraib (Iraq) e Woomera Camp (Australia), stiamo assistendo alla globalizzazione di quel modello e ad una pratica ben precisa: rinchiudere le popolazioni non gradite, gli scarti dei progetti neoliberisti. È opportuno chiedersi se di fronte ad un tale panorama, sia possibile immaginare una globalizzazione delle alternative alla carcerazione nonché un concetto di sicurezza e di giustizia non punitive, che non scadano nell’emarginazione.

Matteo Dean e Vittorio Sergi
Giornalisti italiani

Per gentile concessione di Reseau Voltaire
26.05.05

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di NiCOLETTA SECCACINI


[1] “Overview of Critical Resistance on the Prison Industrial Complex” in Critical Resistance to the Prison Industrial Complex, edizione speciale di Social Justice, 2000, San Francisco.
[2] Rapporto dell’ Instituto del Tercer Mundo Guía del Mundo, Montevideo, Uruguay, 11/4/2003.
[3] Rapporto dell’ Instituto del Tercer Mundo – Guía del Mundo, Uruguay, 2003.
[4] Michael Welch. “The role of the Immigration and Naturalisation Service in the Prison Industrial Complex”, in Social Justice, Vol. 27, n.3, 2000.
[5] Ogni giorno, circa 20000 persone, uomini, donne e bambini devono subire una detenzione a tempo indefinito (le pene possono andare da un minimo di qualche mese a diversi anni in carceri, sia statali he privati, in condizioni tali che i diritti umani più elementary non vengono rispettati)Rachel Meerpol. “The post 9/11 investigation and Immigration detention”, in America”s Disappeared, Seven Stories Press, New York, 2005.
[6] “The Prison Industrial Complex and the Global Economy”, di Eve Goldberg y Linda Evans, in www.prisionactivist.org.
[7] Nella Maggior parte dei casi, queste grandi aziende si servono di sub-appaltatori per far effettuare questi lavori. Alcuni detenuti del Twin Rivers Correctional Center di Washington hanno raccontato di aver confezionato i sistemi operativi Windows 95 di Microsoft. Il produttore di jeans Lee, invece, fa cucire le sue tee-shirts nel carcere Richard J. Donovan State Correctional. Per maggiori informazioni si rimanda al sito www.corpwatch.org.
[8] “The other California”, su Globalize Liberation, City Lights Books, San Francisco, 2004.
[9] “Critical Resistance to the Prison Industrial Complex”, San Francisco, 2002.

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