DI MASSIMO FINI
La notizia più importante di ieri non è il discorso di George W. Bush, col quale il presidente Usa, rivolgendosi agli europei dichiara, con molta retorica e un pizzico di ingenuità, che “nessuna potenza sulla terra ci dividerà mai” (in realtà nulla è più legato agli inevitabili mutamenti portati dall’inesorabile cammino della Storia delle alleanze internazionali) e afferma l’indissolubile amicizia fra Stati Uniti ed Europa purché, naturalmente, questa ultima si assoggetti agli interessi e ai progetti americani, soprattutto a quel terrorizzante neomessianesimo neocon che vuole “la diffusione della libertà e della democrazia sulla terra (che, tradotto, significa: guerra, guerra a tutto ciò che è “altro” dall’occidente), ma il ritiro dei giornalisti italiani dall’Iraq.È una notizia che, in un certo senso, ci fa piacere perché è quanto ci eravamo permessi in più occasioni di suggerire, visto che italiani che circolino più o meno liberamente, e non sotto il diretto controllo delle nostre Forze armate, sul territorio iracheno sono un pericolo per se stessi e per il Paese, sottoposto a facili e continui ricatti.
Solo che il ritiro avviene in modo ambiguo, come del resto tutto ciò che riguarda questa guerra mascherata da operazione di pace. Il ritiro si è infatti avuto su invito della Farnesina ai direttori dei giornali e dei telegiornali che hanno ancora inviati in Iraq e i direttori lo hanno accolto.
Doveva invece essere un ordine d’autorità, che riguardasse tutti i connazionali presenti in Iraq e non inquadrati nelle nostre truppe. Così invece rimangono sul posto gli italiani che lavorano per le Ong o per qualche azienda e che, anche se prede meno ambite dei giornalisti perché i loro sequestri hanno meno cassa di risonanza, sono sottoposti agli stessi rischi. È inutile, oltre che pericoloso, continuare nella menzogna auto consolatoria che noi italiani siamo ben accetti in Iraq perché portiamo doni e caramelle. Siamo oggettivamente degli occupanti e percepiti come tali dalla stragrande maggioranza della popolazione. Giuliana Sgrena, pur sotto la pressione psicologica dei suoi sequestratori, ha detto delle indiscutibili verità: «Nessuno deve più venire in Iraq, perché tutti gli stranieri, tutti gli italiani sono considerati nemici. Questo popolo non vuole truppe, non vuole stranieri».
Il governo italiano non può però imporre il rimpatrio d’autorità di tutti i nostri connazionali perché ciò equivarrebbe a riconoscere che in Iraq c’è una guerra e che noi vi partecipiamo, sia pur tentando di defilarci il più possibile, tanto che la nostra presenza non ha quasi niente di operativo (ce ne stiamo asserragliati nelle nostre basi, guardandoci bene dall’attuale qualsiasi controllo del territorio – l’unica volta che, di recente, siamo stati costretti ad uscire dal guscio, per un’imprudenza dei portoghesi, abbiamo subito perso un uomo e siamo precipitati nella disperazione e nella retorica consuete), è puramente simbolica, ma serve agli americani per poter dire che ci siamo anche noi e che la Coalizione è salda (mentre in realtà tutti se ne stanno andando alla chetichella).
Il governo non può dire che stiamo partecipando a una guerra perché questo è in contrasto con l’articolo 11 della Costituzione. Eppure proprio il ritiro dei giornalisti, anche di inviati sperimentatissimi, che hanno affrontato ogni sorta di fronte, come i free lance Micalessin e Biloslavo, dice quanto pericolosa sia diventata la situazione in Iraq e come le tanto decantate elezioni non abbiamo migliorato le cose ma le abbiano anzi aggravate.
A questo punto le ipotesi sono due. O riteniamo che questa guerra riconosciuta come tale sia giusta e la facciamo fino in fondo a fianco degli angloamericani, dotando le nostre truppe di armamenti adeguati che permettano di stare sul campo in modo degno e non a fare le belle statuine (tanto si sa che la Costituzione è carta straccia e l’articolo 11 è stato già sbullonato nel 1999 con l’aggressione alla Jugoslavia ancor meno giustificata di quella all’Iraq e avvenuta, per sopramercato, violando anche lo stesso statuto della Nato). Oppure prendiamo atto che questa guerra è ingiusta, sbagliata o che comunque non abbiamo i nervi sufficientemente saldi per affrontarla e ci ritiriamo in buon ordine da quel Paese e lasciamo che siano gli iracheni a decidere del loro destino con la ragione e la forza delle armi e non con la finzione di elezioni. Farsa, con una democrazia che non conoscono e non riconoscono e che è, già in sè, una violenza fatta a popolazioni che hanno storia, tradizioni, cultura e vissuti che con questo sistema di selezione delle leadership non hanno nulla a che fare.
Massimo Fini
Fonte:www.ilgazzettino.i
23.02.05