Brigata ebraica: quella confusione cercata tra giorno della memoria e festa della liberazione

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FONTE SENZASOSTE.IT

Il nostro approfondimento sulle polemiche del 25 aprile e sul fatto curioso che una brigata dell’esercito inglese, i cui membri dopo la guerra si sono trasferiti principalmente in Israele, provi a dettare platealmente la linea storiografica delle commemorazioni delle associazioni antifasciste italiane.

Un episodio meno conosciuto della vita di Alfred Hitchcock racconta del suo impegno come regista nel montaggio del materiale filmato dai campi di sterminio. Hitchcock, come poi ricorderà successivamente nella storica intervista fattagli da Truffaut, doveva usare tutta la propria capacità nel difficile processo di montaggio cinematografico per un documentario del genere. Un prodotto che sarebbe stato la prova incontrovertibile che il filmato era autentico, che i campi di sterminio erano veri, che le strazianti scene filmate non erano una montatura, che la portata dell’evento era apocalittica. Naturalmente Hitchcock non pensava al suo presente, in cui era ormai ben chiaro cosa fosse accaduto, ma alle generazioni future. Generazioni che avrebbero dovuto capire l’incontrovertibilità dei fatti narrati e del messaggio che contenevano nel documentario: attenzione a tutto ciò che, agendo similmente, può riprodurre genocidi come quelli vissuti negli anni ’40. Insomma, una attenzione ai fatti, più che alle narrazioni, a tutela, oltre che delle generazioni future, della memoria del popolo ebraico colpito con una violenza di una ferocia ossessiva e paranoica su larga scala, inedita e inimmaginabile, fino a quel momento, persino nel secolo delle grandi guerre di massa.

Con il passare dei decenni, le fonti sia documentarie che testimoniali sui campi di sterminio si sono moltiplicate. Si è anche moltiplicata la letteratura negazionista ma, nonostante le pretese di riscrivere la storia, si tratta di un fenomeno regolarmente rimasto ai margini. Anche il revisionismo, di ogni genere, non riesce a ribaltare l’incontrovertibile verità arrivata fino a giorni nostri: dalla conferenza di Wansee del ’42, nella quale fu decisa la “soluzione finale del problema ebraico” da parte delle autorità naziste al gennaio del ’45, quando l’armata rossa liberò Auschwitz, vi fu, da parte dell’allora governo tedesco, una sistematica sovrapposizione tra genocidio e sterminio per  popoli (ebrei, rom), fasce di popolazione (omosessuali, disabili), oppositori politici.

Nella nostra epoca, e soprattutto nel nostro paese, il problemi nell’uso pubblico della storia, che resta comunque un diritto, nascono da un altro tipo di sterminio. Quello degli storici che non riescono a riprodursi, tanto meno in rapporto alle necessità di una società che di uso pubblico della storia ci vive, grazie al taglio brutale, operato sistematicamente nel tempo dai governi di centrosinistra e di centrodestra, ai fondi e alle cattedre di tutte le scienze umane. Tutto sacrificato sull’altare dell’inutile santuario chiamato finanza e, qui, speriamo che le generazioni successive non vivano questo genere di sacrifici. Gli storici hanno, infatti, il pregio di immettere fatti nella discussione pubblica. Un lavoro alla Hitchcock, utile per far disperdere mitologie e narrazioni velenose. Un lavoro che la nostra società ritiene improduttivo, ed è una cecità che fa danni. L’altro sterminio, conseguenza di quello degli storici ma anche delle mutazioni antropologiche e tecnologiche intervenute nella società, è quello di buona parte della memoria collettiva. In una società in cui il massimo arco temporale della memoria condivisa sembra toccare i cinque anni, il genocidio di Auschwitz, la seconda guerra mondiale, la Liberazione  stanno sul terreno dei temi lunari, sideralmente lontani. Forse oggi l’unico vero fatto storico condiviso da tutte le generazioni di italiani, è la vittoria al mundial del 1982. Molto più di quello del 2006 a riprova che nella memoria collettiva, anche oggi, conta più l’aspetto simbolico che la vicinanza temporale. E se  il ‘900  nella memoria di oggi non conta il problema non è la lontananza: vuol dire che i simboli che porta, e il modo con i quali vengono rappresentati, stanno in una dimensione di debolezza.

Nonostante lo sterminio degli storici, la disabitudine all’uso sistematico dei fatti nell’uso pubblico della storia, il forte indebolimento della memoria collettiva ciò che è accaduto prima e dopo la seconda guerra mondiale, nella vita politica istituzionale, continua a contare. Per due motivi. Il primo è che il potere istituzionale continua a riprodursi tramite riti a contenuto storico. Su come avvengono questi riti, come naturale in questo genere di riproduzioni, si giocano i posizionamenti delle cordate di potere al suo interno. Il secondo è che, essendo il potere istituzionale un potere pubblico, questi riti vengono riprodotti dai media per un processo di legittimazione delle istituzioni nei confronti della società. E’ così possibile, e nel nostro paese accade da anni, un processo simile e differente, assieme, a quanto descritto classicamente da Orwell con il celeberrimo “chi governa il passato governa il presente”. Perchè, da una parte, nessun cerimoniere del passato, volente o nolente, governa l’idea di presente dell’intera società. Quest’ultima ormai è così acentrica e differenziata, rispetto ai tempi di Orwell, da rendere impossibile un governo del suo senso della storia. Non solo perchè la durata media del senso collettivo della storia sta, probabilmente, in cinque anni. Ma anche perchè ci sono settori di società in cui la storia dell’evoluzione delle birrerie, o del cloud computing, o del design dei cellulari prima e degli smartphone poi, oppure quella delle battaglie un pò storiche un pò sportive tra campanili, assume sempre maggior valore simbolico di qualsiasi lettura degli eventi politici, e di costume, che vanno dal 1938 al 1948 (dalle leggi razziali all’entrata in vigore della costituzione repubblicana). Dall’altra parte, invece, la legge di Orwell “chi governa il passato governa il presente” vale per le reti di potere istituzionale. Chi, in quei circuiti, fa valere la propria versione della storia è in grado di condizionare i riti con i quali il potere isituzionale si riproduce (che sono storici e legate al ricordo di determinati eventi). E’, in ultima istanza, in grado quindi di far valere le proprie cordate di potere. Ecco qui il contesto nel quale si inquadra la vicenda della brigata ebraica. Vicenda differente, nonostante le motivazioni ufficiali, dalla necessità di tutela della memoria del genocidio degli ebrei. Vicenda che si inquadra,  piuttosto, nelle  mutazioni della memoria collettiva e dell’autoreferenzialità rituale delle istituzioni.

La brigata ebraica e noi

Senza entrare in una serie di dettagli storiografici, la brigata ebraica è stato un corpo dell’esercito inglese durante la seconda guerra mondiale (Jewish Infantry Brigade Group) inquadrato in diversi battaglioni e compagnie. Assorbendo gli ex soldati del “reggimento di Palestina” e costituendo, anche, oltre al nome Jewish Brigade, anche due compagnie dal nome “Palestina” (la 643 e la 178). Costruita nel settembre 1944, e composta di circa 5000 volontari, la brigata ebraica si vede intitolata a Ravenna una lapide ricordo dei morti, in tutto 45, durante la campagna di liberazione dell’Italia a cui ha partecipato.

Ad essere pignoli, e spesso coincide con essere stupidi, si tratta di una brigata inquadrata nell’esercito inglese e suona un pò strano che, chi ne detiene la memoria, si immetta direttamente in discussioni sulla linea e sulle cerimonie dei partigiani italiani. Anche perchè i partigiani italiani non entrano nel merito, nel metodo, e nella costruzione simbolica delle commemorazioni dell’esercito inglese nè dei corpi di volontari dell’attuale stato di Israele. Ma non vogliamo essere pignoli, per non rischiare la malattia dell’animo chiamata stupidità, ed evitiamo di evidenziare troppo il fatto che è curioso che una brigata dell’esercito inglese, i cui membri dopo la guerra si sono trasferiti principalmente in Israele, provi a dettare platealmente la linea storiografica delle commemorazioni  delle associazioni antifasciste italiane. E poi fa seriamente piacere che gli ebrei cittadini del nostro paese, e in generale la cultura israelitica in lingua italiana, siano interessati, con il loro contributo di memoria della partecipazione militare attiva, anche alla promozione della cultura della resistenza. Solo che, in questo modo, non ci siamo proprio. Anzi, si finisce, paradossalmente, per promuovere proprio quel modo revisionista di fare storia che è dannoso per le società civili. Finendo anche per inflazionare proprio i valori che si vogliono promuovere.

La promozione dei valori della brigata ebraica in Italia, legandoli alle cerimonie della resistenza, è storia recente. Recente quanto l’invito, per associazioni o esponenti palestinesi, a partecipare a iniziative o celebrazioni riguardanti la resistenza. Qui è inutile girarci attorno: il conflitto sulla legittimità o meno di esponenti pubblici palestinesi, tipico della vita pubblica dello stato di Israele, è stato esportato, consapevolmente, anche in Italia. E sul terreno delle celebrazioni della resistenza. Eppure l’Italia è un paese che, comunque, ha sempre riconosciuto sia i palestinesi che gli israeliani. Quest’opera di esportazione di conflitti presenti nello stato di Israele è stata fatta in uno dei modi, diciamo, non migliori: creando le condizioni per una delegittimazione di iniziative legate alla memoria della resistenza o della stessa Anpi. Perchè per delegittimare i palestinesi, uno degli obiettivi delle cerimonie della Brigata ebraica, si è finito per delegittimare associazioni antifasciste italiane. Usando una autorità morale e mediatica per dare l’impressione che l’Anpi venisse meno ad uno spirito universalistico di riconoscimento di diritti di tutti. Non solo, sempre per quanto riguarda la Brigata ebraica (intesa come comitato che ne governa la memoria) si è finiti per legittimare correnti di partito che la costituzione, nata dalla resistenza, la volevano stravolgere in senso autoritario. E che sono stati sonoramente sconfitte al referendum popolare del dicembre 2016. Una operazione di delegittimazione, delle organizzazioni antifasciste, e di delegitimazione, di un revisionismo autoritario compiuta, oggettivamente, tramite le iniziative della brigata ebraica che non fanno oggettivamente bene a questo paese.

Ma poi, diciamocelo fino in fondo, quale tipo di memoria storica si vuol promuovere? Non abbiamo visto un atto o letta una parola, dagli esponenti di questa operazione culturale, che si sia levata contro lo sterminio finanziario degli storici nelle università e negli istituti di ricerca di questo paese. Eppure questa è la precondizione per la diffusione di una cultura della registrazione dei fatti, quel tipo di cultura che permise agli Hictchcock il montaggio di un filmato che, incontrovertibilmente, dimostrava l’esistenza dei campi di sterminio e dello scempio epocale li’ commesso. Ma Hitchcock, in questo senso, era ottimista. Pensava che le generazioni a venire avrebbero curato la storia, le fonti storiografiche, la cura documentaria, la spiegazione a partire proprio da queste fonti. Invece, nonostante l’esplosione, tramite digitalizzazione, delle fonti a disposizione del pubblico gli storici, utili analisti e divulgatori di questo materiale, sono stati finanziariamente sterminati. Non solo in questo paese. Ma questo non pare interessare, visto che non ne hanno mai parlato, a operazioni culturali come quelle della brigata ebraica. E anche la demolizione della memoria collettiva, la sua profonda mutazione, trova, in questo genere di promozione culturale, un inutile canale di sfogo nella dimensione dell’obbligo scolastico. Tanto che la stragrande maggioranza dei ventenni-trentenni di oggi, di quelli che hanno la memoria collettiva corta e sono più attenti alle polemiche sui social media, è stata spesso prima, a scuola e sulle questioni della memoria, oggetto di una paludata propaganda istituzionale del tutto inefficace .

Se la parola “risiera” alla stragrande maggioranza dei giovani purtroppo richiama a una serie di ristoranti in tutta la penisola, e non al campo di concentramento di San Sabba, la responsabilità sta anche in tanta pedagogia dello sterminio paludata, e poco attenta ai nuovi linguaggi, della quale iniziative come la brigata ebraica fanno parte. Resta, in questo caso ben praticata, l’occupazione dello spazio simbolico e rituale del 25 aprile da parte di chi governa le cerimonie della brigata ebraica. E sul palco delle autorità, nelle  cerimonie istituzionali ufficiali, la vigenza della legge di Orwell “chi governa il passato governa il presente” significa stare in alto del ranking della politica che conta. Per cui le cerimonie della Brigata ebraica si disinteressano dello sterminio finanziario degli storici, sono inefficaci, quando non nulle, sul piano dell’impatto sulla memoria collettiva ma, in compenso, producono verità da governare sul palco delle istituzioni, per stare in alto nel ranking della politica. Perchè, come ormai è chiaro,  in quei circuiti, chi fa valere la propria versione della storia è in grado di condizionare i riti con i quali il potere isituzionale si riproduce. E la propria versione, spiace dirlo, è quella che serve a creare una seria, perniciosa confusione tra il giorno della memoria e il 25 aprile. Confusione tanto più esercitata quest’anno quando lo stesso Presidente della Repubblica si è intrattenuto più sui temi dello sterminio di massa che della liberazione (considerando che era il 25 aprile). Confusione, riflesso di rapporti di potere mutati anche rispetto a pochi anni fa, che rischia di far scomparire la peculiarità del 25 aprile che è un evento che non commemora tanto uno sterminio ma l’introduzione del pluralismo politico nel nostro paese. Nelle ricorrenze c’è sempre un’ecologia da rispettare: indebolendo la ricorrenza della Liberazione, e dell’istituzione del pluralismo politico, resta la sola dimensione del lutto. La storia non  rivela più il lieto fine, non quello dei film ma di un processo storico che vuol insegnare al presente. Si perde così l’insegnamento di Hitchcock sulla capacità di rappresentare i fatti, del resto il racconto collettivo della storia fattuale ha ceduto il passo a quello istituzionale del lutto, e quel segnale di possibilità realizzata di riscatto che contiene il 25 aprile. In poche parole si stravolge ciò che quel periodo chiedeva, alle generazioni successive, per essere trasmesso: attenzione ai fatti piuttosto che alla retorica, memoria collettiva piuttosto che cerimonie ufficiali, pluralismo culturale, per rappresentare al meglio le reti di vicende che hanno composto la seconda guerra mondiale, piuttosto che insistenza su un solo aspetto per quanto dolorissimo. Oltretutto, quando si segue la regola Orwell di  governare il passato per stare nelle reti di potere nel presente, si crea quell’effetto di monopolio della verità che non è salutare per nessun tipo di democrazia.

Se si guarda a quanto detto dalla sottosegretario Boschi sul palco della commemorazione del 25 aprile, quello dove era presente la Brigata ebraica, il discorso è chiaro. La sottosegretario ha detto testualmente “qui c’è la verità qui ci sono i veri partigiani”. Insomma, si vuol creare, con questa vicenda, il classico monopolio del vero, e chi detiene la verità detiene potere, che vuol legittimare il ceto dirigente che governa questo monopolio come il punto più alto del ranking politico.

In questa confusione, di date e di ruoli sociali, esce però la differenza tra il metodo Hitchcock e l’autoritarismo della verità . La democrazia, e la libertà, non esistono se qualcuno ha il monopolio della verità sui di fatti storici e quindi, in ultima istanza, sulla politica. La democrazia si difende, sconfiggendo il revisionismo e le pulsioni autoritarie, quando un’intera società ha linguaggi e strumenti a disposizione per capire e rappresentare i fatti. Trovando un Hicthcock che esalta questi strumenti. Altrimenti, nonostante si legittimi attraverso la commemorazione eventi della storia democratica di questo paese, riproduce l’effetto Orwell di una società passiva, senza strumenti, che accetta ciò che è vero solo quando qualcuno ha il potere di dirlo. In apposite cerimonie ufficiali. Esattamente il contrario dell’insegnamento del ’45. E le parole, offensive, rivolte ai critici di cerimonie come quelle della Brigata Ebraica (ci riferiamo all’accusa di antisemitismo, spesso abusata e offensiva se rivolta a dei democratici) non spostano di un millimetro il problema. Siamo di fronte a cerimoniali che servono per il posizionamento nei riti di potere istituzionale, non hanno impatto nè per la ricerca nè per la società e creano quell’effetto “monopolio della verità” che poco ha a che vedere con lo sviluppo di un tessuto culturale democratico del paese.,

E’ evidente che va ristabilita la pluralità e l’ecologia della differenza delle feste e delle ricorrenze. La vivacità del pluralismo è uno strumento utile in una società indifferente. Ma con una cultura delle sinistre sempre sulla difensiva, mai innovativa nei linguaggi e nella coltivazione dell’immaginario, balcanizzata dai protagonismi, è difficile si possa fare qualche passo in avanti.

Certo, se un domani, nelle cerimonie ufficiali, l’Europa in tv sarà rappresentata come sostanzialmente libera grazie allo stato di Israele, La liberazione di Auschwitz impossibile senza l’esistenza degli americani e Moshe Dayan celebrato come colui che ha impedito uno sbarco di massa dell’integralismo islamico non ci sarebbe niente a sorridere. Sarebbe il nostro mondo in cui  un altro tipo di revisionismo si sarebbe fatto prima verità storica , poi rito istituzionale e infine un qualcosa di seriamente autoritario.

Fonte: www.senzasoste.it

Link: http://www.senzasoste.it/brigata-ebraica-quella-confusione-cercata-giorno-della-memoria-festa-della-liberazione/

27.04.2017

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