A COLPI DI PROZAC CONTRO L'ANTISEMITISMO

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L’assoluzione ebraica per l’integralista Mel Gibson

DI SLAVOJ ZIZEK
Il Manifesto

Dopo le frasi antiebraiche dell’attore australiano, nel paese del «politically correct» l’antisemitismo è ridimensionato a malattia mentale. Prove tecniche di un patto tra due fondamentalismi per evitare la critica alle rispettive ideologie

Ai bei tempi dell’Unione sovietica, l’Istituto Serbsky di Mosca era il portabandiera della psichiatria al servizio della repressione del dissenso politico; i suoi psichiatri avevano messo a punto dolorosi metodi farmacologici per far parlare i detenuti e strappare loro testimonianze da usare in indagini sulla sicurezza nazionale. La possibilità per gli psichiatri di incarcerare le persone riposava su un disturbo mentale di loro invenzione, la «vyalotekushchayaâ» («schizofrenia latente»). Secondo la definizione degli psichiatri, la maggior parte del tempo la persona appariva piuttosto normale, ma poteva esplodere dando luogo a un caso grave di «inflessibilità di convinzioni», o di «sfinimento nervoso causato da sete di giustizia», o di una «tendenza al conflitto» o di «deliri di riformismo». Il trattamento comprendeva iniezioni endovenose di sostanze psicotrope. La loro somministrazione era talmente dolorosa che i pazienti perdevano conoscenza. La convinzione imperante era che una persona dovesse essere pazza per opporsi al comunismo.

Questo approccio psichiatrico a posizioni politicamente problematiche è un fenomeno del passato?
Purtroppo no: non solo l’Istituto Serbsky prospera oggi felicemente nella Russia di Putin, ma, come indica il recente episodio che ha visto protagonista Mel Gibson, aprirà presto una filiale a Malibù.
Ecco come Gibson ha descritto quanto gli è accaduto venerdì 28 luglio 2006. «Guidavo una macchina quando non avrei dovuto farlo, e sono stato fermato dai poliziotti della Contea di Los Angeles. Lo sceriffo che ha eseguito l’arresto stava solo facendo il suo lavoro e mi ritengo fortunato ad essere stato fermato prima che potessi arrecare un danno a chiunque altro. Al momento del mio arresto mi sono comportato come una persona che ha completamente perso il controllo, e ho detto cose che non ritengo vere e che sono deprecabili». Secondo quanto riferito dai media, Gibson avrebbe detto: «F….. ebrei… Gli ebrei sono responsabili di tutte le guerre del mondo» e avrebbe chiesto a un poliziotto: «sei ebreo?»

Le scuse rifiutate

Gibson si è scusato, ma le sue scuse sono state respinte dalla Anti-Defamation League. Ecco cosa ha scritto il direttore Abraham Foxman. «Le scuse di Mel Gibson denotano assenza di rimorso e sono insufficienti. Non sono scuse appropriate perché non vanno all’essenza del suo fanatismo e del suo antisemitismo. Le sue invettive rivelano infine la sua vera personalità e dimostrano la falsità delle sue parole, quando nell’ambito del dibattito sul film La passione di Cristo si professava tollerante e animato da sentimenti di amore».
In seguito Gibson ha offerto delle scuse più sostanziose, annunciando attraverso un portavoce la sua intenzione di sottoporsi a un trattamento riabilitativo per abuso di alcol. «L’odio, di qualunque tipo esso sia, va contro la mia fede», ha aggiunto. «Non sto semplicemente chiedendo perdono. Vorrei fare un passo ulteriore, e incontrare i leader della comunità ebraica con i quali avere un confronto diretto e individuare così il percorso appropriato per sanare (LA FERITA)». Gibson ha detto che intende capire «da dove sono venute quelle parole cattive mentre ero ubriaco». Questa volta Foxman ha accolto le sue scuse come sincere: «due anni fa, mi fu detto dal suo addetto stampa che Gibson voleva incontrarmi, voleva che ci spiegassimo. Lo sto ancora aspettando. Non c’è un corso, non c’è un curriculum. Abbiamo bisogno di una conversazione approfondita. Questa è una terapia, e in qualunque terapia il passo più importante è ammettere di avere un problema: passo che egli ha già compiuto».
Perché perdere il nostro tempo prezioso su un episodio così volgare? Per un osservatore dei trend ideologici negli Stati uniti, questi eventi mostrano una dimensione da incubo: lascia senza fiato l’ipocrisia delle due parti che si rinsaldano reciprocamente, i fondamentalisti cristiani antisemiti e i sionisti. Politicamente, la riconciliazione tra Gibson e Foxman segnala un patto osceno tra fondamentalisti cristiani antisemiti e sionisti aggressivi che trova espressione nel crescente sostegno dei fondamentalisti allo stato di Israele (si pensi all’affermazione di Pat Robertson secondo cui l’infarto di Sharon sarebbe stato una punizione divina per il ritiro da Gaza). Il popolo ebraico pagherà a caro prezzo simili patti col diavolo. Riusciamo a immaginare come l’offerta di Foxman favorirà l’antisemitismo? «Così adesso, se critico gli ebrei, sarò costretto a sottopormi a trattamento psichiatrico».
E’ evidente che sotto questa riconciliazione finale c’è un osceno do ut des. Foxman non ha reagito alle invettive di Gibson in modo troppo severo, né ha preteso troppo; al contrario, la sua reazione ha tolto dall’imbarazzo Gibson fin troppo facilmente. Egli ha accettato il rifiuto di Gibson di assumersi fino in fondo la responsabilità delle sue parole (delle sue frasi antisemite): non erano veramente sue, è stata la patologia, una forza sconosciuta che ha preso il sopravvento su di lui per effetto dell’alcol. Ma la risposta alla domanda di Gibson – «da dove sono venute quelle parole cattive?» – è ridicolmente semplice: esse sono parte integrante della sua identità ideologica, forgiata (per quanto possiamo dire) in larga misura da suo padre. Sotto le parole di Gibson non c’era la pazzia, ma un’ideologia ben nota (l’antisemitismo).
A Gibson non serve una terapia. Non gli serve ammettere di «avere un problema», ma dovrebbe assumersi la responsabilità di ciò che ha detto. Dovrebbe cioè interrogarsi sul modo in cui le sue invettive sono legate alla sua versione del cattolicesimo, e funzionano come suo osceno rovescio.
In altre parole, la sua ipocrisia è una replica in scala ridotta della reazione ipocrita della Chiesa cattolica nei confronti della pedofilia che prospera tra le sue file. Quando i rappresentanti della Chiesa insistono che questi casi, pur deprecabili, sono un problema interno alla Chiesa, e mostrano una grande riluttanza a collaborare con la polizia nello svolgimento delle indagini, in un certo senso hanno ragione: la pedofilia dei preti cattolici non riguarda esclusivamente quelle persone che, per ragioni accidentali legate alla loro storia privata, senza relazione con la Chiesa come istituzione, hanno finito per scegliere la professione di prete. Questo fenomeno interessa la Chiesa cattolica come tale, è inscritto nel suo stesso funzionamento in quanto istituzione socio-simbolica. Non attiene all’inconscio «privato» di singoli individui, ma all’«inconscio» dell’istituzione stessa: non accade perché l’istituzione deve adattarsi alle realtà patologiche della vita libidica per sopravvivere, ma è qualcosa di cui l’istituzione stessa ha bisogno per riprodursi. Possiamo ben immaginare un prete «retto» (non pedofilo) che, dopo anni di sacerdozio, resti coinvolto in episodi di pedofilia perché è la logica stessa dell’istituzione a sedurlo in questo senso.
Un simile inconscio istituzionale designa il rovescio osceno e disconosciuto che, proprio perché disconosciuto, sostiene l’istituzione pubblica. In altre parole, non siamo semplicemente di fronte al fatto che la Chiesa, per ragioni di conformismo, cerca di mettere a tacere gli imbarazzanti scandali sulla pedofilia: nel difendere se stessa, essa difende il suo osceno segreto più riposto. L’identificazione con questo lato segreto è un elemento cruciale dell’identità di un prete cristiano: se denunciasse simili scandali seriamente, e non solo in modo retorico, costui si escluderebbe dalla comunità ecclesiastica, non sarebbe più «uno di noi» (allo stesso identico modo, un abitante di una città del sud degli Usa negli anni ’20 del Novecento, se denunciava alla polizia il Ku Klux Klan, si escludeva dalla sua comunità di appartenenza, ossia ne tradiva il legame fondamentale di solidarietà). Perciò la risposta alla riluttanza della Chiesa non dovrebbe limitarsi all’osservazione che siamo di fronte a dei reati e che, non contribuendo appieno alle indagini, essa se ne rende complice a posteriori: la Chiesa come tale, come istituzione, va indagata quanto al modo in cui sistematicamente crea le condizioni perché tali reati si verifichino.

Psichiatri dell’antisemitismo

Offrendosi di affrontare le invettive di Gibson come un caso di patologia individuale che necessita di un approccio terapeutico, Foxman non ha solo commesso lo stesso errore di coloro che vogliono ricondurre i casi di pedofilia a patologie individuali. Cosa ben peggiore, egli ha contribuito a far rivivere il modo, tipico dell’Istituto Serbsky, di affrontare atteggiamenti politici e ideologici alla stregua di fenomeni che necessitano di un intervento psichiatrico. Così come i metodi dell’Istituto Serbsky si basavano sulla convinzione imperante che una persona dovesse essere pazza per opporsi al comunismo, l’offerta di Foxman presuppone che una persona debba essere pazza per essere antisemita. Questa facile scappatoia ci consente di evitare la questione chi
ave: e cioè che l’antisemitismo, nelle nostre società occidentali, era ed è non l’ideologia mostrata da persone folli, ma l’ingrediente di atteggiamenti ideologici spontanei di persone perfettamente sane di mente, della nostra stessa sanità mentale ideologica.
Questo, dunque, è il punto a cui siamo oggi: una triste scelta tra Gibson e Foxman, tra l’osceno fanatismo delle posizioni fondamentaliste e la riduzione non meno oscena di posizioni problematiche a casi di pazzia da curare.

Slavoj Zizek
Fonte: www.ilmanifesto.it
13.08.06

Traduzione a cura di MARINA IMPALLOMENI per Il Manifesto

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