2016: l’agonia dell’ordine mondiale “liberale”

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DI FEDERICO DEZZANI

federicodezzani.altervista.org

Il 2016 volge al termine e non ha disatteso le nostre previsioni: avevamo promesso un anno ad alta tensione e così è stato. Attentati terroristici, assalti speculativi, operazioni sporche dei servizi, putsch militari, consultazioni dagli esiti sorprendenti, lampi di guerra, hanno scandito i dodici mesi appena trascorsi: dopo averli esaminati uno per uno, è il momento di inquadrali in un’analisi complessiva. Nel corso del 2016 l’ordine mondiale “liberale”, uscito dall’ultima guerra e basato sull’egemonia angloamericana, è entrato ufficialmente in agonia, dopo un periodo di crisi iniziato con il crack di Lehman Brothers: la ribellione dell’elettorato all’agenda dell’élite, alias “il populismo”, e l’emergere di nuove potenze ordinatrici hanno decretato l’ingresso del sistema internazionale post-1945 nella fase terminale.

Un 2016 che non ha “deluso le aspettative”

Anche il 2016 sta volgendo al termine, in ossequio al vecchio calendario gregoriano: è una delle poche caratteristiche che accomuna l’anno uscente con quelli precedenti. Il 2016 non è stato, infatti, “come gli altri”: è stato più agitato, inquieto e torbido di quelli passati, sebbene il concetto di “normalità” si sia molto allargato nell’ultimo periodo e l’opinione pubblica abbia ormai fatto il callo ad una serie di avvenimenti “eccezionali”: crisi finanziarie, attacchi terroristici, lampi di guerra, putsch militari, etc. etc. Dopo il già movimentato 2015, l’impresa di impressionare ancora era difficile, eppure l’anno uscente ci è riuscito.

Chi segue questo blog, non può dirsi completamente sorpreso: avevamo sin dall’inizio del 2016 pronosticato un anno “tempestoso” e la nostra facile profezia si è avverata. Un particolare accento è stato sempre posto sulle cause di questa “burrasca internazionale”, di cui gli attacchi dell’ISIS, i colpi di Stato e le guerre finanziarie sono stati soltanto “i fulmini”: abbaglianti e spaventosi, ma effimeri e sfuggenti, poco utili per formulare analisi di ampio respiro. Più volte abbiamo sottolineato come le vere ragioni della “tempesta”, la dinamica di fondo utile a spiegare ed anticipare gli avvenimenti, fosse e sia il progressivo sfaldamento dell’ordine internazionale uscito dall’ultima guerra mondiale e rafforzatosi provvisoriamente nel 1991 col collasso dell’URSS: è la dissoluzione del mondo unipolare a guida angloamericana, di cui l’Unione Europea e la globalizzazione sono alcune delle massime espressioni.

L’ordine mondiale “liberale”, basato sull’instabile capitalismo anglosassone che vive di bolle speculative continuamente alimentate e fatte scoppiare, entra in crisi nel 2008 con il crack di Lehman Brothers e l’insolvenza dei mutui spazzatura: Washington e Londra constatano di non avere più i mezzi per mantenere l’egemonia globale, soprattutto di fronte all’emergere di nuove potenze che, a differenza degli anni ’70, non sono più “ghettizzate” da nessun tipo di ideologia. Gli strateghi angloamericani, lungi dal desiderio di gettare la spugna, progettano quindi di “ridisegnare” l’assetto mondiale, in maniera tale da salvaguardare la supremazia delle potenze anglosassoni. Il piano, attuato a partire dal gennaio del 2009 con l’insediamento alla Casa Bianca di Barack Hussein Obama, poggia su tre cardini:

  • abbandono del Medio Oriente, previa destabilizzazione della regione;
  • trasformazione dell’Unione Europea in Stati Uniti d’Europa, così da avere due entità gemelle sulle diverse sponde dell’oceano Atlantico;
  • contenimento delle potenze emergenti, con una serie di trattati economici e militari con le potenze minori.

Cominciano così quegli “anni interessanti” 2008-2016, da noi sintetizzati in un intuitivo diagramma che raccoglie le diverse crisi (economiche, politiche, militari) che si accavallano nel corso degli anni, in un crescendo quasi rossiniano. Già, perché il sullodato piano degli strateghi angloamericani incontra da subito forti resistenze, rendendo cosi necessarie azioni sempre più pesanti e serrate.

Come principale resistenza esterna al blocco atlantico, emerge presto la Russia: prima ostacola il processo di balcanizzazione del Medio Oriente, e poi si sostituisce agli angloamericani come potenza egemone nella regione. Non solo, Mosca si afferma anche come punto di riferimento per tutti i nazionalismi europei che si oppongono alla diluizione degli Stati in un organismo sovranazionale. Seguono, come rappresaglia, il golpe in Ucraina, le sanzioni economiche, il rigurgito di Guerra Fredda, etc. etc. Come principale resistenza interna al blocco atlantico, emergono invece i movimenti populisti: è il rigetto da parte dell’elettorato dell’agenda euro-atlantica e di tutto ciò che essa comporta: globalizzazione, strapotere della finanza, immigrazione incontrollata, cessione di sovranità ad organismi sovranazionali. Tra Mosca ed i movimenti populisti sboccia, ovviamente, un’istantanea simpatia.

I giochi si aprono ufficialmente nel 2011, con la duplice destabilizzazione del Medio Oriente e dell’eurozona, ma è una partita tutt’altro che facile vista la molteplicità degli attori e degli interessi coinvolti: qualsiasi ritardo o fallimento nell’attuazione della strategia, implica necessariamente un indebolimento dell’egemonia angloamericana.

Il massimo sforzo esercitato da Washington e Londra è raggiunto nel 2014, con lo scatenamento dell’ISIS in Medio Oriente ed il putsch di estrema destra che rovescia Viktor Yanukovich in Ucraina. Il 2015 vede il Califfato raggiungere l’apice dell’estensione territoriale ma i suoi successi contengono già i semi della disfatta: Mosca, intimorita dal vacillamento di Assad, invia nel tardo autunno una spedizione militare in Siria. In Europa, poi, le forze centrifughe alzano la testa: la Grecia sembra sul punto di uscire dall’euro nel corso dell’estate, la Francia, in piena ebollizione sociale, è oggetto della classica strategia della tensione, la Germania, colpevole di un eccesso di rigore potenzialmente letale per l’euro, obbliga ad adottare contromisure: è il Dieselgate che affossa Volkswagen e infligge un duro colpo al sistema-Germania. Nel complesso, già il 2015 si chiude con un “ordine liberale” molto malconcio.

Il 2016, definibile come “l’annus horribilis” per l’oligarchia atlantica, è la naturale conseguenza del fallimento della strategia adottata: sfumata la vittoria sui tre fronti (destabilizzazione del Medio Oriente, Stati Uniti d’Europa, contenimento delle potenze emergenti), l’egemonia angloamericana entra palesemente in agonia. La situazione si fa così drammatica che, durante la campagna elettorale per le presidenziali americane, lo scenario di una guerra tra Russia e Stati Uniti sembrerebbe concretizzarsi nel caso di una vittoria di Hillary Clinton: si tratterrebbe di un’extrema ratio, il classico conflitto con cui la potenza egemone declinate tenta di sopraffare quelle emergenti, finché ritiene di averne i mezzi.

Prima di scendere nei dettagli del 2016, proponiamo il nostro diagramma sugli “anni interessanti”, aggiornato al 31 dicembre.

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L’anno uscente è dominato da due appuntamenti elettorali decisivi, svoltisi nei Paesi chiave dell’attuale sistema internazionale: il Regno Unito, dove si è tenuto il referendum sulla permanenza nell’Unione Europea, e gli Stati Uniti, dove gli elettori sono stati chiamati a scegliere il nuovo inquilino della Casa Bianca. In entrambi in casi è andato in onda lo scontro tra l’elettorato in aperta ribellione (i cosiddetti “populisti”) e l’oligarchia al comando. Contrari alla cessione di sovranità a Bruxelles ed alle sue politiche migratorie erano i cittadini inglesi; contrari ad un’altra presidenza sulla falsariga di Barack Obama ed all’ennesimo candidato dei poteri forti, erano i cittadini statunitensi. Attorno al candidato “populista” Donald Trump si raccoglie infatti buona parte della classe media stremata da anni di globalizzazione selvaggia e di crisi economica: mentre Wall Street macina nuovi record e le statistiche ufficiali parlano di un Paese vicino alla piena occupazione, l’economia reale stagna, come testimonia il consumo di elettricità inchiodato sui numeri del 20081 e la cifra record di americani fuori dalla forza lavoro2.

In Inghilterra serve a poco la violenta campagna mediatica per “piegare” l’elettorato: minacce di recessione, disoccupazione, salassi fiscali, perfino di guerra. Neppure un’operazione sporca come l’omicidio della deputata Jo Cox a distanza di pochi giorni dal voto, è utile a spostare i voti a favore della causa europeista: il 23 giugno il referendum inglese sancisce la vittoria del “leave”. Per l’establishment euro-atlantico, che ha proprio nella City di Londra il suo principale bastione, è un colpo durissimo: l’Unione Europea perde per la prima volta un membro, in una congiuntura già drammatica per l’eurozona e per di più un azionista di peso come il Regno Unito, da sempre garante della “vocazione atlantica” delle istituzioni brussellesi. L’ordine internazionale post-1945, basato sui due pilastri NATO-CEE/UE, incassa il primo, doloroso, colpo.

La situazione sarebbe ancora rabberciabile, se a Barack Obama subentrasse un altro esponente dell’élite atlantica, la candidata democratica Hillary Clinton: il controllo della Casa Bianca è fondamentale per tenere a bada le spinte centrifughe nell’Unione Europea ed impedire che la Russia, nuova potenza ordinatrice, colmi il vuoto geopolitico lasciato dall’impero angloamericano in ritirata. La campagna per le presenziali è tra le più sporche di sempre ed il candidato populista Donald Trump è costretto a lottare contro il partito democratico, buona parte di quello repubblicano e le principali corazzate dell’informazione. Si insinua addirittura che Donald Trump, sia al servizio di una potenza straniera, la Russia, e si accusa Mosca di voler interferire con la compagna elettorale, ricorrendo a manipolazioni elettroniche del voto. È tutto inutile, perché il vento del populismo gonfia le vele di Trump: l’8 novembre 2016, vince in maniera netta ed inequivocabile le elezioni.

L’ordine mondiale “liberale” subisce così un altro drammatico colpo, probabilmente quello letale: alla Casa Bianca non siederà più un esponente dell’establishment pronto a tutto pur di puntellare l’impero, ma un “populista” interessato solo a consolidare la sua posizione, dirottando risorse verso l’economia interna, riducendo gli impegni internazionali, ridimensionando la NATO, abbandonando al suo destino l’Unione Europea, trovando, in ultima analisi, un modus vivendi con la Russia. L’intera opera di Barack Obama finalizzata a scavare un fossato incolmabile tra Occidente e Russia vacilla: non sorprende che, a distanza di pochi giorni dal suo addio alla Casa Bianca, il presidente uscente abbia scelto di spendere il suo residuo capitale politico per avvelenare il più possibile i rapporti tra Russia ed USA, espellendo una trentina di ufficiali russi.

Lo sfaldamento del sistema internazionale, a distanza di 71 anni dalla sua nascita, non è però soltanto un prodotto delle consultazioni elettorali nei Paesi “chiave”. Anche le dinamiche in atto alla periferia dell’impero, in Europa come in Medio Oriente, rivestono un ruolo di primo piano.

Nel tentativo di sedare un’opinione pubblica sul piede di guerra a causa della riforma della legge del lavoro e della disoccupazione record, prosegue in Francia la strategia della tensione subappaltata ai servizi israeliani che, dopo uno stillicidio di attentati minori, sfocia nella strage di Nizza del 14 luglio. Ma a preoccupare è sempre l’establishment tedesco: il suo persistente rifiuto di qualsiasi condivisione del debito pubblico nell’eurozona, rende sempre più difficile scongiurare il collasso della moneta unica. Dopo la guerra commerciale a Volkswagen, nel 2016 l’oligarchia atlantica sferra un attacco mirato a Deutsche Bank e, soprattutto, mette la Germania nel mirino del “terrorismo islamico” con una serie di attentati dell’ISIS che culminano con la strage di Berlino di dicembre. Basterà a ricondurre Berlino a più miti consigli? Difficile, perché la situazione dell’eurozona si è fatta sempre più precaria e molti investitori tedeschi scommettono ormai sull’uscita dell’italia dall’euro. Motivo? Le sofferenze bancarie, accumulatesi durante l’eurocrisi, hanno raggiunto un peso insostenibile e l’elettorato dà segni di aperta ribellione, come testimonia la secca bocciatura della riforma costituzionale benedetta dalla Troika.

Il quadro, dal punto di vista angloamericano, è persino più fosco in Medio Oriente dove si consuma la clamorosa espulsione delle vecchie potenze occidentali a beneficio della Russia. L’inizio dell’anno vede Washington e Londra accanirsi in particolare sull’Egitto di Al-Sisi, reo di aver represso la Fratellanza Mussulmana e di flirtare col Cremlino: si comincia con l’omicidio Regeni, utile a rompere i rapporti diplomatici tra il Cairo e Roma, e si prosegue con il disastro aereo del volo Egyptair sulla tratta Parigi-Cairo, un inequivocabile messaggio rivolto a Parigi affinché sospenda i rapporti con Al-Sisi: un pizzino che François Hollande recepisce, considerato che durante l’anno la Francia raffredda i rapporti con l’Egitto ed il suo principale alleato in Libia, il generale Khalifa Haftar. Il governo del Cairo e di Tobruk si allontanano così ulteriormente dall’orbita occidentale ed entrano sempre più in quella russa.

Chi ha anche percepito i mutati equilibri regionali è la Turchia di Recep Erdogan: dopo aver a lungo sostenuto il processo di balcanizzazione della Siria e la proliferazione dell’ISIS, il presidente turco cambia linea quando si capacita dell’isolamento regionale in cui è caduta Ankara e, soprattutto, dell’intenzione angloamericana di creare un Kurdistan a spese della Turchia. Nel mese di luglio, Ankara sonda il terreno per il riavvicinamento a Mosca e la riappacificazione con Damasco: segue a ruota il tentato putsch militare del 15-16 luglio, con cui si cerca di gettare il Paese nella guerra civile. Erdogan, sostenuto probabilmente dai russi, esce però indenne dal golpe e prosegue la sua riconciliazione con il Cremlino: neppure l’assassinio ad Ankara dell’ambasciatore russo Andrei Karlov, un cadavere gettato tra i due Paesi, riusce a minare la rinata sintonia tra Turchia e Russia. Si arriva così alla “tregua generale” in Siria siglata da Mosca ed Ankara il 28 dicembre, a distanza di due settimane dalla liberazione di Aleppo: per gli angloamericani ed i francesi, che tanto avevano scommesso sulla caduta di Assad e sulla balcanizzazione della regione, è il sigillo di questo “orribile” 2016. Per la prima volta dalla caduta dell’impero ottomano, l’Occidente è completamente escluso dal riassetto del Medio Oriente.

L’evoluzione della guerra siriana, non fa che confermare i propositi di quelle potenze che nel corso del 2016 manifestano la volontà di liberarsi dal giogo angloamericano per tessere più proficui rapporti con Mosca e Pechino: pensiamo alla Malesia, che a ottobre ha annunciato l’acquisto di navi militari dalla Cina3 a discapito della cooperazione con gli USA, o alle Filippine di Rodrigo Duterte, il vulcanico presidente che ha annunciato la volontà di interrompere le esercitazioni militari con Washington per stringere maggiori legami con i due pesi massimi dello SCO (Organizzazione di Shanghai per la cooperazione), Russia e Cina. L’unica potenze emergente ad avere subito nel 2016 i colpi di coda dell’impero angloamericano è un Paese a forte penetrazione massonica, dove i servizi atlantici hanno ancora ampi spazi di manovra: stiamo parlando, ovviamente, del Brasile, dove si è concluso con successo il golpe bianco per defenestrare Dilma Rousseff. L’auspicio è che le prossime elezioni possano riportare il Brasile nel novero delle potenze emergenti, dopo la triste parantesi del presidente filo-americano, massone e ricattabile, Michel Temer.

Concludendo, possiamo dire che durante i dodici mesi appena trascorsi ilglobal liberal order”, per usare un’espressione tanto cara alla stampa anglosassone4, è entrato definitivamente in agonia, senza essersi mai davvero ripreso dal crack di Lehman Brothers.

È entrato in agonia perché una quota maggioritaria dell’elettorato occidentale ha stimato che i costi di questo sistema (l’impoverimento generalizzato, la sovversione dei valori tradizionali, la perdita di qualsiasi controllo sui governi, i rischi di una nuova contrapposizione tra blocchi, immigrazione indiscriminata) superassero i benefici: è toccato ai populisti intercettare il malessere della società occidentale. Ma è entrato in agonia anche perché le potenze emergenti hanno saputo offrire un’alternativa al caos in cui gli angloamericani avevano gettato ampie porzioni del globo. Ordine anziché destabilizzazione, aiuti militari anziché terrorismo, infrastrutture anziché cambi di regime, sicurezza anziché sovversione: questa è la ricetta con cui la Russia ha scalzato gli angloamericani in Medio Oriente.

Se l’agonia “dell’ordine mondiale liberale” ha tenuto banco per tutto il 2016, l’ultimo respiro del sistema internazionale vigente sarà esalato nel corso del 2017: insieme a lui spireranno anche gli ultimi superstiti di un’epoca ormai archiviata, dall’Unione Europea al TTP, dall’euro all’ISIS, dalla globalizzazione illimitata alla finanza selvaggia. Gli “anni interessanti” non terminano quindi il 31 dicembre ma si protraggono nel 2017 che incombe. Ma questa, ovviamente, è un’altra storia…

 

Federico Dezzani

Fonte: http://federicodezzani.altervista.org

Link: http://federicodezzani.altervista.org/2016-lagonia-dellordine-mondiale-liberale/

30.12.2016

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