DI GIULIETTO CHIESA
Chissà chi ha scritto il discorso dell’Imperatore, anche se si sospetta che Condoleeza ci abbia messo dentro mani e cervello. Fatto sta che gli hanno suggerito toni e parole conciliatori verso gli europei, da lui svillaneggiati prima, durante e anche un po’ dopo la strepitosa vittoria contro l’Iraq.
“Gli alleati degli Stati Uniti possono sapere: noi onoriamo la vostra amicizia, noi ci fidiamo del vostro consiglio e noi dipendiamo dal vostro aiuto”. Lui, che non ha onorato amicizie, che non ha ascoltato consigli, che ha preteso aiuto per imprese che gli amici sconsigliavano e, quando non l’ha ottenuto, ha sbattuto loro la porta in faccia (tagliandoli fuori dalla distribuzione del bottino iracheno), lui mette la mano sulla Bibbia di George Washington per giurare che farà come John Kerry, probabilmente, avrebbe fatto e detto. Ma, una volta adempiuto il compito che gli avevano assegnato, affinchè fosse reso più facile il compito dei commentatori pro-americani di ogni parte del mondo (cioè di parlare bene di un nuovo Bush, tutto pronto al dialogo), affinchè l’ex campione del giornalismo americano Bob Woodward potesse scrivere trionfalmente che “la Casa Bianca ritrova i suoi poteri” e che “La Repubblica” potesse titolare (senza neppure metterci le virgolette) con grande enfasi, “Bush: Basta tiranni nel mondo”, il nostro Imperatore è tornato sui suoi registri preferiti.
Esportare la libertà dappertutto, “in ogni regione del mondo”. Con tutti i mezzi a disposizione. Cosa intenda per libertà è molto chiaro: libertà d’impresa, nel senso di libertà dei più forti contro i più deboli. Libertà di costringere i paesi più deboli e i regimi più ricattabili a firmare accordi bilaterali con gli Stati Uniti che cancellano gli accordi internazionali (come nel caso del Tribunale Penale Internazionale). Libertà di imporre ai paesi più poveri di accettare le regole americane sui brevetti dei medicinali, che privano milioni di persone dei farmaci essenziali per sopravvivere.
I sagaci commentatori di ogni paese amico, quelli preposti a fortificare l’inganno mediatico globale, interpreteranno la parola libertà in un altro modo: diritti umani, libertà di consumo, di movimento, di farsi ciascuno i fatti propri, di desiderare di diventare ricchi vincendo al lotto, fate voi il resto della lista.
Come esportare la libertà? “Non è un compito primariamente delle armi”, dice l’Imperatore, e afferma di non pensare che “la nostra influenza è illimitata”. Ma annuncia che, “dovunque i popoli si leveranno per chiedere libertà, noi saremo con loro”. Imperatore giacobino e rivoluzionario, pronto a usare il denaro (come in Ucraina) e il bastone (come in Iraq), “per realizzare il compito fondamentale di far terminare la tirannia nel mondo intero”.
Gli hanno suggerito di non insistere troppo sul modello americano da esportare. E lui, l’Imperatore, corregge: “l’America non imporrà il suo stile di governo a coloro che non lo vorranno”. Il problema, dunque, consiste semplicemente nel fare in modo che lo vogliano. Perché gli altri – lascia capire l’Imperatore – stanno sul lato sbagliato della storia e per loro non c’è speranza e non c’è difesa.
Ma c’è anche, in quel discorso – come sempre accade nei discorsi degl’imperatori di turno – qualche singolare ammissione di debolezza, qualche involontario accenno di verità. La libertà non è soltanto un “valore trascendente” della “società proprietaria”; è anche – scrive il New York Times, interpretando l’augusto discorso – “una macchina per mantenere sicura l’America”. E lui, George-Condoleeza, ci rivela una straordinaria paura, a prima vista del tutto immotivata: “La sopravvivenza della libertà nella nostra terra dipende sempre di più dal successo della libertà in altre lande”. Capito dove tira il discorso? Hanno paura perfino della sopravvivenza della libertà in casa loro, e quindi si affrettano a diffonderla all’estero.
E’ vero che hanno paura? Forse no, ma in parte sì. Hanno bisogno che i cittadini d’America abbiano paura, si sentano minacciati. E dunque l’oligarchia che domina il potere americano, ha tutto l’interesse a tenere sulla corda i suoi cittadini o sudditi. Ma sanno anche quanto grande sia la fragilità dell’America di oggi, sospesa in equilibrio su un filo sottile, di consumi spasmodici e compulsivi, di un indebitamento fantastico e non più pagabile, di un isolamento mondiale sempre più acuto.
Ai sudditi interni ha promesso di demolire ancora un po’ dello Stato in cui vivono, riducendo ancora le tasse, affinchè possano occuparsi del loro business a casa propria, e permettendo loro – pensate! – di investire parte dei loro risparmi pensionistici nel grande circo Barnum di Wall Street. Auguri!
L’Imperatore non poteva certo dire tutto nei venti minuti striminziti che si è concesso. Aspettiamo il suo prossimo discorso sullo Stato dell’Unione, in cui i suoi falchi potranno esprimersi con maggiore libertà, ma bisogna anche dire che quello che si è ascoltato è di una tremenda, perfino paradossale pochezza. Non c’è stato un solo cenno al resto del mondo, oltre al delirio descrittivo di “intere regioni del mondo che stagnano nel risentimento e nella tirannia, prone alle ideologie che stimolano l’odio e scusano l’assassinio”, e che dovranno essere mondate perché altrimenti “la violenza prenderà forza e il potere distruttivo ne verrà moltiplicato”.
Il messaggio a Kim Jong-il è chiaro, altrettanto chiaro quello a Damasco e a Teheran. Del resto Dick Cheney ha subito messo i puntini sulle “i”: prima incombenza da risolvere sarà l’Iran. Come ha scritto Charles Krauthammer, che più che un giornalista è un portavoce del Pentagono, o a Teheran si riuscirà in fretta a mettere in piedi una “rivoluzione democratica”, oppure non resterà che “l’opzione militare”. Secondo lo schema classico dei popoli che si sollevano chiedendo la libertà e l’America va in loro soccorso.
Resta da chiedersi come intenderanno il messaggio i cinesi, e i russi. Che, sicuramente, a Washington sono considerati tirannie, “inclini alle ideologie”, e “pieni di risentimento”. In che mondo intende collocarli l’Imperatore? E in che mondo si trovano paesi come il Pakistan e l’Arabia Saudita, alleati essenziali della libertaria America nella lotta contro il terrorismo? E come sistemare pacificamente la questione israelo-palestinese con le colonie nei territori palestinesi che si moltiplicano invece che diminuire, con il muro che s’innalza giorno dopo giorno?
La cosa più sbalorditiva di tutte, francamente, non è il tenore di questo discorso d’investitura dell’Imperatore, orfano di idee, dominato dall’ossessione di potenza e dalla paura, privo perfino di buon senso comune, spolverato di trasparenti concessioni verbali agli europei, ma senza alcuna garanzia che ad esse verrà dato un seguito. La cosa più preoccupante è che tutti sembrano dargli credito, nonostante l’evidenza sia ormai sotto gli occhi di chiunque. La guerra non l’ha vinta. Le elezioni del 30 gennaio in Iraq saranno una delle più tragiche commedie della storia moderna. Questo presidente ha fatto una guerra mentendo ai suoi sudditi e al mondo intero. Sulle sue spalle grava una tremenda responsabilità morale e perfino penale. Si commentano i suoi vaneggiamenti come fossero discorsi di uno statista. Il re è nudo, ma non si trova un cane che abbia il coraggio di dirlo.
Giulietto Chiesa
Fonte:www.megachip.it
23.01.05
( Questo articolo apparirà sul prossimo numero del settimanale “Avvenimenti”)