DI CARLO FRECCERO
C’è in Italia una situazione anomala, riconosciuta da tutti, per cui la maggior parte dei mezzi di comunicazione di massa (televisioni, case editrici, giornali) sono in mano ad un unico imprenditore che, tra l’altro, è anche Presidente del Consiglio.
E’ una realtà indiscutibile, una premessa da cui dovrebbe logicamente derivare una preoccupazione per la libertà di espressione.
Ma le conseguenze che si traggono da questa evidenza sono in genere opposte.
Berlusconi è solito affermare che in nessun gruppo editoriale al mondo vige una libertà così ampia, come nelle sue aziende, infiltrate da uno stuolo di oppositori e comunisti. Ed è comprensibile. Se non avvallasse questa tesi non potrebbe proporsi come politico conservando il suo ruolo imprenditoriale.
Stupisce invece che su questa interpretazione convergono la sinistra tradizionale e la quasi totalità della stampa. Di fronte alla domanda ricorrente: “Siamo in un regime?” la risposta è pressoché unanime. Non solo parlare di regime viene riconosciuto come temerario ed estremistico, ma è la stessa sinistra ad avere paura di una simile critica. “Demonizzare Berlusconi non paga” “La maggioranza è con lui”.
Ogni critica va dunque calibrata, misurata, all’interno di un universo chiuso in cui è la politica culturale del governo a dettare l’agenda.
La sinistra non ha più temi propri, e quando si misura col berlusconismo, sembra volerlo fare solo sul piano di una maggiore efficienza. “La politica economica del governo non ha promosso il benessere promesso.” “La sinistra puo’ fare meglio, riequilibrando il reddito delle famiglie ed il loro potere d’acquisto.”
Sul piano ideologico invece nulla è concesso. Concetti un giorno scandalosi come la sostanziale rivalutazione del fascismo, la necessità della guerra preventiva, gli assalti alla costituzione ed ai suoi meccanismi di autolimitazione dei poteri, l’invadenza del credo cristiano nella laicità dello Stato, appaiono oggi come idee accettabili.
Ogni idea, ogni convinzione, ha diritto ad essere liberamente espressa e quindi anche i nuovi valori della destra. Ma la libertà di espressione si valuta dalla mancanza di unanimismo, dalla presenza di un dissenso. Questo dissenso oggi in Italia non c’è.
Da ciò nasce il paradosso del terzismo, l’atteggiamento scandalosamente conformista ed accomodante della Stampa che Marco Revelli stigmatizza.
C’è una stampa schierata, come Libero, che disdegna l’attacco, l’invettiva, il paradosso, per difendere le tesi di governo, anche le più assurde. Ma questo è accettabile. Fa parte del gioco delle parti e rispecchia la linea editoriale di un giornale che si erge a paladino del pensiero di destra. Il problema riguarda piuttosto la stampa indipendente, i giornali normali che manifestano superficialità, impoverimento, appiattimento sul più vieto senso comune.
Si tratta di codardia, come insinua Marco Revelli, o di qualcosa di più? Le possibilità sono molteplici, dall’opportunismo spinto sino all’adulazione nei confronti del potere, alla prudenza di chi, tenendo famiglia, sa che per conservare il posto deve moderare i termini e praticare spontaneamente l’autocensura. Temo però che ci sia qualcosa di più e di peggio. In breve, l’unanimismo, il conformismo della stampa, denunciano proprio quel regime che tutti tentano di negare, anche per salvare la propria rispettabilità e credibilità come intellettuali.
C’è una forma di regime classico, il regime fascista imposto con la violenza, il manganello e l’olio di ricino e c’è un regime per usare una definizione di Montanelli e Sartori, puramente mediatico. Il regime mediatico sostituisce il manganello con la televisione, la violenza con la persuasione ed il luogo comune. Ma, proprio per questo, rispetto ad un regime “all’antica”, un regime mediatico presenta meno incrinature, meno crepe, non conosce dissenso, ma solo accettazione ed approvazione. Un’ideologia imposta con la forza genera spontaneamente resistenza ed opposizione. Un regime mediatico assomiglia piuttosto ad un’utopia, in cui il dissenso è sconosciuto perché i principi di base sono condivisi.
Un regime, ed in particolare un regime mediatico, assomiglia ad una bolla spazio-temporale sradicata dal contesto circostante, autosufficiente ed autarchica non sul piano economico, ma sul piano culturale. Mi viene in mente The Village, attualmente sugli schermi, in cui viene descritta una comunità avulsa dallo spazio e dal tempo, regolata da leggi e credenze proprie. All’interno di un regime circola una verità dominante: conformismo, maturità, aderenza al principio di realtà può voler dire in questo contesto anche l’accettazione di tesi assurde o estreme.
Così in un contesto culturale fortemente orientato a destra, frequentare il centro può significare l’introiezione di principi solo pochi anni fa improponibili: Dio, Patria, Famiglia, Guerra preventiva, Democrazia esportata.
Il problema non è tanto nella codardia quanto nell’autoconvincimento di quella stampa che avrebbe il compito di svolgere un’opera critica di straniamento e demistificazione.
Come ciò sia possibile ce lo suggerisce Marco Revelli. Anziché documentarsi sulla notizia, cercare lo scoop, verificare i fatti, la Stampa tende sempre più a far propria l’agenda televisiva e con essa, l’agenda di governo.
Caratteristico dei regimi è il senso di accerchiamento, di incomprensione, nel confronto del “fuori”. Così la stampa italiana può accettare senza ironia le esternazioni del premier contro i giornali “comunisti” stranieri, spesso testate notoriamente di area moderata. Così il Foglio può fare di Buttiglione, il martire cristiano della persecuzione europea.
Illustri professionisti della carta stampata (Galli Della Loggia, Panebianco) ritengono espressione di saggezza e maturità l’accettazione dello status quo, suggerendo appena qualche marginale limatura ed aggiustamento, come espressione di lucida competenza politica.
Un conformismo dunque, dettato non tanto o non solo dall’opportunismo, ma dall’isolamento ideologico, dal vuoto di alternative del panorama italiano.
Ma sembra che al regime, mai ammesso e preso in considerazione dai nostri opinionisti, questo conformismo moderato non basti più.
E’ tipico di un regime mediatico, basato sulla successione veloce di immagini, notizie, eventi, non conservare memoria di nulla, rimuovere velocemente gli episodi sgradevoli.
Così se non fosse intervenuta la recente pubblicazione di “Regime” di Gomez e Travaglio forse non ricorderemmo nemmeno la sequenza di censure “all’antica” con cui Berlusconi ha inaugurato il suo nuovo governo e in particolare il “proclama bulgaro” con cui ha di fatto allontanato dalla televisione pubblica tutte le voci dissenzienti.
Da allora è diventato consueto epurare chi fa un uso “criminale” della televisione. Oggi la televisione è uno strumento monocorde e compatto che produce e riproduce l’ideologia dominante e detta a sua volta l’agenda alla stampa.
Ma la stampa acritica che Marco Revelli stigmatizza, potrebbe, in un prossimo futuro, destare il nostro rimpianto. L’onda lunga della censura, dopo essersi abbattuta sulle voci dissenzienti, lambisce ora l’universo del moderatismo e del terzismo. E’ di questi giorni la notizia dell’allontanamento di Mentana dalla direzione del TG5.
Si prospetta un giornalismo di pura adulazione, un coro unanime privo di sfumature, in cui la glorificazione del regime mancherà di ogni residuo senso di pudore, insomma, un giornalismo di Fede.
Carlo Freccero
Fonte:www.liberazione.it
17.11.04