Il Brigante è stato un insider, e forse lo è ancora; scrive da insider della nostra storia recente: la rivoluzione colorata di Mani Pulite, Il Britannia, le stragi del ’92/ ’93 ed il Trattato di Maastricht, l’era Berlusconi, Il PD partito-sistema Euroatlantico che dà in pasto l’Italia alle multinazionali.
L’Italia di oggi è quello che viviamo e per questioni di sicurezza personale, la nostra fonte ha optato per uno pseudonimo: identità e attendibilità sono state verificate dalla redazione che ha raccolto la sua testimonianza.
State per leggere una controstoria del nostro declino ormai ultradecennale, fino al grande reset odierno.
Non secondario il ruolo operativo di Cosa Nostra, vero trait d’union fra le epoche tricolori. Così come l’Antimafia: da rivolta dei giusti a plotone di sistema.
Insomma, una storia italiana ancora in gran parte misteriosa, analizzata e svelata da una posizione privilegiata: troverete attori, burattini e burattinai, e poi il popolo italiano.
Per iniziare a reagire, dobbiamo prima capire come ci hanno distrutto.
La parola al Brigante.
Buona lettura.
L’Italia del pentapartito frutto di Yalta
Nella divisione del mondo in due blocchi, l’Italia era stata assegnata alla sfera di influenza angloamericana (non dimentichiamoci che l’Italia è stata fin dalla sua fondazione un protettorato britannico “de facto”, senza soluzione dì continuità). Nell’Italia antifascista vi era però un fortissimo consenso al “Blocco del popolo”, l’alleanza tra PCI e PSI, l’area della sinistra all’indomani della seconda guerra mondiale era di fatto maggioritaria nei consensi degli italiani.
Per insediare al governo la DC, il partito a cui gli angloamericani avevano affidato la gestione dell’Italia, furono necessari prima i brogli elettorali del 1948, orchestrati dalla CIA; poi l’ assoggettamento manu militare della Sicilia, considerata di massima importanza geopolitica (non dimentichiamo che lo sbarco degli angloamericani in Sicilia fu organizzato con Cosa Nostra, a cui fu poi affidata la gestione di molte città siciliane all’indomani della guerra): dal 1947, per tutti gli anni ‘50, ci fu una strage di dirigenti sindacali e comunisti, con quasi 100 morti documentati, di cui Portella delle Ginestre e l’omicidio di Placido Rizzotto furono solamente i più noti. Il PCI di Togliatti era a conoscenza di tutto questo, ma lo accettò di fatto, consapevole che il teatrino elettorale ed il gioco politico servivano a mantenere il paese in pace, ma le sinistre non sarebbero mai potute andare al potere, per gli accordi di Yalta.
Negli anni ‘60 ci si rese conto che questo schema era molto complicato da tenere in vita e sotto il ricatto di golpe già organizzati e pronti alla fase esecutiva (il famoso “tintinnar di sciabole” citato da Pietro Nenni) il PSI fu imbarcato nel governo ed il PCI isolato all’opposizione. Negli anni ‘70 questo schema (mantenendo la minaccia di golpe pronto) si perfezionò e si consolidò il cosiddetto pentapartito.
Negli stessi anni, però, leaders come Aldo Moro ed Enrico Berlinguer diedero vita ad una politica volta a superare gli accordi di Yalta e garantire una reale indipendenza all’Italia: il terrorismo e la strategia della tensione furono gli strumenti utilizzati dai servizi NATO per scongiurare questa possibilità e l’assassinio di Aldo Moro pose momentaneamente fine a questa prospettiva.
Il problema per l’impero anglosassone e le elités massoniche e finanziarie era però che la classe politica italiana aveva raggiunto un grado di autonomia troppo elevato per uno stretto controllo a lungo termine e tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 prepararono le contromisure adeguate a mantenere l’Italia in uno stato coloniale:
Da una parte prepararono il controllo mediatico, culturale ed informativo con la creazione di un personaggio come Silvio Berlusconi ed il suo impero televisivo, dall’altra appoggiarono il rovesciamento della Commissione di Cosa Nostra, con lo sterminio di tutti i boss legati storicamente alla corrente andreottiana della DC, in quel momento dominanti e l’insediamento al comando di Cosa Nostra dei Corleonesi e della famiglia Messina Denaro, ritenuti più gestibili ed affidabili; dall’altra, individuarono nella sinistra DC la corrente più affidabile a lungo termine per il compimento della futura, totale, sottomissione dell’Italia (aveva ormai abbandonato la politica di dottrina sociale della chiesa dei Moro, Fanfani e Donat Cattin, per sposare le teorie neoliberiste degli Andreatta).
Ovviamente, in quegli anni, il ruolo della P2 in tutti gli avvenimenti citati fu uno strumento importante.
Il risultato più determinante all’interno di questa strategia fu la separazione tra Banca d’Italia e Tesoro (operazione che sarà all’origine dell’esplosione del debito pubblico italiano e che diede mano libera alla finanza askenazita internazionale), voluta da Andreatta e compiuta grazie all’eliminazione del suo Presidente Baffi e l’arresto del suo Direttore Generale Sarcinelli.
Al vertice della Banca d’Italia si collocarono, negli anni, personaggi come Ciampi e Dini, determinanti poi nel successivo saccheggio e spoliazione dell’economia italiana.
Durante gli anni ‘80 si consolidò il CAF (acronimo di Craxi, Andreotti e Forlani), esponenti di una vecchia politica che, per quanto adusa a corruzione, malversazione e legami inconfessabili, aveva perfettamente compreso il progetto di distruzione, svendita e saccheggio del patrimonio economico italiano e la totale sottomissione della colonia Italica che si andava preparando.
Craxi e Andreotti si resero protagonisti di una stagione di indipendenza politica italiana notevole: dai rapporti autonomi in Medio Oriente, alle alleanze con Gheddafi ed altri leaders scollegati dall’impero ed una politica energetica italiana che richiamava il progetto di Mattei, oltre ad una politica economica keynesiana che, per quanto infarcita di clientelismo ed assistenzialismo, aveva garantito all’Italia un periodo di benessere economico mai raggiunto prima e mai più rivisto in futuro.
La vicenda di Sigonella rappresentò il punto più evidente (e per altri imperdonabile) di quella politica.
Fino al momento della caduta dell’Unione Sovietica, il progetto preparato per l’Italia non poteva essere messo in esecuzione: in Italia vi era il più grande partito comunista dell’Occidente e le logiche della Guerra Fredda imponevano che si mantenesse la colonia Italia in uno stato di benessere sufficiente ad evitare che quel partito potesse beneficiare elettoralmente di una crisi; il precario equilibrio su cui si era mantenuto il governo dell’Italia nell’alveo dell’impero angloamericano continuava a reggere…
Con la caduta dell’impero sovietico e la caduta del muro di Berlino, le condizioni per avviare l’operazione “Italia” erano pronte: il PCI si avviava ad una profonda trasformazione, in cui i suoi vertici erano pronti ad una totale sudditanza verso l’impero angloamericano, il cui garante interno era il potentissimo massone Giorgio Napolitano ed i suoi alfieri i prezzolati D’Alema e Veltroni, che avviarono il partito verso una fusione con gli eredi della sinistra DC (di cui abbiamo parlato prima), preparando il ruolo politico per il massimo rappresentante di quell’area: Romano Prodi, simbolo del neoliberismo italiano e della svendita del patrimonio nazionale; il tutto con un epurazione chirurgica di tutti quei personaggi liberi che ancora erano rimasti nel vecchio PCI.
Andreotti e Craxi erano consapevoli dell’operazione in corso e provarono a reagire, anche “rovesciando il tavolo”: esempio di questo fu la rivelazione di Andreotti sull’esistenza di Gladio.
Gli obiettivi del progetto imperiale di ricondurre l’Italia ad una completa sudditanza erano chiari e passavano prima per un rovesciamento della rappresentanza politica, per poi completare l’operazione con lo svuotamento e predazione dei più importanti asset economici nazionali, la cancellazione di qualsiasi indipendenza energetica e finanziaria statale ed infine l’assoggettamento totale della programmazione economica agli input di potenze finanziarie e politiche anglosassoni.
Lo strumento per avviare il vero e proprio golpe bianco che porterà alla distruzione della vecchia classe politica fu l’arma dell’autorità giudiziaria, esattamente lo stesso strumento utilizzato a fine anni ‘70 per il golpe interno alla Banca d’Italia, dove il governatore Baffi ed il direttore generale Sarcinelli furono eliminati per via giudiziaria, grazie all’azione del giudice istruttore Alibrandi (il cui figlio era un terrorista nero) ed il PM Infelisi, entrambi legati alla famiglia Caltagirone, ancora oggi una delle più potenti ed influenti famiglie italiane.
Nel 1992 scattò l’operazione “Mani Pulite”, in cui, per quanto gran parte dei reati fossero reale, i metodi di indagine superarono ampiamente i limiti democratici posti a garanzia dei diritti costituzionali: l’uso eccessivo e disinvolto delle carcerazioni preventive (spesso a fini estorsivi), la spettacolarizzazione delle indagini, la propaganda mediatica che accompagnava ogni azione giudiziaria, la violazione sistematica del segreto istruttorio e l’uso politico degli avvisi di garanzia.
I magistrati furono innalzati dal potere mediatico a giustizieri popolari ed un personaggio come Antonio Di Pietro, con passate frequentazioni discutibili, rapporti col consolato americano ed agenti dei servizi (vi è ancora una foto a cena in compagnia di Bruno Contrada), divenne un eroe popolare.
Contemporaneamente al golpe giudiziario fu portata avanti l’azione di eliminazione fisica di tutti i personaggi scomodi legati all’industria energetica nazionale (pensiamo ai “suicidi” di Gardini, Cagliari e Castellari, volutamente mostrati in veste talmente assurda, da rendere evidente l’omicidio e l’immediata dichiarazione di suicidio da parte dell’autorità giudiziaria, in modo che servissero da segnale chiaro per chi sapeva e avrebbe potuto parlare).
Un altro strumento importante, per ottenere la distruzione della vecchia classe di governo e l’insediamento di nuovi rappresentanti strettamente dipendenti dall’impero angloamericano, fu la Lega Lombarda, operazione progettata ed organizzata dalla P2 (ricordiamo il ruolo di Gianfranco Miglio e Gianmario Ferramonti, strettamente legati a Licio Gelli) e la destinazione del personaggio Silvio Berlusconi (creazione della massoneria europea e svizzera in particolare, poi gestita dalla P2 di Gelli e finanziata da Cosa Nostra) ad un ruolo politico, dopo che aveva svolto egregiamente la sua missione “mediatica”.
Il momento di programmazione operativa finale, volto a completare il progetto di cui abbiamo parlato, fu la famosa riunione sul Britannia, il panfilo della corona britannica, dove, nel 1992, i più importanti rappresentanti della finanza anglosassone, dei futuri rappresentanti politici e dei principali manager italiani, discussero per giorni la spartizione e la svendita in mani estere, o a fidati rappresentanti italiani delle élites massoniche e finanziarie internazionali, dei principali asset strategici dell’industria nazionale, dando il via alla famosa stagione delle privatizzazioni (utile notare come la relazione introduttiva fu tenuta da Mario Draghi).
Il fatto che una simile riunione si tenesse sul panfilo della regina d’Inghilterra aveva anche il valore simbolico di mostrare come l’Italia rimanesse un protettorato britannico.
Nel 1992/93 si dipanò la fase intermedia, in cui a fianco della disgregazione della vecchia rappresentanza politica, si preparò l’insediamento della nuova – che nei decenni successivi avrebbe completato l’opera di smantellamento di ogni residuo di autonomia politica, economica ed energetica italiana – in esecuzione degli ordini imperiali atlantici.
I personaggi chiave furono Ciampi come governatore della Banca d’Italia, Amato come Presidente del Consiglio, Mario Draghi come direttore generale del tesoro e Romano Prodi come Presidente dell’IRI; personaggi che anche nel futuro avrebbero avuto un ruolo fondamentale nella gestione della colonia Italia.
In questo contesto bisogna inquadrare le stragi del 1992 e tutto ciò che avvenne in Sicilia in quegli anni.
Giovanni Falcone la stagione delle stragi
Giovanni Falcone era un magistrato di rara capacità, intelligenza ed esperienza. Durante le sue indagini negli ultimi anni, stava indagando sui collegamenti esterni a Cosa Nostra e sui canali del riciclaggio.
Queste indagini lo avevano portato inevitabilmente verso gli USA. E’ molto probabile che abbia scoperto segreti indicibili sui livelli superiori a Cosa Nostra e fu sicuramente frainteso quando parlava dell’inesistenza del cosiddetto “terzo livello”, perché lui non riteneva ci fosse un “livello politico” superiore gerarchicamente a Cosa Nostra (a quei tempi il terzo livello era identificato, nella vulgata, al livello dei politici italiani collusi), ma che esistesse invece un amalgama di interessi che denotava un intreccio tra mafiosi, massoni, politici e servizi segreti italiani e soprattutto esteri.
Tra questi intrecci di interessi, il livello politico italiano era sicuramente il meno influente.
Le sue indagini lo portarono a toccare interessi sensibili, in direzione della massoneria e servizi NATO (si era infatti avvicinato alle strutture Gladio in Sicilia), che ebbero come risposta l’attentato all’Addaura del 1989, fortunatamente sventato.
Si parlò spesso dell’attentato all’Addaura come di un avvertimento volutamente non portato a termine (fu ritrovata dai sommozzatori un’enorme carica di esplosivo sotto la villa dove si trovava con Carla Del Ponte in quel momento, sull’isolotto dell’Addaura), ma io penso al contrario che l’attentato sia stato sventato dagli agenti Piazza ed Agostino, collaboratori del SISDE e fedeli servitori dello Stato, che sapevano ci fosse lo zampino di altri agenti dei servizi, non altrettanto onesti.
Piazza ed Agostino furono assassinati nei mesi successivi, per il loro omicidio fu indagato Giovanni Aiello, detto “faccia di mostro”, uomo dei servizi legato a Bruno Contrada.
Falcone non pensò mai ci fosse la mafia dietro a quell’attentato e parlò di “menti raffinatissime”.
Credo che quello fu uno spartiacque: in quel momento, Falcone, ostracizzato e tradito dal CSM – che dopo il pensionamento di Antonino Caponnetto aveva nominato capo dell’ufficio istruzione di Palermo Antonino Mele – si rese conto che dentro la magistratura non aveva più spazi, per portare avanti le sue indagini (il pool antimafia era stato smembrato e Falcone emarginato).
Molto probabilmente, aveva compreso il progetto – e le tante connessioni esistenti – che aleggiava sopra l’Italia e fu convinto da Andreotti e Martelli della buona fede di questi ultimi, nel contrastare tali piani e la nuova leadership di Cosa Nostra, manovrata da potenze internazionali.
La mancata azione contro il livello politico andreottiano fu quindi in quel momento non compresa dal movimento civile antimafia, soprattutto quando decise di andare al Ministero della Giustizia come direttore degli Affari Penali.
Aggiungiamo che la figura di Buscetta non fu capita appieno: è probabile che già allora avesse fatto a Falcone il nome di Andreotti, ma va anche segnalato che Buscetta era un collaboratore della CIA già dagli anni ‘60.
Falcone comunque portò a casa un importante risultato dalla sua esperienza al Ministero: introdusse la rotazione nell’assegnazione dei processi alla Corte di Cassazione, evitando che il maxi processo venisse affidato al giudice Corrado Carnevale e ottenendo, per la prima volta, la condanna definitiva a decine di ergastoli per il gotha di Cosa Nostra.
Sicuramente questo risultato portò ad un odio viscerale degli affiliati a Cosa Nostra verso Giovanni Falcone e Giulio Andreotti, considerato un “traditore”, ma, al contrario della vulgata in voga nel ‘92, non ritengo questo il movente degli assassinii e delle stragi del ‘92.
In realtà, nell’anno in cui il progetto “Italia” entrò nella sua fase operativa, il momento scatenante in Sicilia fu l’omicidio di Salvo Lima a Marzo del ‘92.
Salvo Lima era il viceré degli andreottiani in Sicilia, insieme ai cugini Salvo (Ignazio Salvo fu assassinato a settembre lo stesso anno, Nino Salvo era già morto di morte naturale): il messaggio per Andreotti era chiaro e fu compreso sicuramente anche da Falcone.
In quel momento il CAF era ancora determinante nel governo dell’Italia, nonostante la prima avanzata della Lega e l’inizio dell’operazione “Mani Pulite”, a maggio ci sarebbe stata l’elezione del Presidente della Repubblica ed il candidato in pectore era proprio Giulio Andreotti, che in quella posizione avrebbe avuto ben altro peso nel contrastare l’operazione internazionale scatenata sull’Italia.
Falcone si preparava a tornare attivamente in magistratura, forte delle conoscenze in suo possesso, della grande autorevolezza pubblica e con l’appoggio di Andreotti e dei socialisti, candidato in pectore a Capo della Superprocura nazionale antimafia, appena creata su suo impulso; rappresentava un pericolo altissimo per quel sistema di potere che 3 anni prima aveva già tentato di assassinarlo all’Addaura.
Falcone poteva essere assassinato tranquillamente a Roma, dove girava con misure di sicurezza limitate, ma si decise di colpirlo a Palermo, con un attentato di eco mondiale.
Il “come” ed il “quando” della strage di Capaci sono dirimenti nel capire autori e motivi dell’attentato:
la bomba di Capaci fu un atto che scosse l’Italia ed il mondo intero, nessuno, viste modalità e luogo, ebbe alcun dubbio sul fatto che la responsabilità era di Cosa Nostra e la reazione dell’opinione pubblica e dei media crearono un clima di vera e propria emergenza (cosa ben diversa sarebbe stata l’opera di un cecchino a Roma).
La tempistica, a pochi giorni dall’elezione del Presidente della Repubblica, ebbe gli esiti voluti: Andreotti, il grande favorito, già indebolito dall’omicidio Lima e dalle conseguenti chiacchere sui suoi trascorsi rapporti mafiosi, divenne invotabile, serviva un nome “pulito”, di sicura garanzia antimafia.
Venne eletto Oscar Luigi Scalfaro, rappresentante di quella Sinistra DC, di cui abbiamo parlato prima, ed ex Ministro dell’Interno negli anni ‘80.
Come si suol dire: “2 piccioni con una fava” ed un colpo mortale a coloro che avevano compreso l’operazione in corso sull’Italia e provavano ad opporsi.
Anche le successive analisi della strage di Capaci mi fanno propendere per una regia ben più alta della semplice Cosa Nostra, anche a livello operativo.
Secondo la versione ufficiale, il commando operativo era composto da membri di Cosa Nostra e da uomini legati all’eversione nera (storicamente legati ai servizi atlantici, durante la strategia della tensione): il terrorista nero Rampulla era uno degli artificieri e responsabili di assemblare l’esplosivo, che secondo la ricostruzione ufficiale (incredibile ma vero…), venne preso con sommozzatori da bombe inesplose della seconda guerra mondiale, in fondo al mare al largo di Palermo.
Il detonatore fu azionato da Bernardo Brusca, al comando della squadra operativa.
Il fatto strano, però, è che, insieme al tritolo della bomba “mafiosa”, fu ritrovato del semtex militare, il che, insieme a numerosi altri indizi resi noti negli anni, fanno propendere per una seconda bomba, molto più letale, i cui operatori sono a tutt’oggi sconosciuti.
Interessante il commento di una fonte anonima dei servizi segreti, riportata nel libro “Doppio livello” di Stefania Limiti, secondo cui la fase operativa della strage di Capaci assomiglia ad un padre che porta a pescare il figlio, aggancia il pesce, lo stanca e poi passa la canna in mano al figlioletto facendogli credere di aver pescato lui il pesce.
Ugualmente esiste una narrazione interna a Cosa Nostra secondo cui Brusca aziona il telecomando che fa saltare in aria l’autostrada di Capaci, uccidendo il nemico numero 1 di Cosa Nostra e “punendolo” per l’esito del maxi processo; questa è anche la narrazione passata nelle aule di Tribunale e data in pasto all’opinione pubblica.
C’è poi l’ipotesi molto più concreta, che ci fosse esplosivo militare ad alto potenziale, enormemente più distruttivo, azionato da altre “manine”, che non potevano permettersi il rischio di un fallimento dell’attentato e soprattutto che Falcone ne uscisse vivo.
Riina, in uno dei suoi tanti messaggi subliminali ai dibattimenti del processo, suggerirà ai giudici di indagare sul Cessna che volava sopra Capaci, seguendo la macchina di Falcone; secondo molti il detonatore della bomba letale venne azionato proprio da quell’aereo.
Falcone morirà nelle ore successive in ospedale a Palermo, in circostanze che alcuni riterranno sospette.
Strana e contraria alle ordinarie procedure è l’intervento dell’FBI nelle indagini, già all’indomani della strage: un servizio di polizia interno ad uno stato, che va ad indagare in uno stato straniero…
All’indomani della strage di Capaci e con l’incalzare dell’inchiesta Mani Pulite, tanti tasselli del piano cominciano ad andare al loro posto: con Scalfaro alla Presidenza della Repubblica, il Ministro dell’Interno Scotti venne sostituito da un altro esponente della sinistra DC: Nicola Mancino ed il Ministro della Giustizia Martelli da Conso (tecnocrate vicino a tanti dei nomi sopra citati).
Trattative e trattati
Dopo il depistaggio organizzato dalla squadra di La Barbera (ai tempi capo della squadra mobile di Palermo e collaboratore del SISDE), insieme al capo della Procura di Caltanissetta Tinebra (basato sulle false confessioni estorte al pentito Scarantino), c’è stato un secondo depistaggio, penso in buona fede ed inconsapevole, legato alla vulgata secondo cui Borsellino sia stato ucciso perché aveva scoperto la “trattativa Stato-mafia”.
Si tratta della trattativa condotta dagli ufficiali del ROS Mori e De Donno con Riina, attraverso Vito Ciancimino, ex Sindaco mafioso di Palermo. Secondo i magistrati che hanno condotto l’inchiesta ed il processo “Trattativa”, Borsellino, venuto a conoscenza del fatto, avrebbe, se non fosse stato assassinato prima, denunciato pubblicamente e perseguito i fatti in corso.
Posto che, al contrario di ciò che si dice, di tale trattativa, erano già a conoscenza molte persone ben prima dell’avvio dell’inchiesta (ricordo che già nel libro dell’avvocato Alfredo Galasso, di poco successivo alle stragi, era citato il “papello” di Riina), i terminali della trattativa non erano tanto rappresentanti a nome del governo in carica, quanto singoli personaggi della sinistra DC (di cui alcuni in posti chiave di potere), preoccupati della propria incolumità, a fronte degli assassinii politici che erano stati perpetrati e del cambio di potere politico in corso.
La trattativa era seguita passo a passo dal fantomatico “sig. Carlo” o sig. “Franco”, citato da Massimo Ciancimino (il figlio di Vito, che fu testimone del processo), mai identificato.
Personaggi chiave degli apparati erano quindi costantemente al corrente degli sviluppi della trattativa e secondo le risultanze non necessitavano della stessa per dialogare con i vertici mafiosi, che al contrario erano manovrati da tempo.
La trattativa si interruppe quando intervenne Marcello Dell’Utri e, secondo molti, gli si interpose Provenzano, che, utilizzando gli stessi canali usati per la trattativa con Riina, portò all’arresto del Riina stesso e alla sparizione di tutti i suoi documenti, usandolo come “agnello sacrificale” per imporre la “pax mafiosa” ed inaugurare un nuovo periodo di gestione di Cosa Nostra.
C’erano quindi livelli di complicità ed interazione tra mafiosi ed apparati dello Stato, di livello ben superiore a quelli emersi nel processo “Trattativa” e credo che questi vadano individuati per capire chi e perché ha progettato la strage di via d’Amelio.
All’indomani della strage di Capaci, Paolo Borsellino, in quel momento Procuratore aggiunto a Palermo, si dedicò anima e cuore alle indagini per capire gli autori della strage di Capaci, capendo molto bene che limitarne la responsabilità alla sola mano mafiosa era un errore.
Borsellino conosceva il contesto su cui indagava Giovanni Falcone ed anche se forse non aveva compreso appieno il progetto di cui abbiamo parlato prima e di cui Falcone era consapevole, le sue indagini lo portarono presto in direzione delle collusioni politiche ed istituzionali di Cosa Nostra, tanto che si rese conto di essere in pericolo e dichiarò che “doveva fare presto”.
La scoperta di queste complicità di altissimo livello ed il delinearsi del progetto incombente sull’Italia, mi sembrano un movente molto più forte ed impellente della semplice scoperta della “trattativa”.
Sul versante politico, come dichiarò nella sua ultima intervista, stava indagando sulle persone vicine a Berlusconi (nuovo terminale dei rapporti Cosa Nostra – politica, nell’ottica di candidato in pectore come nuovo rappresentante politico italiano di poteri sovranazionali), come Marcello Dell’Utri e Vittorio Mangano (lo “stalliere di Arcore”) ed inevitabilmente su Berlusconi stesso.
Sul versante istituzionale, diverse testimonianze riportano dei suoi sospetti sulle collusioni con Cosa Nostra di personaggi come il comandante del ROS in Sicilia Subranni ed il numero 3 del SISDE Bruno Contrada, oltre a furiose litigate col Capo della Procura Giammanco, che ostacolava la sua impostazione di lavoro e gli nascose l’informativa sui pericoli di attentato ai suoi danni.
Borsellino era magistrato di rara intelligenza, competenza ed esperienza, facile quindi ipotizzare che avesse unito i puntini e rappresentasse un pericolo imminente per il progetto in corso sull’Italia.
Anche le indagini sulla strage, al netto di depistaggi e manipolazioni, evidenziarono lo zampino dei Servizi nell’assassinio di Paolo Borsellino: le indagini di Genchi (che fu emarginato e lasciò la squadra di indagine di La Barbera) portavano al castello Utveggio, sede del SISDE a Palermo, mentre fu uno scandalo la scomparsa dell’agenda rossa, sottratta da apparati dello Stato (come prima era scomparsa l’agenda elettronica di Falcone).
Anche il pentito Spatuzza, la cui credibilità è stata verificata processualmente, parla di un personaggio presente nella preparazione dell’attentato, che non apparteneva a Cosa Nostra.
Non vi è dubbio, quindi, che le “menti raffinatissime” che hanno organizzato la strage di via d’Amelio siano le stesse della strage di Capaci ed i mafiosi hanno semplicemente rappresentato la manovalanza (nemmeno determinante…).
Craxi e Andreotti, gemelli diversi verso un unico destino
Entrambi portarono avanti una carriera politica senza scrupoli di sorta morale o etica: consideravano mafia e massoneria poteri coi quali bisognava convivere e dialogare, la corruzione come normale strumento politico, pur sempre un mezzo per mantenere il potere.
Il problema è che queste condotte, che riteniamo immorali, sono la pratica di tutti i politici di grande successo, a parte poche eccezioni.
Se si vogliono comprendere le dinamiche geopolitiche e di potere globale, bisogna abbandonare le logiche ideologiche e morali, il concetto di “buoni” e “cattivi”, di “giusto” e “sbagliato”: nella geopolitica contano le convenienze, dei singoli e degli stati; infatti “la ragion di Stato” è da sempre prevalente su qualsiasi altra considerazione ideale e morale.
Enrico Mattei fu un grande italiano che fu assassinato perché stava operando per garantire l’indipendenza energetica italiana, ma nonostante il valore etico delle sue opere, non lesinava l’utilizzo della corruzione attraverso l’ENI.
Ugualmente possiamo citare grandi partigiani come Pertini ed i responsabili del CLN, che si resero complici di manipolazioni e falsi storici, come l’assassinio di Mussolini, sacrificando la verità sull’altare della storia democratica dell’Italia.
Potrei fare decine di esempi di personaggi che riteniamo di alta moralità, ma hanno operato secondo la ragione di Stato (anche se sicuramente non si possono paragonare al modus operandi criminale di un Andreotti).
Riguardo Craxi e Andreotti, pur con tutte le differenze (il secondo non si fece scrupoli a sacrificare Aldo Moro mentre il primo tentò di tutto per salvarlo, ad esempio), credo che fino alla caduta del muro di Berlino, ritenessero che la logica della guerra fredda giustificasse ogni crimine volto ad impedire l’ascesa dei comunisti ed il conseguente colpo di Stato che avrebbe organizzato la NATO in Italia.
Con la fine dell’impero sovietico, erano consapevoli del progetto oscuro che incombeva sull’Italia e se da una parte volevano mantenere il loro ruolo politico, dall’altra non erano più disposti a giustificare l’asservimento totale dell’Italia all’impero anglosassone e soprattutto la predazione programmata del paese e la sua devastazione.
Credo, che fossero due politici figli di una tradizione politica e popolare profonda, che avevano comunque un amor patrio che li ha spinti a cercare di mantenere un minimo spazio di sovranità alla nazione ed abbiano pagato il prezzo del loro tentativo (ovviamente il potere più ramificato e consolidato di Andreotti gli ha evitato, al contrario di Craxi, condanna ed esilio).
La stagione delle stragi: verso l’Italia globalizzata
Le stragi del 1993 hanno una connotazione diversa, seppure in continuità, con quelle del 1992. Non avevano come obiettivo un assassinio mirato, come nel ‘92, ma avevano più la connotazione di messaggi precisi.
La regia di quelle stragi, in maniera evidente, non apparteneva a Cosa Nostra, anche se lo schema prevedeva che la stessa se ne assumesse la paternità, anche al proprio interno, in cambio della prosecuzione di una trattativa, che avrebbe portato alla sospensione del regime carcerario del 41 bis per circa 300 mafiosi da parte dell’allora Ministro della Giustizia Conso.
In realtà, anche nelle indagini successive, emerse la presenza nei luoghi delle stragi di 2 misteriose donne, che portarono all’identificazione di 2 sospettate vicine a Giovanni Aiello (“faccia di mostro”, legato al SISDE e a Bruno Contrada), il cui ex marito di una era nipote dell’allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi (già direttore del SISDE e uomo a quei tempi potentissimo).
Queste sospettate, riconducibili anche all’organizzazione GLADIO, insieme a molti altri indizi, fecero propendere le indagini sull’esecuzione operativa verso ambienti vicini ai servizi segreti (anche la sigla di rivendicazione “falange armata” è sempre stata ritenuta interna a quegli ambienti).
Furono anche indagati, inizialmente, Silvio Berlusconi e Marcello dell’Utri, come mandanti esterni, in inchieste collegate alle varie stragi: rappresentavano sicuramente una cerniera di trasmissione tra ambienti mafiosi e la nuova classe politica che si apprestava a sostituire la vecchia, ma credo che il contesto di quelle stragi includesse livelli più ampi.
In corrispondenza di una delle bombe si verificò anche il misterioso black out di Palazzo Chigi, su cui testimoniò anche l’allora Presidente del Consiglio Ciampi; credo che l’obiettivo delle stragi (che furono mirate anche a determinati patrimoni artistici italiani, a richiamo di “menti raffinatissime”) furono innanzitutto dei messaggi mirati a favorire la trasformazione del potere allora in corso in Italia: uno dei destinatari, nel caso della bomba a Roma, fu sicuramente il Vaticano.
La corrispondenza temporale degli accordi di Maastricht, approvati in quel periodo, è il naturale contesto in cui le elités finanziarie internazionali, che di fatto governano la politica occidentale, stavano attuando il completamento di un piano economico e politico neoliberista, che avrebbe completamente soppiantato i residui di politiche “keynesiane”, ispirate dalla dottrina sociale della Chiesa e da politiche socialdemocratiche, che avevano caratterizzato soprattutto la politica economica italiana dal dopoguerra. Con la fine dell’Unione Sovietica, era finito anche il “pericolo comunista” ed il PCI aveva già fatto spazio ad un nuovo Partito, che negli anni sarebbe diventato l’alfiere della NATO e del neoliberismo in Italia.
Non escludo un ruolo di Berlusconi e dell’Utri anche nella stagione stragista, ma va ricordato che il modus operandi delle elités finanziarie (di cui la famiglia più famosa e rappresentativa sono i Rothschild) è quella di giocare su più tavoli: per cui la dicotomia destra/sinistra è una rappresentazione teatrale per il popolino, in cui si fa credere ad un’alternanza e democrazia, quando entrambi gli schieramenti dipendono dagli stessi dante causa.
Nel caso italiano i più fedeli servitori politici del piano di controllo e predazione dell’Italia sono stati Draghi, Prodi, Ciampi, Napolitano, Monti, Amato; mentre credo che il ruolo di Berlusconi fu soprattutto di dare una spallata finale alla vecchia rappresentanza politica, rappresentando il “nuovo” (schema che ritroveremo più volte negli anni…) e di controllare il sistema dei media, estraneo alla gestione ebraica, in funzione del progetto.
Libera Antimafia di sistema
Ero nel comitato fondatore di Libera, in rappresentanza dell’associazione che coordinavo nella provincia dove vivevo al tempo. Ricordo che l’impulso alla nascita dell’associazione nacque da Luciano Violante: le riunioni si tenevano in un aula del Senato a palazzo San Macuto e venivano presiedute dal suo segretario particolare, che si chiamava Manuele, ma di cui non ricordo il cognome, il periodo era attorno al 1994.
All’epoca, per tante piccole associazioni nate in varie parti d’Italia, che erano diventate particolarmente attive dopo il ‘92, non destava scandalo o preoccupazione che dietro l’organizzazione vi fosse un politico come Luciano Violante, in quanto era ancora ritenuto un simbolo dell’antimafia (quanta ingenuità giovanile…).
Particolarmente attiva era l’associazione Società Civile di Nando Dalla Chiesa, non ancora diventato politico e ritenuto dai più all’epoca un disinteressato attivista antimafia.
Inizialmente non erano previste iscrizioni individuali, in quanto Libera doveva essere unicamente un’associazione di associazioni, senza una prevalenza gerarchica: i partecipanti alle riunioni, a parte realtà più strutturate come il Gruppo Abele e Società Civile, erano tante piccole associazioni di attivisti volontari.
Quando venne deciso di votare alla Presidenza don Ciotti, il suo nome venne riconosciuto unanimemente come un simbolo della lotta alla mafia, ma la sua figura avrebbe dovuto avere solamente un ruolo di rappresentanza.
Gli obiettivi erano innanzitutto l’educazione alla legalità ed il sostegno ad iniziative di legge contro la mafia.
Mi lasciò un po’ perplesso unicamente la non approvazione della proposta di inserire nei fini sociali l’azione attiva ed esplicita nel sostegno ai magistrati ed operatori particolarmente esposti, insieme alla denuncia di personaggi equivoci.
Ben presto l’associazione prese un’altra conformazione: le piccole associazioni, poco strutturate e senza grandi mezzi di sostentamento, sparirono e rimasero preponderanti il gruppo Abele e Società Civile; piano piano don Ciotti, da mero rappresentante, divenne il dominus padre/padrone dell’associazione.
L’associazione negli anni divenne “istituzionale” ed al suo interno entrarono le principali associazioni cattoliche, sindacali e di sinistra: ARCI, ACLI, AGESCI, Azione Cattolica, CGIL, CISL, UIL, Lega Coop.
Oggi è diventata una holding dal bilancio di milioni di euro e decine di controllate, che gestisce praticamente in regime di monopolio (direttamente o indirettamente), i beni confiscati alle mafie.
Riceve finanziamenti pubblici da Commissione Europea, Presidenza del Consiglio, Ministeri, Regioni, Comuni e finanziamenti o sponsorizzazioni private da Lega Coop, banche, assicurazioni (ovviamente più di tutti: UNIPOL).
Libera ha fatto eleggere in Parlamento (sempre in area PD) propri associati o personaggi vicini a don Ciotti.
Ovviamente un’associazione con queste caratteristiche istituzionali ha ben poco spazio di manovra o indipendenza per agire realmente contro interessi “intoccabili” legati alla mafia e gli stessi scopi sociali si sono ampliati notevolmente, passando dall’ambiente (“sviluppo sostenibile) alla “parità di genere”.
Diverse volte, negli ultimi anni, si è ritrovata ad aver appoggiato realtà e personaggi di cooperative o associazioni (esterne a Libera), poi coinvolti in inchieste di mafia (diventa inevitabile, quando un’associazione di quelle dimensioni è in stretti rapporti con politici, cooperative e associazioni varie, anche se nessun componente di Libera è mai stato indagato per quei reati), così come a scontrarsi con piccole realtà associative locali antimafia indipendenti.
Il personaggio di don Ciotti ha acquisito un’autorità messianica, per cui le massime istituzioni politiche, istituzionali e religiose corrono a mostrarsi al suo fianco, mentre è immune da critiche di ogni tipo.
Sui suoi metodi di gestione dell’associazione e del suo personale, è utile la lettura del libro (sottoposto a damnatio memoriae e feroci critiche e minacce giudiziarie) “I buoni”, di Luca Rastello (ex coraggioso direttore di Narcomafie, poi uscito in polemica con il Gruppo Abele, suo editore), in cui, sotto nomi di fantasia ed una trama in cui “ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale”, si può facilmente intuire come Don Ciotti abbia gestito il Gruppo Abele sia stato gestito.
Oggi, di fatto, Libera rappresenta il monopolio dell’antimafia italiana, sotto la tutela di Governo, Commissione Europea, pezzi importanti di magistratura e Vaticano.
Berlusconi deve cadere: l’Italia verso il Grande Reset
Della missione e del ruolo di Silvio Berlusconi abbiamo già parlato: progetto nato e portato avanti in ambito massonico, grazie anche all’utilizzo di Cosa Nostra, che lo appoggerà anche nella sua “discesa in campo” politica.
Ovviamente, come spiegato, Berlusconi è manovrato dall’impero angloamericano (che aveva la P2 come proprio terminale italiano negli anni ‘70/‘80) e risponderà adeguatamente ai suoi compiti nei suoi governi fino al 2008.
Il personaggio era furbo, scaltro, grande comunicatore ed aveva l’intelligenza imprenditoriale di circondarsi di personaggi capaci (e particolarmente intelligenti, come Marcello dell’Utri); il problema è che negli anni, accanto al declino di Gelli, acquisisce particolare autonomia, soprattutto finanziaria (i vecchi finanziatori legati a Stefano Bontate erano morti da tempo, così come Enrico De Pedis della banda della Magliana, di cui una parte del riciclaggio finì in Sardegna attraverso Flavio Carboni e probabilmente nelle società di Berlusconi: non credo si rilascino ricevute o si registrino debiti, in quei casi…).
Alla sua crescente autonomia, si aggiungano abitudini e frequentazioni ricreative “autonome” (si è ipotizzato negli anni anche il consumo di cocaina), unite al grande successo imprenditoriale, sportivo e politico, che lo porteranno in maniera evidente a sintomi di megalomania.
Ai piani alti si decide quindi di porre fine al suo successo politico e di governo, con il 2006 (messaggio chiaro anche l’arresto di Provenzano appena dopo le elezioni).
Molto interessante anche l’andamento delle elezioni politiche e dello spoglio dei risultati del 2006: ci furono statistiche relative alle schede bianche e diverse stranezze che portarono diverse fonti a parlare di brogli; i risultati delle proiezioni non furono diffusi fino alle 5 di mattina e diverse testimonianze riportarono litigate furiose tra Berlusconi ed il Ministro dell’Interno Pisanu (anche lui ex piduista) dal di fuori della stanza, durante la notte; difficile pensare che Berlusconi potesse imputare a lui un consenso non sufficiente, forse più logico chiedergli conto di brogli programmati non andati a buon fine?
La mia impressione è che a fronte di “manine” che avevano portato Berlusconi a prevalere di misura minima sul territorio nazionale, altre “manine” avevano dato a Prodi un trionfo nel voto estero, in entrambi i casi sovvertendo sondaggi ed aspettative.
Probabilmente il voto fu condizionato al fine di portare alla vittoria di Prodi, ma limitandone la misura e quindi la sua futura autonomia (vinse alla fine per circa 25.000 voti), non dimenticandoci che anche su Prodi non vi era fiducia assoluta, visto poi il suo siluramento anni dopo, quando sembrava Presidente della Repubblica in pectore.
A quel punto Berlusconi non accettò il siluramento di buon grado e diede crescente fiducia ed autonomia all’ uomo più intelligente e capace all’ interno della sua squadra: Marcello dell’ Utri, a scapito anche di personaggi come Gianni Letta, legati a doppia mandata alla massoneria e finanza askenazita.
Dell’ Utri intuì che corrompendo una decina di parlamentari si poteva agilmente far cadere Prodi ed il gruppo avrebbe avuto sufficiente capacità finanziaria, mediatica e operativa per gestire future elezioni.
Così avvenne: con la complicità di un piccolo gruppo di parlamentari “corrotti”, Prodi cadde nel 2008 e Dell’ Utri organizzò la campagna elettorale ed il governo, di cui era il dominus e artefice; con i suoi contatti in Cosa Nostra e nell’ Opus Dei (di cui era membro e che sotto Ratzinger era potentissimo in Vaticano), si garantì il consenso elettorale sufficiente per vincere le elezioni.
Tra il 2008 ed il 2011 il governo Dell’ Utri, presieduto da Berlusconi, garantì all’ Italia l’ultima esperienza di relativa indipendenza: i rapporti stretti con la Libia di Gheddafi e con la Russia di Putin garantivano all’ Italia la fondamentale indipendenza energetica e geopolitica per recitare un ruolo da protagonista nel Mediterraneo.
Il progetto del South Stream, che avrebbe creato un hub energetico in Puglia, di cui erano partner a pari quota ENI, Gazprom e la Turchia, avrebbe garantito non solo l’indipendenza energetica italiana, ma assicurato il ruolo di hub fondamentale per il gas in Europa, insieme al North Stream tedesco.
Ovviamente questo non era tollerabile da parte dell’ impero anglo-americano: prima coinvolsero l’ Italia nella guerra in Libia (qui si vide la debolezza del personaggio Berlusconi, che dovette obbedire alle pressioni del potentissimo massone Giorgio Napolitano e tradì Gheddafi), distrutta la Libia e frantumata l’ influenza italiana nel paese, si preparò il golpe bianco, dove, con il ricatto del crollo borsistico di Mediaset e dello spread sui titoli Italiani, si costrinse (grazie anche all’ obbedienza atlantica di Fini) Berlusconi alle dimissioni.
Sappiamo poi, con la guerra in Ucraina, che fine ha fatto anche il North Stream…
Con il governo Monti la finanza askenazita riprese il pieno controllo del governo italiano, l’artefice del governo Berlusconi (Dell’ Utri) fu punito con l’ arresto per mafia ed il controllo anglo-americano è divenuto più totale che mai, con la creazione di politici-marionetta privi di qualsiasi autonomia, capacità o anche solo intelligenza, atti a garantire la sudditanza totale che viviamo oggi.
Il Brigante
29.10.2024