I PERICOLI DEL 2005

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DI MARSHALL AUERBACK

Nel suo racconto del 1849, Les guepes, Alphonse Karr ha scritto la famosa frase: “Più le cose cambiano, più rimangono uguali.” Negli Stati Uniti, nel 2005 può essere vero l’inverso, più le cose rimangono uguali, più cambiano,…in peggio. A questo proposito, compilare l’elenco dei potenziali pericoli che minacciano gli Stati Uniti ha un vago sapore di dèjà vu. Dopotutto questo elenco non rappresenta niente altro che la descrizione di una politica economica già senza bussola da lungo tempo. Praticamente lo stesso elenco poteva essere redatto sia nel 2004, nel 2003 e anche prima.

I pericoli sono rappresentati da una politica di stimolo dell’economia basata su un persistente e sempre crescente ricorso al debito, accoppiata ad un concomitante squilibrio della bilancia commerciale sempre in aumento. Questa situazione comporta per Stati Uniti una dipendenza finanziaria che li mette in una pericolosa situazione di debito permanente proprio nei confronti di stati avversari, i quali potrebbero (almeno in teoria) staccare la spina in ogni momento. Ciò avviene con lo sfondo di una serie di situazioni di crisi fra loro collegate: la sempre più problematica situazione dell’ Irak, ormai simile al pantano vietnamita, l’eccesso di espansione imperiale, l’aumento dei prezzi dell’energia, frenetica competizione per la sicurezza delle fonti energetiche, un acuirsi delle già presenti rivalità regionali e globali.Proprio come uno straccio imbevuto di petrolio appare del tutto innocuo fino a quando a qualcuno non viene in mente di accendere un fiammifero, così rimane invariato il pericolo che minaccia gli Stati Uniti, anche se finora i suoi ormai vecchi problemi economici non hanno provocato nessuna catastrofe finanziaria. Per gli osservatori economici del 2005 il punto è cercare di scoprire quale evento (o combinazione di eventi) possa rappresentare il cerino che darà fuoco allo straccio imbevuto – o se c’è proprio un evento capace di far precipitare lo scoppio di una bolla finanziaria senza precedenti storici.

Lo strano delle bolle finanziarie è che non seguono una percorso determinato, che non esiste una dottrina specifica che indichi come si possa tornare indietro, né che esista un limite preciso oltre il quale il fenomeno entra in crisi. Il raggiungimento di tale limite può trovarsi potenzialmente in ogni momento a qualunque livello. Ciò non dimeno è possibile delineare vari scenari che potrebbero, nei prossimi mesi del 2005, far scattare tale processo o anche qualcosa che si avvicini ad un collasso economico.

IL DEBITO: UNA POLITICA BASATA SUGLI STEROIDI

Il punto debole dell’economia americana è certamente costituito dal suo debito. Di solito si pensa che l’aumento del credito aumenti la domanda del consumatore. Sul breve periodo ciò è certamente vero. Ma sul lungo periodo è tutta un’altra questione. Quando il livello del debito è elevato come quello odierno degli USA, qualsiasi aumento creato dall’espansione del credito può agire solo come un freno sulla domanda. I segni sono già nell’aria – o piuttosto si intravedono in quella che è stata, secondo gli standard storici, solo una piccola crescita dell’economia durante il primo mandato di G. Bush.

Possiamo immaginare che l’attuale montagna costituita dal debito nazionale sia, in politica, l’equivalente dell’uso degli steroidi. Finora si è riusciti a creare un’immagine abbastanza accettabile di prosperità economica, proprio come l’uso degli steroidi nello sport sono riusciti a creare, per alcuni atleti dell’ultimo decennio, un’immagine invidiabile delle loro imprese. Ma, a differenza dei grandi club, costretti a intervenire a causa degli scandali e dell’intervento del Senato, i responsabili finanziari e monetari si sono finora rifiutati di adottare le misure necessarie per domare la crescita di un debito agli steroidi. Anzi, si è creata una vera e propria dipendenza, e la politica sembra impegnata a incoraggiare sempre maggiori dosi di indebitamento. Ogni salvataggio o promessa di una rete di protezione governativa ha solo fatto nascere altre situazioni simili: la crisi di Penn Central, la Chrysler e la Lockeed, il salvataggio di numerose banche e casse di risparmio degli anni 90, il Long Term Capital Management. I funzionari pubblici si sono sempre dimostrati restii ad adottare misure idonee a regolare il mercato finanziario speculativo, provocando così non solo i fallimenti tipo Enron – immagine del 21 secolo di ciò che gira nell’aria dell’economia USA – ma indicando chiaramente quali sono i pericoli di un debito eccessivo, di pratiche finanziarie illecite, di contabilità senza affidamento, e di conflitti di interesse senza fine.

La conseguenza della riluttanza di affrontare le conseguenze di un eccesso di credito sono rappresentate da un livello di indebitamento federale pari a 7,5 triliardi di dollari. Un triliardo è storia vecchia, 6,5 triliardi si sono formati nelle ultime tre decadi, 2 triliardi negli ultimi otto anni, e l’ultimo triliardo nei soli due ultimi anni. Secondo l’economista Andre Gunder Frank, “Il debito dello zio Sam, compreso carte di credito dei privati, mutui, ecc. ammonta a 10 triliardi, se si aggiungono i debiti delle imprese, le opzioni, i derivati e così via, più gli enti locali e federali, si arriva a un totale, veramente inimmaginabile, di 37 triliardi, equivalente a quattro volte il prodotto interno lordo americano”. Questo crescente livello di indebitamento diventerà un enorme freno deflazionario sull’economia nel caso in cui l’aumento dell’indebitamento dovesse veramente rallentare, il che equivale ad un “comma 22” economico.

L’ECONOMIA DELLA SIGNORA “BLANCHE DUBOIS”

La situazione dell’economia americana diventa ancora più precaria se si pensa che la maggior parte dei creditori è straniera. Oggi l’economia americana è tenuta a galla dagli enormi volumi dei prestiti esteri, i quali permettono al consumatore americano di continuare a comprare sempre più beni di importazione, con il peggioramento continuo della bilancia commerciale. In sostanza si potrebbe definire questa situazione, prendendo a prestito la terminologia della commedia “Un tram chiamato desiderio”, “L’economia della signora Blanche Dubois”, la cui prosperità dipendeva “dalla gentilezza degli stranieri” . Si tratta di una situazione squilibrata che potrebbe finire, probabilmente con un grosso tonfo, se gli alleati commerciali come il Giappone, la Cina, l’Europa, decidessero semplicemente, per qualsiasi ragione, di ridurre i loro prestiti in modo sostanziale.

La Cina, il Giappone e i creditori stranieri, sono portati a sostenere lo “status quo” in quanto hanno più interesse a mantenere i livelli di occupazione interna e lo smercio dei prodotti piuttosto che rischiare di provocare l’implosione del loro più importante mercato di sbocco. Ma ciò sottintende che esista un comportamento razionale che nei momenti di crisi non sempre si trova nel sistema globale. Basta immaginare cosa può accadere ai primi segnali di una economia che comincia ad andare fuori controllo, ed è facile pensare che sia la Cina che il Giappone, posti di fronte ai loro problemi interni, daranno la priorità a questi piuttosto che al sostegno del consumatore americano. Pensate che cosa potrebbe accadere se, per esempio, una crisi bancaria scoppiata in Cina (che ha le proprie “bolle” di cui preoccuparsi) dovesse costringere il governo a cominciare a vendere parte delle sue riserve americane, per cercare di stabilizzare il proprio sistema interno o per calmare l’irrequietudine delle proprie masse disoccupate: un castello di carta mondiale.

La Cina ha già dimostrato le sue intenzioni a lungo termine a questo proposito: circa la metà della crescita cinese negli scambi commerciali dal 2001 è composta da dollari. L’anno scorso, tuttavia, mentre la Cina ha visto aumentare le proprie riserve di 112 miliardi di dollari, la quota del dollaro è stata solo del 25 per cento, cioè 25 miliardi, secondo quanto riferito dalla sempre bene informata Bank Credit Analysis, ditta di consultazione finanziaria con sede a Montreal.

Pechino ha manifestato chiaramente la sua intenzione di diversificare le proprie riserve ponendo sempre minore enfasi sul dollaro. Come uno dei più grossi creditori degli Stati Uniti la Cina oggi ha l’iniziativa, alla pari di qualunque banchiere che può sospendere il prestito quando si accorge che il debitore è senza speranza nella condizione di insolvenza. Se i capitali esteri si spostano altrove e gli USA rimangono senza credito facile, i tassi di interesse USA crescono immediatamente. Come conseguenza molti americani dovranno affrontare un drastico abbassamento del loro tenore di vita, un processo graduale di rallentamento che può continuare per anni, come è successo in Giappone dopo lo scoppio delle sue bolle creditizie agli inizi del 1990.

Anche se la Cina, il Giappone e le altre nazioni asiatiche continueranno a sostenere la prodigalità finanziaria americana, un “aggiustamento” economico negli USA può essere innescato dal semplice esaurimento dei suoi consumatori eccessivamente impegnati. Dopo tutto il paese già si trova in una situazione di deficit con dimensioni da recessione assieme a zero risparmi. E’ una situazione che in passato non si è mai verificata. Negli anni 80, quando il deficit federale era di queste dimensioni, i risparmi delle famiglie ammontavano al 9 per cento. Questa base di risparmio consentì al governo di finanziare il suo deficit per un certo tempo attraverso un prosciugamento, una volta per tutte, dei risparmi, allora dalle dimensioni senza precedenti Una manovra simile, in una America senza risparmi, oggi non è più ripetibile.

INFINE: ECCESSO DI IMPEGNI IMPERIALI

Il recupero del risparmio nazionale è fondamentalmente incompatibile con una continua crescita economica, a parità degli altri fattori. Gli USA possono a malapena sostenere una crescita rallentata, data la grandezza dei suoi sempre crescenti, e costosi, impegni oltre mare, specialmente in Irak che ormai comincia ad assomigliare ad un VietNam.

Al Presidente Bush piace paragonare la sua combinazione di strategie economiche, militari e diplomatiche con quelle del Presidente Reagan, un misto di taglio delle tasse, affermazione militare e i massicci indebitamenti degli anni ’80. I suoi consiglieri economici, specialmente il Vice Presidente Dick (“i deficit non hanno importanza”) credono che l’attuale situazione di enormi deficit fiscali e commerciali non saranno più dannosi nella prossima decade di quanto lo siano stati negli anni di Reagan.

Però se torniamo al paragone col Vietnam, troviamo un precedente storico meno confortante: la decisione, prima del Presidente Johnson e poi del Presidente Nixon, di finanziare quell’impopolare conflitto attraverso prestiti e inflazione, piuttosto che con l’aumento delle tasse, ebbe come risultato finale una grave umiliazione militare e anche una serie di crisi economiche iniziate nei primi anni 60 e continuate sino al 1982.

In un certo senso, la continua caduta del dollaro dell’anno scorso (specialmente contro l’euro) malgrado interventi significativi da parte delle banche centrali sui mercati mondiali, riflette una pari caduta di rispetto per la politica americana, e specialmente per il legame fra Pentagono e dollaro, reso evidente da una infinita serie di avventure estere. Una economia nazionale che non è in grado di produrre ciò di cui ha bisogno e investe nella “sicurezza” militare, si troverà costretta, alla fine, ad utilizzare quella stessa forza per ottenere, o minacciare di ottenere, dagli altri quello che non è capace di ottenere da sola. Questo ci porta alla definizione dello storico Paul Kennedy di “eccesso di impegni imperiali”:
“Ciò porta a concludere che i responsabili di Washington dovranno fronteggiare la dura e sgradevole realtà e cioè che oggi il totale degli impegni e degli interessi globali degli USA è molto più grande del suo potere di difenderli tutti quanti.”

La discesa nell”eccesso di impegni imperiali” spiega come l’America dei primi anni ’40, pur essendo molto più debole di oggi in termini assoluti, e pur combattendo contro nemici ben più alla pari di quelli odierni, sia nondimeno riuscito a prevalere ben più presto di un’ America dal Prodotto Interno Lordo di 11 triliardi e un bilancio della difesa vicino ai 500 miliardi (senza contare gli 80 miliardi in più richiesti per l’Irak e l’Afghanista, nel prossimo anno) contro forse 10 o 20 mila insorti male armati di uno stato dal PIL pre-guerra inferiore al bilancio di grossa società. Gli USA oggi sono una nazione con una base industriale vuota e non in grado di finanziare un avventurismo militare propugnato da quelle stesse forze che hanno contribuito a svuotarne la base industriale.

IL PETROLIO: LA LINEA DI DIVISIONE DELLA NUOVA GUERRA FREDDA

Infine c’è il problema del petrolio che, malgrado le previsioni ottimistiche degli analisti finanziari, si comincia ad avvicinare ai 50 dollari al barile. L’unica cosa che Bush non ha mai nominato in relazione alla guerra nell’Irak, è il petrolio. Ma nel 2001 l’ex segretario di stato James Baker ha scritto un saggio per il Consiglio delle Relazioni Estere nel quale si capisce che il petrolio non si può mai allontanare dalla preoccupazioni della politica americana:br>

“Un forte aumento della economia mondiale, e la nuova domanda di sempre più energia, significano la fine della capacità di sostenere un surplus dei suoi consumi e l’inizio di una sua limitazione. In fatti oggi il mondo è molto vicino all’utilizzo di tutte le sue capacità di produzione, con l’aumento dei rischi di una crisi di approvvigionamento dalle conseguenze molto più sostanziali rispetto ai tre decenni precedenti. Queste scelte influenzeranno altri obiettivi politici USA: la politica verso il Medio Oriente, la politica verso l’ex URSS e la Cina, la lotta contro il terrorismo internazionale.”

Il rapporto mette in chiaro anche un altro punto: “Gli aumenti del prezzo del petrolio, dal 1940 in poi, sono sempre stati seguiti da periodi di recessione.” Nell’attuale situazione di debitoria, ulteriori aumenti di prezzo possono causare molto più che un leggero peggioramento garden-variety dell’economia USA, specialmente se qualcuno dei maggiori produttori di petrolio, come la Russia, comincerà a dare seguito alle recenti intenzioni di farsi pagare in euro, piuttosto che in dollari. Ciò significherebbe un sostanziale aumento della bolletta energetica americana, data l’attuale debolezza del dollaro.

I recenti aumenti del prezzo del petrolio non sono soltanto il riflesso di una incertezza politica crescente e del conflitto in Medio Oriente. Ci sono altre ragioni per aspettarsi prezzi sempre più alti nei prossimi due o tre decenni, i più importanti rappresentati dalla domanda delle nuove economie, specialmente della Cina e dell’India.

La corsa parallela di Cina e USA per assicurarsi l’approvvigionamento sicuro delle fonti di energia getta i semi di futuri conflitti. Yukon Huang, consulente della World Bank,ha fatto notare che la grande dipendenza della Cina dalle importazioni di petrolio (come i problemi di degrado ambientale, compresa una seria mancanza di acqua) pongono una grave minaccia allo sviluppo economico del paese anche nel breve termine, cioè i prossimi tre-cinque anni.
La già vigorosa risposta della Cina a queste sfide porterà probabilmente a uno scontro con gli USA. Il Presidente del Venezuela, Hugo Chavez, è tornato di recente da un viaggio di Natale in Cina, dopo avere ceduto le ormai storiche forniture agli USA ai Cinesi, assieme al diritto di future prospezioni geologiche. Anche il Canada (secondo le parole del Presidente Bush, “il nostro più importante vicino del Nord”) sta negoziando la cessione di un terzo delle sue riserve alla Cina. CNOOC, il terzo gruppo cinese per il petrolio e il gas, sta attualmente considerando un’offerta di più di 13 miliardi di dollari per la sua rivale americana, la Unocal. Il significato reale dell’affare (che, date le dimensioni, non può essere considerato privo dell’aiuto statale) è che illustra l’emergente competizione fra Cina e USA per un’influenza mondiale, e per le risorse.

La corsa per le risorse avviene in un mondo nel quale le alleanze si compongono e si scompongono fra i grossi produttori e i grossi consumatori. Una specie di linea di difesa post Guerra Fredda contro una egemonia americana sembra che si trovi ai primi stadi di formazione, probabilmente comprendendo Brasile, Cina, India, Iran, Russia e Venezuela. La risposta del Presidente russo Putin alla strategia americana di presidiare alcuni paesi dell’ex URSS è stata quella di alleare le industrie petrolifere iraniane e russe, di organizzare simulazioni di esercitazioni militari in grande scala con i cinesi, e lavorare allo scopo di aprire il più corto, a buon mercato, e potenzialmente più lucrativo percorso petrolifero di tutti, da sud dell’area del mar Caspio fino all’Iran. Nello stesso tempo l’Unione Europea sta negoziando la messa al bando dell’embargo sulle armi alla Cina (con grande rammarico pubblico del Pentagono). La Russia ha anche offerto una partecipazione alla Cina nella sua Yukos, (compagnia petrolifera pro-occidente, costretta alla bancarotta da parte del governo di Putin) di recente nazionalizzata.

In un mondo con una sola super-potenza questo comportamento appare piuttosto sfacciato da parte di chi è coinvolto, però è sintomatico della crescente percezione degli USA come un gigante in declino, e sovra impegnato, anche se con una capacità di colpire mortalmente se ferito. Il dominio americano, militare ed economico, può continuare a essere il punto principale degli affari mondiali, ma i limiti della sua supremazia cominciano a essere sempre più evidenti, come appare riflesso nella precipitosa discesadel dollaro nei mercati esteri. Tutto ciò contribuisce a creare uno sfondo molto stimolante per il resto del 2005. Teniamo gli occhi aperti. Forse questo sarà veramente l’anno in cui i problemi di lunga durata degli USA si renderanno evidenti. Non aspettiamoci che Washington accetti di buon grado il degradarsi del suo potere militare e economico.

Marshall Auerback
Fonte:http://www.tomdispatch.com/index.mhtml?pid=2141
21.02.05

Traduzione per Comedonchisciotte.net a cura di Vichi

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