DI GIORGIO VITANGELI
Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale s’affannano a spargere ottimismo sull’immediato futuro del sistema finanziario internazionale, e già questo non è buon segno.
Alla solidità del settore bancario dell’Unione Europea la BCE ha dedicato un’ampia analisi nel numero di luglio del suo bollettino mensile, giungendo alla conclusione che dal Duemila il settore bancario europeo ha subito una serie di shock: introduzione dell’euro, crollo dei valori azionari, debole crescita economica con conseguenti difficoltà finanziarie delle imprese, ecc. Ciononostante, dice la BCE, le banche si sono mantenute solide.
Il Fondo monetario internazionale a sua volta, in un Rapporto sulla stabilità finanziaria globale, sostiene che gli intermediari finanziari in questi ultimi anni hanno rafforzato a tal punto il loro capitale da essere in grado di far fronte, se necessario, a nuovi shock .
Che vi siano squilibri considerevoli e pericoli di crisi però il FMI implicitamente lo ammette. C’è, ad esempio, l’enorme disavanzo della bilancia dei pagamenti statunitense, finanziato da altrettanto enormi afflussi di capitale verso gli Stati Uniti.
Se gli investitori fuggissero dal dollaro…
Che succederebbe se, davanti ad un calo disordinato del valore di cambio del dollaro, istituzioni internazionali ed investitori fuggissero dalla valuta americana? Davanti a questa eventualità deflagrante, il Rapporto si consola con la considerazione che non esistono alternative particolarmente attraenti per le attività liquide in dollari, e che gli investitori, fuggendo dal dollaro, si darebbero la zappa sui piedi, falcidiando il valore dei loro investimenti.
Dunque: l’eventualità è improbabile e minacce “sistemiche” alla stabilità del sistema finanziario internazionale il Fondo Monetario Internazionale non ne vede, a meno che…
“A meno che un enorme e devastante incidente geopolitico o attacco terroristico danneggi in modo significativo e persistente la fiducia, e quindi la valutazione delle attività finanziarie”.
Ma anche senza mettere in conto questa ipotesi estrema, il Rapporto ammette (bontà sua…) che i rischi geopolitici continuano ad essere elevati, che ciò potrebbe accentuare l’avversione al rischio degli investitori e che in questo contesto un ulteriore balzo del prezzo del petrolio potrebbe far aumentare le preoccupazioni per l’inflazione, incidendo su mercati finanziari e ripresa economica.
La bolla immobiliare
In realtà i rischi sistemici non sono solo quelli sopra elencati. C’è, ad esempio, una bolla immobiliare che continua a gonfiarsi, e che potrebbe esplodere come è accaduto per quella azionaria, ma con effetti forse ancora più dirompenti. La liquidità fuggita dal mercato azionario infatti si è riversata sul “mattone”, ed i valori degli immobili nel giro di pochi anni hanno raggiunto quotazioni fuori misura e fuori senso.
Sulla base dei valori immobiliari più alti e dei tassi più bassi, negli Stati Uniti le famiglie hanno rinegoziato tutti i mutui, ottenendo ulteriori crediti, utilizzati in genere per l’acquisto di beni di consumo.
L’effetto concomitante di tassi più alti e di un ridimensionamento del valore degli immobili sarebbe disastroso sia per i bilanci familiari che per quelli delle banche.
Ma anche in Italia diminuiscono in genere i crediti alle imprese, che nella congiuntura economica languente debbono affrontare crescenti difficoltà finanziarie, che ricadono poi sui bilanci delle banche sotto forma di sofferenze, incagli, rettifiche ed accantonamenti.
Crescono invece i crediti a medio/lungo termine per mutui. E’ questa da qualche tempo ormai la voce più dinamica negli impieghi delle banche, di cui costituiscono una quota crescente di anno in anno. Cosa accadrebbe se l’accentuarsi delle difficoltà economiche e l’aumento dei tassi strozzasse ancor di più i bilanci delle famiglie, e la riduzione del valore degli immobili rendesse del tutto inadeguata la garanzia ipotecaria accesa dalle banche a fronte dei mutui concessi?
Un aumento troppo brusco dei tassi porterebbe ad una caduta generalizzata dei valori immobiliari, ammetterebbe ora lo stesso Fondo Monetario, secondo le prime anticipazioni sul suo “World Economic Outlook”, in via di stampa.
Il pericolo che viene dal liberismo globale
Per non parlare infine di un rischio (che più che una possibilità è una certezza…) insito nell’attuale modello economico liberista e globale.
La rivoluzione elettronica, assai più pervasiva e veloce della rivoluzione industriale di due secoli or sono, ha tagliato come essa milioni di posti di lavoro, divenuti “esuberi”. Ne ha creati altri, è vero, ma in misura del tutto inferiore a quelli che ha cancellato
E come non bastasse si è aggiunta la delocalizzazione selvaggia, cioè il trasferimento delle lavorazioni ad alta intensità di lavoro nei Paesi dove il lavoro, svolto in condizioni semischiavistiche, costa meno. Tutto ciò, in nome del “mercato globale”, ha tagliato altri posti di lavoro nei Paesi avanzati.
E’ un’avidità suicida quella del moderno capitalismo liberista, perché abbassa continuamente la capacità d’acquisto dei Paesi sviluppati, senza aumentarla parallelamente nei Paesi poveri. L’imperativo globale è “creare valore per gli azionisti”, cioè distribuire più ricchezza al capitale. L a riduzione dei costi viene fatta soprattutto tagliando il lavoro. I ricchi diventano più ricchi, ma si allarga l’area della povertà e delle ristrettezze economiche, che investe ormai anche i ceti medi. Cresce inoltre uno stato d’animo d’incertezza sul futuro che investe soprattutto i giovani, ed anche chi ancora può contare su un lavoro sicuro.
In termini macroeconomici, tutto ciò si traduce in una flessione dei consumi, in una riduzione della domanda. E riemerge imperioso il problema che si era posto già agli albori dell’era industriale, e che era sfociato in guerre commerciali o in veri e propri conflitti armati, cioè il problema degli sbocchi commerciali per una produzione che tende ad eccedere la domanda.
La soluzione corretta era quella di aumentare il potere d’acquisto di larghe fasce della popolazione, rendendo ad esse accessibili beni un tempo appannaggio solo dei ricchi. E sembrava che su quella strada si fosse avviato il neocapitalismo, dopo la crisi degli anni Trenta. L’automobile, gli elettrodomestici, le vacanze, ma anche la casa, la scuola, la sanità, la pensione, nei Paesi industrializzati erano ormai beni e servizi di massa.
Ma ora si sta tornando rapidamente indietro: il potere d’acquisto diminuisce sia nei Paesi poveri che in larghe fasce della popolazione dei Paesi avanzati. Ed i vistosi “nuovi ricchi” che cominciano a spuntare in Cina, in Russia ed in India non cambiano certo il quadro.
Ma se diminuiscono i consumi le imprese sono costrette a ridurre la produzione, licenziando altri lavoratori. E l’economia “globale” si avvita inesorabilmente verso la stagnazione, la recessione, il collasso.
Se non si pongono correttivi, questo è il futuro, neppur tanto lontano.
I rischi incombenti
Intanto i rischi più incombenti, come riconosce un po’ a denti stretti il Rapporto del Fondo Monetario Internazionale, sono due: quelli geopolitici che hanno preso la forma angosciosa del terrorismo internazionale e quelli che potrebbero derivare dal rincaro del petrolio.
Su quest’ultimo punto occorre fare chiarezza, perché sulla stampa “ortodossa” si continuano a leggere molte sciocchezze, del tipo di quelle sulla fine prossima ventura delle risorse mondiali d’idrocarburi che si diffondevano più di trent’anni or sono per giustificare le crisi petrolifere di allora.
In realtà chi fosse dietro i rincari forsennati del prezzo del petrolio allora lo ha confessato poi lo sceicco Yamani, per lunghi anni ministro del petrolio dell’Arabia Saudita, in un’intervista apparsa qualche anno or sono sull’ “Observer”.
“Re Feisal, racconta Yamani, mi mandò dallo Scià dell’Iran che mi disse: “Perché voi siete contro l’aumento dei prezzi del petrolio? E’ questo che loro vogliono. Lo chieda ad Henry Kissinger: egli è uno di quelli che vogliono prezzi più alti”.
Conclude Yamani, dopo altre considerazioni: “Io sono sicuro al 100% che gli americani erano dietro il rincaro dei prezzi del petrolio”. Ipse dixit.
Ed oggi? Al momento in cui scriviamo queste note il prezzo del greggio, di rincaro in rincaro, è arrivato oltre i 48 dollari a barile. Vale la pena ricordare che nella seconda metà degli anni novanta, cioè meno di dieci anni or sono, il prezzo di riferimento dell’Opec era di 21 dollari per barile, ma sul mercato le quotazioni erano sensibilmente più basse.
Poi, nel 2000, il prezzo di riferimento venne fissato in una forchetta da 22 a 28 dollari. E questa volta il mercato l’ha ampiamente superata, tanto che a dicembre si dice che l’Opec si adeguerà in parte, rialzando il prezzo di riferimento ad almeno 30 dollari al barile.
Le decisioni dell’Opec, in realtà, appaiono più come aspirazione, o tardiva presa d’atto, che non come volizioni determinanti.
Chi spinge al rialzo il prezzo del petrolio?
Ma se non sono i Paesi dell’Opec a spingere verso l’alto i prezzi del greggio, chi è? Il mercato, risponderanno in coro economisti e commentatori, fornendo per questa tendenza “di mercato” le motivazioni più strampalate o estemporanee. La giustificazione prima, naturalmente, è il terrorismo internazionale e l’insicurezza geopolitica.E potrebbe avere qualche plausibilità, se non fosse che l’unica area veramente calda nell’ambito dei Paesi produttori è l’Iraq, la cui produzione però era stata tagliata via da più di dieci anni e permessa col contagocce a seguito delle sanzioni comminate a Saddam Hussein.
Tra le giustificzioni estemporanee: il tifone che ha investito il Messico bloccando l’attività dei pozzi petroliferi. Tra quelle tecniche: il fatto che Arabia Saudita e Paesi del Golfo stiano pompando greggio quasi al limite delle loro capacità: in caso di improvvisa necessità vi sarebbero cioè “solo” un milione e mezzo di barili al giorno in più da immettere sul mercato. Ma se questa “improvvisa necessità” ancora non c’è, perché mai i prezzi dovrebbero salire, con una sorta di “rincaro preventivo”? E poi è noto che tra due o tre mesi l’Arabia Saudita metterà in produzione nuovi campi petroliferi che forniranno 800 mila barili al giorno, ed altri 200 mila barili li produrrà in più il Kuwait.
Ultima spiegazione della tendenza di fondo al rincaro: Cina ed India si stanno profilando come nuovi colossi industriali, e chiedono sempre più petrolio. Questa domanda aggiuntiva fa salire i prezzi, e continuerà a farli sempre più nei prossimi decenni.
Vero, forse, come futuribile. E’ evidente infatti che se il miliardo e 300 milione di cinesi ed il miliardo di indiani si avviano verso gli standard di vita euro-americani o giapponesi (automobile, frigorifero, televisore, lavatrice, lavastoviglie, condizionatore d’aria, ecc.) la loro richiesta di energia salirà alle stelle. Ma per il momento siamo ben lontani, ed anche in questo caso ci troveremmo perciò davanti ad un rincaro largamente “preventivo”. Quanto poi all’incremento di importazioni di petrolio che effettivamente si verifica già in quei Paesi per reggere l’incremento di produzione industriale, c’è da considerare che in non piccola parte esso dovrebbe essere sostitutivo dei consumi europeo, giapponese, ed in parte anche americano. Le industrie ad alta intensità di lavoro che crescono in Cina ed in India in parte almeno prendono il posto di quelle che chiudono nei Paesi industrializzati.
Alcuni episodi sconcertanti
Ci sono poi episodi sconcertanti, che fanno il paio con quelli analoghi che si potevano riscontrare trent’anni fa, ai tempi della prima crisi petrolifera.
Mi trovai allora con altri giornalisti italiani a visitare i giacimenti norvegesi del Mare del Nord, ed incontrammo il ministro del petrolio norvegese, il quale candidamente spiegò che al di sopra di un certo parallelo la Norvegia aveva trivellato solo qualche pozzo esplorativo, e l’aveva chiuso, perché non intendeva sviluppare troppo l’industria petrolifera, a rischio di dover affrontare tensioni inflazionistiche, e non voleva neppure sviluppare una industria petrolchimica perché ciò avrebbe costretto a fare immigrare lavoratori dai Paesi vicini, ed avrebbe deturpato la bellezza incontaminata di tratti di costa.
Giustificazioni comprensibili, ma in anni in cui si pronosticava un medioevo prossimo venturo per mancanza di petrolio, il discorso suonava un po’ strano.
Chiesi comunque al ministro norvegese: “Ma in quei pozzi esplorativi il petrolio l’avete trovato? “Si” fu l’asciutta risposta.
Il mistero del petrolio nel Sudan
Secondo episodio: pochi anni or sono, assieme ad amici con i quali avevo fondato l’Associazione d’amicizia italo-araba promossi una conferenza dell’ambasciatore del Sudan in Italia, il quale raccontò questa storia: gli americani avevano trovato nel Sudan petrolio in tale abbondanza da far supporre che il Paese fosse una sorta di seconda Arabia Saudita, ma non mettevano in produzione i pozzi né tantomeno costruivano il previsto oleodotto che avrebbe dovuto portare il greggio al Mar Rosso. Non volevano evidentemente che troppo petrolio sul mercato facesse calare i prezzi. Sauditi ed arabi del Golfo non mossero un dito: anche loro avevano interesse a che i prezzi non scendessero.
Il Sudan è un Paese disperatamente povero: il petrolio sarebbbe stato una poderosa risorsa per avviarlo sulla difficile strada dello sviluppo. Non avendo altra scelta, esasperato per le continue dilazioni delle società petrolifere americane, il governo sudanese nazionalizzò l’industria petrolifera e le “Company” americane dovettero lasciare il Paese. Prima di andar via chiusero i pozzi con colate di cemento. Nessuna altra società occidentale ebbe il coraggio di prendere il posto degli americani. Poi nel Paese si svilupparono scontri tribali, guerre tra etnie cristiane e musulmane; il Sudan fu accusato di ospitare campi di terroristi, e finì tra gli “Stati canaglia”.
Mi è tornato alla mente quel racconto perché all’ultima riunione dell’Opec il ministro dell’energia del Sudan, che vi partecipava in veste di semplice osservatore, ha colto l’occasione per lanciare un appello rivolto soprattutto agli occidentali, ma forse anche ai ricchi Paesi arabi: “Investite nell’industria petrolifera del mio Paese; farete un sacco di soldi”. “Gli investimenti stranieri, ha aggiunto, saranno i benvenuti”.
L’appello è stato lanciato proprio mentre al Consiglio di Sicurezza dell’Onu gli Stati Uniti stanno premendo perché al Sudan siano comminate sanzioni per le guerre persistenti nel Sud del Paese; sanzioni mirate proprio al settore petrolifero. Il Governo sudanese ha in programma infatti, malgrado l’ostracismo delle maggiori compagnie petrolifere, di raddoppiare entro un anno la produzione di greggio dagli attuali trecentomila barili al giorno, e potrebbe secondo alcuni analisti giungere rapidamente a settecentomila barili.
La speculazione degli hedge fund
A questo punto il quadro comincia a farsi più chiaro. E lo diventa ancor di più incrociando queste notizie con alcune ammissioni contenute nel Rapporto del Fondo Monetario Internazionale. Vi si legge infatti di un crescente coinvolgimento nel commercio di prodotti energetici delle istituzioni finanziarie: banche d’investimento ed hedge fund, cioè fondi altamente speculativi che operano soprattutto con derivati, al di fuori dei controlli e delle norme dell’intermediazione finanziaria.
Le operazioni degli hedge fund hanno notevolmente accentuato il rialzo dei prezzi del petrolio. Le istituzioni finanziarie ( su cui il Fondo Monetario Internazionale, dopo che i buoi sono scappati, avrebbe deciso di effettuare un monitoraggio più attento) avrebbero eseguito operazioni per conto dei loro clienti, ma anche per conto proprio, andando a situarsi negli spazi, dice il Rapporto del FMI, una volta occupati dal colosso energetico americano Enron, fallito clamorosamente tre anni or sono.
Ed eccoci alle conclusioni. Oggi come trent’anni or sono a guidare la danza dei prezzi del petrolio non sono i Paesi produttori, ma “loro”, cioè gli Stati Uniti, che hanno un interesse strategico a graduare e ridurre il flusso del greggio sul mercato (anche in quest’ottica va vista la sospensione forzata della produzione dell’Iraq, che dopo l’Arabia Saudita è il maggior detentore di riserve petrolifere).
Prezzi alti infatti si traducono in utili da capogiro per le Compagnie petrolifere, rendono economico lo sfruttamento dei giacimenti marginali americani e “last but non least”, mettono sotto pressione Europa e Giappone, penalizzate nelle ragioni di scambio, incrementando per contro la creazione da parte dell’America di dollari carta con cui pagare le importazioni, il loro riflusso da Europa e Giappone verso i Paesi petroliferi, e da questi di nuovo verso gli Stati Uniti.
Per raggiungere il risultato di un incremento dei prezzi del greggio uno strumento dunque è quello di impedire in ogni modo un eccesso di offerta; l’altro è quello di usare, quali catalizzatori o elementi provocatori, le istituzioni finanziarie (ieri il colosso Enron, oggi gli hedge fund) che operano al di fuori di ogni controllo.
La debolezza dell’Italia e l’energia nucleare
Uno dei Paesi industrializzati che più dipende da petrolio importato, com’è noto, è l’Italia. Enrico Mattei, che con la creazione dell’Eni sfidò le multinazionali del petrolio tentando di sottrarre l’Italia al loro nodo scorsoio, pagò con la vita, vittima di un misterioso incidente aereo.
Già allora, cioè circa mezzo secolo fa, Mattei aveva intuito che, accanto al petrolio ed al metano, l’energia elettronucleare poteva validamente contribuire ad affrancare l’Italia dalla dipendenza energetica e farla incamminare sulla via della modernità. Furono costruite così dall’Eni le prime centrali elettronucleari, tra cui quella di Latina; fu costituita poi una società- l’Agip nucleare- che doveva produrre il combustibile, cioè l’uranio arricchito, mentre un’altra società dell’Iri – l’Ansaldo nucleare – avrebbe prodotto le componenti per le centrali.
Era stato costituito inoltre un Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare, il CNEN, che avrebbe dovuto promuovere e coordinare lo sviluppo dell’industria nucleare in Italia.
L’Italia a quel tempo nell’ambito europeo era seconda sola all’Inghilterra per sviluppo dell’industria nucleare, e si avviava a diventare prima in Europa.
Uno scandalo pretestuoso, pilotato dall’industria petrolifera americana, decapitò però il CNEN del suo animatore, lo scienziato Felice Ippolito.
Morto Mattei, eliminato Ippolito, i progetti ristagnarono. Vi fu un vago tentativo di ripresa, quando il CNEN fu trasformato in un Ente: l’ENEA, Ente Nazionale per l’Energia Atomica. Quando scoppiò la prima crisi petrolifera, nel 1973, seguita sei anni dopo da una seconda crisi, ed il prezzo del petrolio in varie ondate balzò da meno di due dollari a barile a punte di oltre 40, l’allora ministro dell’Industria Donat Cattin annunciò un piano, sulla carta, per la costruzione di venti centrali nucleari. In vari anni la Prima Repubblica ormai impotente davanti ai ricatti della demagogia, riuscì a costruirne solo una, quella di Montalto di Castro, che non è entrata mai in funzione.
L’incidente nella centrale russa di Chernobyl del 1986 diede il destro, infatti, per il più demagogico dei referendum in cui cittadini inconsapevoli furono chiamati a decidere, sull’onda dell’emozione, di cose di cui nulla sapevano. E così le poche centrali elettronucleari esistenti in Italia furono tutte chiuse. Sull’uso dell’energia elettronucleare l’Italia decise infatti, visti i risultati del referendum, una “pausa di riflessione” che quasi vent’anni dopo ancora dura. Intanto l’energia elettrica la importiamo – pagando s’intende – dalle centrali nucleari francesi, alcune delle quali sono ad un tiro di schioppo dalle nostre frontiere. E se per caso il flusso di quell’energia si blocca, tutta l’Italia cade nel buio, come è già successo.
L’Enea è stato trasformato in un ridicolo Ente per le Nuove tecnologie l’Energia e l’Ambiente. Si occupa di mulini a vento, di specchi ustori, di biogas e di simili quisquillie. Invece di dar lavoro a scienziati ed ingegneri nucleari, occupa ambientalisti e “verdi”.
Agip nucleare ed Ansaldo nucleare sono state soppresse. Tutte le professionalità e le esperienze italiane in questi settori sono state disperse e cancellate, e ci vorranno anni ed anni per ricostruirle.
Intanto il cappio del petrolio, sempre più caro, mai come ora stringe alla gola l’economia italiana.
Giorgio Vitangeli
Fonte:http://www.centroitalicum.it/
Settembre/Ottobre 2004