Coronavirus, la paura tiene chiusi gli ospedali ai parenti

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Di Raffaele Varvara, ComeDonChisciotte.org

Nonostante i media di regime continuino ad alimentare la paura, la fase acuta del Covid-19 è alle spalle: nella giornata del 10 settembre si sono registrati 10 morti mentre il 30 marzo i decessi erano 11.591; nei reparti di degenza ospedalieri, le insufficienze respiratorie, le intubazioni e le cpap, sono ormai un brutto ricordo. Pian piano, si è tornati ad una vita para-normale: hanno riaperto bar, ristoranti, librerie…

Tuttavia in gran parte degli ospedali d’Italia, le porte delle unità operative, rimangono ancora chiuse alle visite dei parenti. L’accesso di familiari e visitatori è ancora considerato pericoloso e, quindi, rimane interdetto. Queste politiche restrittive sono motivate dal timore riguardo al rischio di riesplosione del contagio, mentre al di fuori dell’ospedale tutto (o quasi) ha riaperto.

Negli ospedali della penisola spuntano regolamenti che applicano diverse gradualità di limitazioni: ci sono strutture che interdicono totalmente le visite dei parenti anche di pazienti critici e/o terminali o che lasciano partorire le neo-mamme da sole; altre impongono limitazioni alle visite dei familiari sia sul versante del numero di visitatori ammessi, sia su quello del tipo di visitatori (sono ammessi solo familiari più stretti), sia sul tempo per la visita (massimo 10 minuti); altre strutture concedono visite più prolungate per pazienti critici e/o in fine-vita.

Al momento del ricovero, dunque, la persona è letteralmente sottratta agli affetti dei familiari e rinchiusa nella sua camere di degenza; queste limitazioni fanno sì che il paziente sia completamente spersonalizzato, come se privarlo della sua dimensione relazionale fosse un normale prezzo da pagare in cambio di terapie volte alla guarigione, in tempo di post emergenza covid.

Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione dei sanitari sul tema umanizzazione delle cure, perché si è capito che laddove si instaura un adeguato “triangolo relazionale” tra curanti, pazienti e familiari, si abbassano i contenziosi legali. Un esempio su tutti è la rivoluzione copernicana delle terapie intensive aperte. Poi è bastato un virus a farci fare un balzo indietro di 20 anni, a ulteriore riprova che l’ospedale rimane una delle grandi invarianze della società moderna.

Sono tante ancora le resistenze culturali riguardo alla presenza di familiari percepiti come un ostacolo all’assistenza. Tuttavia in molti casi la presenza del caregiver è una valida risorsa per le cure medico-infermieristiche. Numerosi dati della letteratura scientifica suggeriscono che la presenza di familiari e visitatori riduce in modo significativo le complicanze cardio-vascolari e gli indici ormonali di stress (1).

Se durante la fase acuta della pandemia, le limitazioni all’accesso dei familiari era una misura emergenziale e straordinaria, adesso a fronte di 10 decessi al giorno, bisogna tornare alla normalità, anche in ospedale. Il paziente ha diritto a essere accompagnato, nel tempo della malattia, dalle persone per lui più significative; la presenza dei familiari accanto all’ assistito non è una sorta di «concessione» ma rappresenta una scelta utile e motivata, una risposta efficace ai bisogni del malato e della sua famiglia. Questa scelta esprime il rispetto e l’attenzione dovuti al paziente e alla sua dignità di essere umano.

In conclusione, la paura di risultare positivi a un tampone è percepita superiore alla paura di morire da soli in un freddo reparto ospedaliero o alla paura di essere soli mentre si compiono scelte decisive per la propria salute.

È proprio vero: bisogna mettersi al contrario per capire questo mondo storto!

Di Raffaele Varvara, ComeDonChisciotte.org

11.09.2020

NOTE

(1) = Fumagalli S. et al, Reduced cardiocirculatory complications with unrestrictive visiting policy in an intensive care unit: results from a pilot, randomized trial. Circulation 2006;113:946-52

Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org

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