1977 – L'anno di frontiera

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Un interessante post, preso da Indymedia, di un estratto del libro L’orda d’oro, del 1988.

(Ad uso delle giovani generazioni)

Quando lo straordinario é vissuto come ordinario quotidiano allora vuol dire che la rivoluzione é in atto. Questo é il senso di una massima del Che che bene si addice allo
stato d’animo dei protagonisti del movimento del ‘77, l’anno della grande rivolta. Ma il ‘77 é anche l’anno più occultato, più rimosso. Sul versante del potere istituzionale la rimozione ormai decennale (ora quasi trentennale- nota di Truman) esprime il timore di riaffrontare i contenuti di un movimento sociale politico e culturale che si presentò in quell’anno con caratteristiche irriducibilmente rivoluzionarie.

II ‘77 non fu come il ‘68. Il ‘68 fu contestativo, il ‘77 fu radicalmente alternativo. Per questo motivo la versione “ufficiale” definisce il ‘68 come buono e il ‘77 come cattivo; infatti il ‘68 é stato recuperato, mentre il ‘77 é stato annientato. Per questo motivo il ‘77, a differenza del ‘68, non potrà mai essere un anno di facile celebrazione.

Eppure la rimozione del movimento del ‘77 é stata operata anche dai suoi stessi protagonisti. Migliaia di persone hanno interiorizzato gli effetti catastrofici del terrorismo repressivo dello Stato, annullando insieme alla memoria di quel vissuto anche la loro identità antagonista. Al di sopra di queste due rimozioni “volontarie”, l’effetto azzeratore della memoria sociale prodotto dal gigantesco mutamento delle tecnologie comunicative. Ma, nonostante tutto questo, le domande poste dall’ultimo movimento di massa antistituzionale in Italia restano attuali perché irrisolte. “Quale sviluppo per quale futuro?” fu la domanda principale, semplice e terribile nel sintetizzare l’”intuizione” del vivere quel momento come il crinale di un passaggio di trasformazione epocale, reso esplicito dalla crisi e dall’esaurirsi delle regole di relazione e organizzazione sociale basate sul sistema industriale.
La sensibilità di quel movimento fu di avvertire la drammaticità del passaggio obbligato alla società oscura e indecifrabile del post-industriale. Da qui la consapevolezza che il movimento del ‘77 ebbe di cogliere, sul piano dei contenuti, il centro del problema che quel passaggio comportava: il problema del lavoro e delle sue trasformazioni.

La rumorosa irruzione sulla scena sociale del movimento del ‘77, la cui composizione era di studenti, giovani proletari e donne con una collocazione precaria e non garantita nel mercato del lavoro, obbligò gli esperti della sociopolitologia nazionale all’analisi dei suoi caratteri così inediti e indecifrabili. Ma questi soggetti, da subito, non si dimostrarono ben disposti riguardo all’armamentario classico dell’indagine sociologica e psicanalitica, che avrebbe dovuto fare almeno un po’ di luce sulle ragioni della loro devianza dalle regole della “civile convivenza”.

Così, senza dati, cifre ed encefalogrammi a disposizione, ai nostri “esperti” risultò impossibile andare oltre il compito di riempire il loro vuoto di sapere con uno sciorinare ininterrotto di sciocchezze pubblicate per mesi su giornali e riviste, sia indipendenti che di partito.

Questo fino alla discesa, nell’arena del “dibattito”, della seriosa lucidità degli intellettuali del Pci. Toccò ad Asor Rosa, ex operaista, dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia, all’indomani della cacciata di Lama dall’università di Roma, formulare un’analisi compiuta sui nuovi soggetti sociali della rivolta in atto. Questo sforzo riflessivo, che prese il nome di Teoria delle due società, riscosse tanto successo da divenire immediatamente l’analisi ufficiale.

Grosso modo il ragionamento correva su questo filo logico: la crisi determina la disoccupazione da cui i più colpiti sono i giovani, la disoccupazione é emarginazione dal sistema del lavoro produttivo (che é quello della classe operaia di fabbrica), l’emarginazione a sua volta si traduce in disgregazione e disperazione, le quali finiscono nel tradursi in violenza irrazionale e inconsulta. Questi soggetti marginali (marginali sociali in quanto non inseriti nel sistema produttivo centrale di fabbrica), sono appunto la seconda società, cresciuta accanto alla prima, e magari a carico di questa, ma senza trarne vantaggi rilevanti, senza avere uno sbocco e senza un radicamento nella prima società (quella operaia).

Per la cultura industrialista del Movimento Operaio storico la “centralità operaia” é il posto di lavoro fisso nelle fabbriche dei beni di consumo durevoli, per cui i soggetti che non hanno questa collocazione sono necessariamente marginali. A partire da questa lettura, un movimento costituito da questi soggetti, che per di più reclamava la piena autonomia dagli istituti storici del Movimento Operaio (partiti e sindacato), non poteva essere considerato che un pericoloso fenomeno di emarginazione e di parassitismo corporativo, facilmente strumentalizzabile dalle forze reazionarie e conservatrici. Non a caso altre definizioni del movimento coniate da Giorgio Amendola, prestigioso intellettuale del Pci, furono quelle di “neosquadrismo” e “diciannovismo”.

Il giudizio che la sinistra storica diede del movimento del ‘77 aveva quindi i suoi presupposti in un’analisi della composizione di classe che non teneva conto della grande trasformazione dei processi produttivi e della giornata lavorativa sociale messa in moto dalla ristrutturazione operata dalle forze capitalistiche. Questa ristrutturazione, che prese il nome di riconversione industriale, ebbe inizio nel ‘74 (data della crisi del petrolio) e si delineò immediatamente come attacco alla composizione tecnica e politica della classe operaia delle grandi fabbriche.

La cassa integrazione fu il primo potente strumento utilizzato dai padroni per liquidare il ciclo di lotte dell’operaio massa sconvolgendone la rigidità, cioè l’omogeneità materiale e politica da cui traeva le condizioni del suo potere innanzitutto in fabbrica e poi nella società. I primi effetti di questa ristrutturazione si delinearono come costituzione di una rete di decentramento, diffusione, dispersione, fluidificazione nel sociale di parti rilevanti del processo produttivo e riproduttivo.

Nuove figure sociali, tradizionalmente escluse dal mercato del lavoro, vennero assorbite dentro questa rete, in cui le condizioni di lavoro assunsero la caratteristica non normata della semidisoccupazione e del precariato.

Ciò che Partito comunista e sindacato non seppero o vollero capire fu che queste nuove figure precarie e non garantite avevano comunque, direttamente o indirettamente, una funzione produttiva: che la loro natura era operaia in quanto da essi si estraeva plusvalore; che queste figure erano parte costitutiva della nuova composizione di classe che si andava modellando sui ritmi di una metamorfosi del processo produttivo che si configura come contrazione dei tradizionali impieghi manuali a vantaggio di una crescita del lavoro intellettuale massificato.
Invece di rivolgere attenzione a queste nuove figure produttive, prendendo atto del carico di novità che esse esprimevano sul terreno delle esigenze di sviluppo e di organizzazione politica, Partito comunista e sindacato vi contrapposero la più rozza delle analisi, che finiva col bollarle come fenomeno di pericolosa irrazionalità di un nuovo sottoproletariato di massa, a cui contrapporre la razionale saldezza democratica di una classe operaia garantita e arroccata nelle grandi cattedrali industriali a coltivare l’illusoria certezza di reggere l’assedio dell’attacco capitalistico.

Sul piano della politica istituzionale la strategia del compromesso storico del Pci ebbe il suo momento cruciale nel risultato delle elezioni amministrative del ’75, quando conquistò numerosi e importanti enti locali e ancor più l’anno successivo alle elezioni politiche, quando sfiorò il sorpasso della Dc.
Il clamoroso successo elettorale, arrivò sull’onda delle lotte dei movimenti di massa degli anni precedenti, che il partito ritenne di aver ricondotto a funzione di cinghie di trasmissione nel sociale del suo progetto. A questo punto, ponendo la propria candidatura a partito di governo, rivolse tutta la sua tensione alle manovre di alleanza e di trattativa con gli altri partiti.

L’assillo che la legittimità a governare dovesse passare dalla costruzione di un’immagine di credibilità democratica lo spinse ad accettare la contropartita dell’assumersi il ruolo di garante della conflittualità sociale affinché questa fosse ridimensionata, controllata, incanalata e amministrata o disconosciuta, scomunicata e repressa nei suoi aspetti incompatibili con la sopravvivenza del sistema in crisi. Di conseguenza, prioritariamente nei luoghi di lavoro, le organizzazioni e i settori sindacali controllati dal Pci elaborarono una linea che da una parte puntava ad una risoluta eliminazione di ogni opposizione operaia non controllata o controllabile, mentre dall’altra si candidava, nel confronto con i ceti industriali, a forza capace di promuovere la fuoriuscita dalla crisi produttiva.

Il risultato di questo confronto fu l’accettazione da parte sindacale della politica dei due tempi: prima i sacrifici a carico della classe operaia per ristabilire i margini di accumulazione di capitali erosi dalle lotte degli anni precedenti, quindi la ripresa produttiva e un’equa ridistribuzione dei redditi e dei poteri.

Nel ‘77, con questi presupposti culturali e di strategia politica, il Pci e il sindacato si trovarono a fronteggiare l’emergenza imprevista di un movimento costituito da una varietà di soggetti proletari altamente scolarizzati, sensibilissimi nel recepire gli effetti della velocificazione delle trasformazioni di un sistema produttivo indirizzato alla dissoluzione della centralità del lavoro industriale.

Questi soggetti erano il condensato terminale, l’enorme imbuto, in cui confluì l’accumulo di un sapere e di una memoria d’organizzazione di un ciclo ininterrotto di lotte antistituzionali, quindi autonome e radicali, iniziate negli anni Sessanta. Essendo soprattutto il portato storico, il prodotto conseguente dell’operaio massa dal punto di vista del rapporto dialettico con la ristrutturazione capitalistica, questi soggetti si rivelarono altamente aggressivi sul piano delle loro espressioni politiche antagoniste.
Il concetto del rifiuto del lavoro, che aveva attraversato tutti gli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta, aveva finalmente trovato la sua generazione più compiuta, una generazione che di questo concetto faceva il proprio elemento di identità culturale, sociale e politica. Se la ristrutturazione, fluidificando il mercato del lavoro, configurò un nuovo assetto produttivo in cui l’attività lavorativa andava caratterizzandosi come precaria, saltuaria e interscambiabile tra funzioni manuali e intellettuali, i soggetti del ‘77 fecero proprio questo terreno di estrema mobilità tra lavori differenti e tra lavoro e non lavoro, concependo la prestazione lavorativa come dato occasionale piuttosto che fondamento costitutivo della propria esistenza.

Invece che premere e lottare per assicurarsi il posto fisso per tutta la vita, in fabbrica o in ufficio, vennero privilegiate le sperimentazioni sulle forme possibili di alternative al procacciamento del reddito. Per questi soggetti la mobilità nel rapporto con il lavoro divenne, da forma imposta, scelta consapevole e privilegiata rispetto al lavoro garantito delle otto ore al giorno per tutta la vita. I giovani operai già occupati nelle fabbriche, dopo aver misurato l’impossibilità e l’inutilità di resistere al processo di ristrutturazione con la lotta per la salvaguardia del posto di lavoro, si autolicenziarono scegliendo il fronte del lavoro mobile.
E soprattutto per questi comportamenti e per queste scelte, più che per la propensione a praticare la violenza nelle lotte, che i giovani del movimento del ‘77 suscitarono scandalo nelle file del Movimento Operaio storico. Per questi motivi risulta allora comprensibile come, al movimento del ‘77, tutta la tradizione del Movimento Operaio storico, impiantata sull’ideologia del lavoro, non poteva che apparire, oltre che profondamente estranea, anche oggettivamente nemica, nemica del proprio bisogno, reso maturo dallo straordinario sviluppo delle forze produttive, di liberare la vita dalla schiavitù del ricatto del lavoro comandato. E lo scontro fu inevitabile, e fu duro.

Così, nel ‘77, divampò la generalizzazione quotidiana di un conflitto politico e culturale che si ramificò in tutti i luoghi del sociale, esemplificando lo scontro che percorse tutti gli anni Settanta, uno scontro duro, forse il più duro, tra le classi e dentro la classe, che si sia mai verificato dall’unità d’Italia. Quarantamila denunciati, quindicimila arrestati, quattromila condannati a migliaia di anni di galera, e poi morti e feriti, a centinaia, da entrambe le parti.

Queste cifre non possono essere considerate sicuramente come il semplice risultato di una scommessa azzardata del sapere delirante di un manipolo scellerato di cattivi maestri innestato sulle tensioni nichiliste di strati sociali sottoculturati ed emarginati. Questo scontro fu piuttosto un appuntamento obbligato dalla precipitazione di contraddizioni sociali tra le classi che nella crisi generalizzata spingevano a un conflitto diretto e frontale per la rideterminazione di nuove regole di potere.

(Primo Moroni/Nanni Balestrini – L’ORDA D’ORO – SugarCo 1988 )

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