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DI MARCO TRAVAGLIO

Si è chiuso in Cassazione il processo Andreotti, dopo dieci anni di calvario. Calvario, ovviamente, per i magistrati di Palermo che, in ossequio alla Costituzione e al Codice penale, hanno doverosamente processato il senatore a vita. Ora è il momento delle scuse: ai magistrati di Palermo, s’intende, per l’onda anomala (o forse «normale») di calunnie e falsità che li ha travolti per dieci anni, fra i silenzi di chi doveva parlare e le panzane di chi doveva tacere. Insufficienza di prove gabellata per «formula piena», prescrizione spacciata per assoluzione, delitti gravissimi ridotti a generiche «responsabilità politiche» (che poi nessuno, salvo i radicali, ha mai contestato al responsabile). Ora sappiamo dalla Suprema Corte di Cassazione che la sentenza della Corte d’appello di Palermo – Andreotti colpevole di associazione per delinquere con Cosa Nostra fino alla primavera 1980, insufficienza di prove dall”81 al ’93 – non era ambigua né contraddittoria né cerchiobottista. Era «esaustiva», «logica», «razionale», «argomentata», «dimostrativa degli apprezzamenti di merito»: cioè dei fatti portati dall’accusa, in base ai pentiti e ai riscontri, dunque «non censurabile sotto il profilo della motivazione», ergo definitivamente confermata.

Chi – un nome a caso, Berlusconi – ne aveva dedotto che i giudici sono «matti», «antropologicamente diversi dalla razza umana», dovrebbe farsi visitare da uno bravo. E chi vaneggiava di «assoluzione», «fine del calvario», «bocciatura dei teoremi», «confessione della Procura» dovrebbe cambiare mestiere. O almeno leggersi le sentenze prima di commentarle. Il presidente dell’Antimafia Roberto Centaro, autore della relazione in cui si affermava che l’appello «ha malamente sbugiardato i teoremi d’accusa», dovrebbe avere la decenza di dimettersi. Un po’ di silenzio farebbe bene al rutelliano Beppe Fioroni («Andreotti esce a testa alta da accuse infamanti»); al verde Paolo Cento (che aveva zittito Caselli, reo di aver citato la sentenza di prescrizione confermata dalla Cassazione e per questo trascinato da Forza Italia dinanzi al Csm: «Intervento inopportuno perché il processo si è chiuso con l’assoluzione»); a Enrico Buemi dello Sdi («Caselli si arrampica sugli specchi per difendere quel che ha fatto. Il processo Andreotti nasce da una pericolosissima confusione tra responsabilità politiche e penali che attivano processi mostruosi come questo»); a Ottaviano Del Turco (Sdi), degno predecessore di Centaro («Non capisco perché una parte della sinistra continui a sottoscrivere una storia d’Italia come se fosse stata governata per 50 anni da mafiosi e piduisti»); e a Emanuele Macaluso, che ridacchiava su Andreotti mafioso fino all’80 e vaneggiava di eventuali «responsabilità politiche, non penali». Ora la Cassazione conferma che le responsabilità penali c’erano, consacrando per sempre il verdetto che dichiara Andreotti colpevole di «partecipazione all’associazione per delinquere» (non concorso esterno, peggio) fino al 1980.

La garrula avvocatessa Giulia Bongiorno ha perso anche in Cassazione (rigettato il suo ricorso, condannato il suo cliente alle spese processuali), ma continua a strillare che ha vinto lei: «Un netto miglioramento della precedente sentenza, con dubbi e perplessità in merito ai presunti incontri». Forse ha letto un’altra sentenza: questa critica addirittura i giudici d’appello per aver accreditato troppo generosamente il «recesso» di Andreotti dalla mafia in assenza di «fatti positivi». Stupisce il commento dell’avvocato Coppi, non degno di una persona seria come lui: «I pentiti accusano Andreotti guardacaso dopo la morte di Falcone, che li avrebbe arrestati per calunnia». Falcone che arresta Buscetta e Mannoia è difficile immaginarlo, anche perché gli avevano sempre detto la verità (Buscetta aveva anticipato nel 1983 le accuse contro Andreotti a Dick Martin, il pm di New York che aveva lavorato con Falcone sulla Pizza Connection).

Ma dopo la mazzata della Cassazione i professionisti della disinformafia tacciono imbarazzati. Resiste, ottuso e solitario come il palo della banda dell’Ortica, il senatore Fragalà (An): «La sentenza dimostra la natura politica e strumentale dell’indagine avviata da Caselli che pretendeva di riscrivere la “vera storia d’Italia” con l’inchiostro rosso del pregiudizio e dell’interesse di parte». Lo smentisce persino il Giornale che, essendo Lino Jannuzzi chiuso per ferie, si affida a una giornalista, Anna Maria Greco, che le sentenze le sa leggere: «Dunque la sentenza si basava su fatti concreti che provano i legami, fino al 1980, dell’ex statista Dc con Cosa Nostra… Al centro c’è l’incontro di Andreotti con il boss Stefano Bontate». Tace anche Bruno Vespa, che s’è appena fatto dettare la storia d’Italia da Andreotti (a quando una storia della “mafia vista da vicino”, a quattro mani?). Giuliano Ferrara, che ancora venti giorni fa inseriva Andreotti fra i martiri dei «fallimenti di Caselli», se la cava con quattro righe quattro sul Foglio. Per molto meno, all’estero, i giornalisti si dimettono e si danno all’ippica. In un gruppo così prodigo di cavalieri e stallieri, non mancano le chances.

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