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La Redazione

 

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VENTI ANNI SENZA L'UNIONE SOVIETICA

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A cura di supervice
Il 21 Gennaio 2012
77 Views

DI HIGINIO POLO
El Viejo Topo

La sparizione dell’Unione Sovietica
è una delle tre questioni chiave che spiegano la realtà del XXI secolo. Le altre due sono il rafforzamento della Cina e l’inizio della decadenza nordamericana. La dissoluzione dell’URSS si verificò nel clima di crisi e di scontri che si impadronirono della vita sovietica negli ultimi anni del governo di Gorbachev che, malgrado avesse capeggiato un improrogabile processo di rinnovamento, (all’inizio, reclamando il ritorno al leninismo) avviò una disastrosa gestione del governo e una rozza azione politica che aggravò la crisi e facilitò l’azione degli oppositori del sistema socialista.

Le dispute tra Yeltsin e Gorbachev,
il premeditato e precipitoso smantellamento delle strutture sovietiche e dell’organizzazione del Partito Comunista furono accompagnate da rivendicazioni nazionaliste che iniziarono in Armenia e si estesero a macchia d’olio nelle altre repubbliche dell’Unione, mentre si aggravava la crisi economica, i rifornimenti scarseggiavano e i legami economici tra le differenti parti dell’Unione incominciavano a deteriorarsi. I problemi che dovette affrontare Gorbachev erano molti, e la sua gestione li rese peggiori: l’aspirazione a una maggiore libertà dall’autoritarismo sovietico e un cocktail esplosivo di cattivi raccolti, di un’inflazione galoppante, del calo della produzione industriale, della mancanza di alimenti e medicine, della scarsità di materie prime, di una riforma monetaria introdotta dall’incompetente Valentin Pavlov nel gennaio del 1991, insieme alle ambizioni personali di molti dirigenti politici e agli sconquassi dell’economia socialista e dello stallo della nuova economia privata, aumentarono il malessere della popolazione.

Nel maggio del 1990 Yeltsin divenne

presidente del parlamento (il Soviet supremo) della Federazione Russa,

annunciando il proposito di dichiarare la sovranità della repubblica

russa, contribuendo così all’aumento della tensione e delle pressioni

scissioniste che già premevano sui dirigenti delle repubbliche baltiche.

Poco dopo, nel giugno del 1990, il

congresso dei deputati approvò una “dichiarazione di sovranità”

che proclamava la supremazia delle leggi russe su quelle sovietiche.

Era un siluro indirizzato sulla rotta della grande nave sovietica. Sorprendentemente,

la dichiarazione fu approvata da 907 deputati e solo 13 votarono contro.

Il 16 giugno il parlamento russo, su proposta di Yeltsin, annullò la

funzione dirigenziale del Partito Comunista. Egor Ligachov, uno dei

dirigenti contrari a Yeltsin e alla deriva di Gorbachev, dichiarò che

il processo intrapreso era molto pericoloso e che avrebbe portato al

“crollo” dell’URSS. Furono parole profetiche. Yeltsin, una

volta liquidata l’Unione, nel 1992 trasformò questa data in festa nazionale

russa, mentre, giustamente, i comunisti oggi la considerano un “giorno

nero” per il paese.

Le tensioni nazionaliste svolsero un

ruolo importante nella distruzione dell’URSS; a volte, con oscure operazioni

che la storiografia non ha analizzato ancora con rigore. Un esempio

può essere sufficiente: il 13 gennaio del 1991 ci fu un massacro davanti

al ripetitore televisivo di Vilnius, la capitale lituana. Tredici civili

e un militare del KGB rimasero uccisi e la stampa internazionale etichettò

l’accaduto come una “brutale repressione sovietica“,

come poi titolarono molti giornali.

Il presidente nordamericano George

Bush criticò l’operato di Mosca, mentre la Francia e la

Germania, come la NATO, espressero dure parole di condanna: il mondo

fu inorridito dall’estrema violenza del governo sovietico che si stava

scontrando col governo nazionalista lituano, che in quel momento controllava

il Sajudis, diretto da Vytautas Landsbergis. Sette giorni dopo, il 20

gennaio, una nutrita manifestazione a Mosca chiese le dimissioni di

Gorbachev, mentre Yeltsin li accusava di incitare l’odio nazionalista,

accusa assolutamente falsa. Un’ondata di proteste contro Gorbachev e

il PCUS, in solidarietà coi governi nazionalisti del Baltico, scosse

molte città dell’Unione Sovietica.

Tuttavia, ora sappiamo che, ad esempio,

Audrius Butkevičius, membro del Sajudis e responsabile della sicurezza

nel governo nazionalista lituano, e poi ministro della Difesa, si è

pavoneggiato davanti alla stampa per il suo ruolo nella preparazione

di quegli avvenimenti che avevano l’obiettivo di screditare l’Esercito

sovietico e il KGB: alla fine ha riconosciuto che già sapeva che ci

sarebbero state delle vittime davanti al ripetitore della televisione,

e ora sappiamo che i morti furono colpiti dai cecchini appostati sui

tetti degli edifici visto che gli spari non avevano una traiettoria

orizzontale, come sarebbe avvenuto nel caso di un attacco delle truppe

sovietiche che erano di fronte all’ingresso del ripetitore.

Butkevičius ha riconosciuto anni dopo

che alcuni membri del DPT (Dipartimento di Protezione del Territorio,

l’embrione dell’esercito creato dal governo nazionalista) che si trovavano

sulla torre della televisione, spararono alla folla. Non si cerca di

elaborare una teoria della cospirazione per la caduta dell’URSS, ma

ci furono provocazioni e i piani di destabilizzazione. E ci furono anche

le tensioni nazionaliste, per cui queste provocazioni agirono su un

terreno già fertile, eccitando la passione e lo scontro.

Nel marzo del 1991 ci fu il referendum

sul mantenimento dell’URSS, in questo clima di tensioni nazionaliste.

I governi di sei repubbliche si rifiutarono di organizzare la consultazione

(le tre baltiche che avevano dichiarato già la propria indipendenza,

anche se non era ancora effettiva, e l’Armenia, la Georgia e la

Moldavia) e ciò nonostante l’80 per cento degli elettori sovietici

partecipò, e il 76,4% si espresse a favore della conservazione e il

21,4 votò contro, una quota che comprende le repubbliche dove non fu

convocato il referendum.

Lo schiacciante risultato a favore

del mantenimento dell’URSS fu ignorato dalle forze che lavoravano alla

rottura, dai nazionalisti e dai “riformatori” che controllavano

già buona parte delle strutture di potere, come le istituzioni

russe. Yeltsin, da presidente del parlamento russo, sviluppò un doppio

gioco: non si oppose pubblicamente al mantenimento dell’Unione, ma cospirò

attivamente con altre repubbliche per distruggerla.

In realtà, una delle ragioni, se non

la più importante, per la convocazione del referendum del marzo del

1991 fu il tentativo del governo centrale di Gorbachev di limitare la

voracità dei circoli di potere di alcune repubbliche e, soprattutto,

di frenare la sconsiderata corsa di Yeltsin verso il rafforzamento del

proprio potere, che aveva bisogno della distruzione del potere centrale

rappresentato da Gorbachev e dal governo sovietico. Senza dimenticare

che, nel clima di confusione e scontento, la demagogia di Yeltsin conquistò

molti seguaci.

Così, prima del tentativo di colpo

di stato dell’estate del 1991, Yeltsin riconobbe a luglio l’indipendenza

della Lituania, con una palese provocazione rivolta al governo sovietico

che vide Gorbachev incapace di rispondere. I dirigenti delle repubbliche

vollero consolidare il proprio potere senza dover rendere conto al centro

federale, e per questo avevano bisogno della rottura dell’Unione Sovietica.

Una parte dei sostenitori del mantenimento

dell’URSS facilitò con la propria goffaggine i progressi della

coalizione segreta tra nazionalisti e “riformatori” liberali

che stavano anche ricevendo il sostegno da parte di quei settori dell’economia

privata che iniziarono a prosperare sotto Gorbachev, e perfino dal mondo

della delinquenza che subodorava l’eventualità di prolifici commerci,

per non parlare dei dirigenti del PCUS, come Alexander Yakovlev, che

lavoravano attivamente per distruggere il partito.

Alla vigilia del giorno fissato per

la firma del nuovo trattato dell’Unione, i golpisti fecero la comparsa

con un Comitato statale per la situazione di emergenza nell’URSS. Il

comitato contava sul vicepresidente Guennadi Yanaev, il primo ministro

Pavlov, il ministro della Difesa Yazov, il presidente del KGB Kriuchkov,

il ministro dell’Interno Boris Pugo, e su altri dirigenti, come Baklanov

e Tiziakov. Il fallimento del golpe dell’agosto 1991, favorito

da settori del PCUS contrari alla politica di Gorbachev, servì da volano

per la controrivoluzione e incoraggiò le forze che propugnavano, ancora

senza esprimerlo pubblicamente, la dissoluzione dell’URSS.

L’improvvisazione dei golpisti, malgrado

potessero contare sul responsabile del KGB e sul ministro della Difesa,

giunse addirittura ad annunciare il golpe prima ancora di muovere

le truppe che avrebbero dovuto appoggiarli: non chiusero neppure gli

aeroporti, non requisirono i mezzi di comunicazione, non fermarono Yeltsin

e gli altri dirigenti riformisti, e la stampa internazionale poté quindi

muoversi a suo piacimento.

I servizi segreti nordamericani confermarono

l’incredibile improvvisazione del colpo di stato e l’assenza di importanti

movimenti di truppe che avrebbero potuto sostenerlo. In realtà, la

goffaggine marchiana dei golpisti andò a favore favorevole dei settori

anticomunisti che posero fine all’URSS: anche se asseriscono l’opposto,

la loro azione, come quella di Gorbachev, facilitò la strada ai sostenitori

della restaurazione capitalista.

Dopo il fallimento del golpe,

Yeltsin accelerò i passi: il 24 agosto riconobbe l’indipendenza dell’Estonia

e della Lettonia. E non fu solo Yeltsin a svolgere le prime fasi della

proibizione del comunismo, anche Gorbachev fu incapace di opporsi alle

pressioni della destra. Il 24 agosto del 1991, Gorbachev annunciò le

sue dimissioni da segretario generale del PCUS, la dissoluzione del

comitato centrale del partito e il divieto delle attività delle cellule

comuniste nell’esercito, nel KGB, nel ministero dell’Interno, così

come la confisca di tutte le sue proprietà.

Il PCUS rimase senza organizzazione

e risorse. Non ci furono limiti alla rivincita anticomunista. Yeltsin

proibì la pubblicazione di tutti i giornali e pubblicazioni comuniste.

La debolezza di Gorbachev era già evidente, al punto che Yeltsin, presidente

della repubblica russa, fu capace di imporre ministri di sua fiducia

al proprio presidente sovietico alla Difesa e all’Interno, le posizioni

chiave nella critica situazione di quel momento.

Yeltsin aveva bandito il PCUS in Russia

e pignorato i suoi archivi (che, di fatto, erano le centrali del partito

comunista) e altre repubbliche lo imitarono (Moldavia, Estonia, Lettonia

e Lituania si affrettarono a proibire il partito comunista e chiedere

agli Stati Uniti un appoggio per la loro indipendenza), mentre il sindaco

“riformista” di Mosca pignorò e pose i sigilli agli edifici

comunisti nella capitale. Da parte sua, Kravchuk annunciò il 24 agosto

l’abbandono dal proprio incarico nel PCUS e nel Partito Comunista

Ucraino. Yeltsin, che contava su un importante sostegno sociale, si

astenne accuratamente dal rivelare il suo proposito di restaurare il

capitalismo.

La sfrenata corsa verso il disastro

proseguì nei mesi finali del 1991. Il referendum celebrato

in Ucraina il 1° dicembre del 1991 poté contare sul controllo

dell’apparato di Kravchuk, che fino a pochi mesi prima era il segretario

comunista della repubblica riconvertitosi in nazionalista e guida dell’indipendenza

ucraina.

Dopo i risultati, nel giorno successivo

Kravchuk annunciò il suo veto per firmare il Trattato dell’Unione

col resto delle repubbliche sovietiche. Kravchuk fu il prototipo del

perfetto opportunista, pronto ad adottare qualunque ideologia per conservare

la sua posizione: nell’agosto del 1991, nel tentativo di golpe

contro Gorbachev, non chiarì bene la propria posizione, e non

appoggiò né Yeltsin né Gorbachev, ma dopo il fallimento adottò una

posizione nazionalista, abbandonò il partito comunista e si iniziò

a reclamare l’indipendenza dell’Ucraina. Era un professionista del

potere che intuì gli avvenimenti, pur essendo stato eletto presidente

del parlamento ucraino nel 1990 dai deputati comunisti, dopo il fallimento

del colpo abbandonò il comunismo. A questo punto le cose precipitarono.

Se alcuni mesi prima, il 17 marzo del 1991, la popolazione ucraina aveva

appoggiato a maggioranza il mantenimento dell’URSS (l’83 per cento

votò a favore e solo il 16 per cento contro), la massiccia campagna

del potere controllato da Kravchuk riuscì in un miracolo e, otto mesi

dopo, la popolazione ucraina appoggiò la dichiarazione d’indipendenza

del parlamento al 90 per cento, con una partecipazione dell’84 per

cento.

Yeltsin annunciò, a pretesto, che

se l’Ucraina non avesse firmato il nuovo trattato dell’Unione, non

lo avrebbe fatto neppure la Russia: fu l’esplosione senza controllo

dell’URSS. Alle spalle ci fu un intenso lavoro occidentale: due giorni

dopo il referendum ucraino del 1° dicembre, Kravchuk parlò con Bush

del riconoscimento dell’indipendenza: anche se Washington mantenne una

certa cautela ufficiale per non intorbidire le relazioni con Mosca,

la sua diplomazia e i servizi segreti lavorarono con forza appoggiando

le forze scissioniste.

Anche Ungheria e Polonia, già

diventati paesi satellite di Washington, riconobbero l’Ucraina. Yeltsin

fece il suo, già lanciato nella distruzione dell’URSS. Subito dopo,

fu avviato il piano per dissolvere l’Unione Sovietica, in un’operazione

capeggiata da Yeltsin, Kravchuk e dal bielorusso Shushkevich l’8 dicembre

del 1991 che si riunirono nella residenza di Viskuli, nella riserva

naturale bielorussa di Belovezhskaya Puscha, dove proclamarono la dissoluzione

dell’URSS, affrettandosi di informare George Bush per ottenere la sua

approvazione.

Mancano molte informazioni per indagare

su quell’operazione, anche se i protagonisti viventi, come Shushkevich,

insistono nel dire che la dissoluzione dell’URSS non fu preparata in

anticipo e che fu decisa all’improvviso. Il presidente bielorusso

fu incaricato di comunicare l’accordo a un Gorbachev impotente e superato

dagli avvenimenti – che già sapeva che si sarebbe tenuta la riunione

a Viskuli – e gli rese noto, inoltre, che George Bush aveva acconsentito

alla decisione. La rapida successione degli avvenimenti – la firma del

21 dicembre ad Almaty da parte di undici repubbliche sovietiche dei

verbali per la creazione della CSI, le dimissioni di Gorbachev quattro

giorni dopo e il ritiro simbolico della bandiera rossa sovietica dal

Cremlino – segnarono la fine dell’Unione Sovietica.

In una corsa senza freni di richieste

nazionaliste, molte forze politiche, che erano cresciute difendendo

la perestroika, reclamarono la sovranità e l’indipendenza,

asserendo che la singole repubbliche avrebbero iniziato un nuovo cammino

verso la prosperità e il progresso, senza i limiti dovuti all’appartenenza

all’Unione Sovietica.

Dal Caucaso alle repubbliche baltiche,

passando per Ucraina, Bielorussia e Moldavia (con l’eccezione delle

repubbliche centroasiatiche), la gran parte dei protagonisti di quel

momento si affrettarono a rompere i legami sovietici per impadronirsi

del potere nelle proprie repubbliche.

Un’alleanza tacita tra settori nazionalisti

e liberali (che avrebbero dovuto illuminare la via verso la libertà

e la prosperità), tra vecchi dissidenti, alti funzionari dello Stato

e direttori di fabbriche e agglomerati industriali, opportunisti del

PCUS, dirigenti comunisti riconvertiti a gran velocità per mantenere

il proprio status (Yeltsin l’aveva fatto già, e gli si accodarono Yakovlev,

Kravchuk, Shushkevich, Nazarbayev, Aliev, Shevardnadze, Karimov, eccetera),

settori comunisti disorientati e ambiziosi capi militari disposti a

tutto (perfino a tradire il proprio giuramento, per mantenersi nella

graduatoria o per dirigere gli eserciti di ogni repubblica) confluirono

nell’iniziativa di demolizione dell’URSS.

Con tutto il potere nelle sue mani

e col partito comunista disarticolato e bandito, Yeltsin e i dirigenti

delle repubbliche si lanciarono al recupero del bottino, alla privatizzazione

selvaggia, al furto della proprietà pubblica.

Non ci furono freni. Dopo, per schiacciare

la resistenza verso la deriva capitalista, sarebbe arrivato il colpo

di Stato di Yeltsin nel 1993 che ha inaugurato la via militare al capitalismo,

il sanguinante massacro per le strade di Mosca, il bombardamento del

Parlamento (qualcosa di inaudito nell’Europa dopo il 1945, un fatto

che fece inorridire il mondo, ma che fu appoggiato dai i governi di

Washington, Parigi, Berlino e Londra) e, alla fine, la manipolazione

e il furto delle elezioni del 1996 in Russia, che furono vinte dal candidato

del Partito Comunista, Guennadi Ziuganov.

La distruzione dell’URSS fece cadere

in povertà milioni di persone, distrusse l’industria sovietica, disarticolò

in toto la complessa struttura scientifica del paese, distrusse la sanità

e l’educazione pubbliche e portò all’esplosione di guerre civili in

varie repubbliche, molte delle quali caddero nelle mani di satrapi e

dittatori.

È lampante che ci fosse un’evidente

insoddisfazione tra una parte importante della popolazione sovietica,

insoddisfazione che affondava le radici negli anni della repressione

stalinista e che si acutizzò per l’ossessivo controllo della popolazione,

e, ancor di più, per la disorganizzazione progressiva e la mancanza

di alimenti e forniture che caratterizzarono gli ultimi anni sotto Gorbachev,

ma la dissoluzione peggiorò tutti questi aspetti. Questa parte di popolazione

era disposta a credere persino le bugie che dilagavano in URSS, diffuse

a volte dai mezzi di comunicazione occidentali.

Nelle analisi e nella storiografia

che si è costruita in questi vent’anni, è stato un luogo comune

l’interrogarsi sulle ragioni dell’assenza di risposta del paese

sovietico di fronte alla dissoluzione dell’URSS. Vent’anni dopo, lo

sguardo d’insieme è più chiaro: l’acutizzazione della crisi paralizzò

buona parte delle forze del paese, le dispute nazionaliste centrarono

il dibattito sui supposti vantaggi della dissoluzione dell’Unione (tutte

le repubbliche, perfino quella russa o almeno i suoi dirigenti, asserirono

che le altre si stavano approfittando delle proprie risorse, che fossero

agricole o minerarie, industriali o dei servizi, e che la separazione

avrebbe provocato il superamento della crisi e l’inizio di una nuova

prosperità) e l’ambizione politica di molti dirigenti, nuovi o vecchi,

verteva sulla creazione di nuovi centri di potere, di nuove repubbliche.

Inoltre, nessuno poteva organizzare

la resistenza, perché i principali dirigenti dello Stato stavano capeggiando

l’operazione di smantellamento (in modo attivo come Yeltsin, o in modo

passivo come Gorbachev) e il partito comunista era stato bandito e le

sue organizzazioni smantellate. Il PCUS si era fuso nel corso degli

anni con la struttura dello Stato, e questa situazione gli dava forza,

ma anche debolezza: quando fu vietato, i milioni di militanti rimasero

orfani, senza iniziativa, e molti di essi rimasero in attesa, impotenti

di fronte ai rapidi cambiamenti.

Nel passato, questi dirigenti opportunisti

(come Yeltsin, Aliev, Nazarbayev, presidente del Kazakistan dalla sparizione

dell’URSS, la cui dittatura ha appena proibito l’attività del

nuovo Partito Comunista Kazako) dovevano agire nell’ambito del partito

unico, e di alcune leggi e di una costituzione che li obbligarono a

sviluppare una politica favorevole agli interessi popolari.

Il collasso dell’Unione mostrò

il suo vero carattere, trasformandosi nel saccheggio della proprietà

pubblica e configurando regimi repressivi, dittatoriali e populisti,

che ricevettero l’immediato appoggio dei paesi capitalisti occidentali.

Con una sinistra ironia, i dirigenti che furono protagonisti del più

grande furto della storia furono presentati dalla stampa russa e da

quella occidentale come “progressisti” e “innovatori”,

mentre chi cercò di salvare l’URSS e di mantenere le conquiste sociali

della popolazione furono ostracizzati come “conservatori”

e “immobilisti”.

Questi progressisti si sarebbero poi

lanciati verso una sfrenata predazione delle ricchezze pubbliche, rubando

a piene mani, con i “liberatori” e i “progressisti”

che avrebbero guidato la più grande truffa della storia e un massacro

di dimensioni terrificanti, non solo per il bombardamento del Parlamento,

ma anche per un’operazione di ingegneria sociale (la privatizzazione

selvaggia) che ha causato la morte di milioni di persone.

Un aspetto secondario del tema di cui

ci stiamo occupando, ma rilevante per le implicazioni nel futuro, è

la questione di chi guadagnò dalla sparizione dell’URSS. Naturalmente,

non fu la popolazione sovietica che, vent’anni dopo, ha ancora un

tenore di vita inferiore a quello che aveva raggiunto sotto l’URSS.

Tre esempi possono bastare: la Russia aveva centocinquanta milioni di

abitanti, e ora ne ha appena centoquarantadue; la Lituania che contava

nel 1991 tre milioni e settecentomila abitanti, ora raggiunge solo i

due milioni e mezzo; l’Ucraina, che ne aveva cinquanta milioni, oggi

arriva a quarantacinque. Oltre ai milioni di morti, la speranza di vita

è diminuita in tutte le repubbliche. La sparizione dell’URSS fu una

catastrofe per la popolazione che cadde in mani di delinquenti, di satrapi,

di ladri, molti dei quali ora riconvertiti in “rispettabili

imprenditori e politici“. Gli Stati Uniti si affrettarono a

cantare vittoria, e tutto sembrava indicarlo: il suo principale rivale

ideologico e strategico aveva smesso di esistere. Ma, se Washington

guadagnò sul momento, la sua disastrosa gestione di un mondo unipolare

diede inizio alla propria crisi: la sua decadenza, anche se relativa,

è un fatto e il ripiegamento militare in tutto il mondo si aggraverà,

a dispetto dei voleri dei governanti.

Vent’anni dopo, l’Unione Sovietica

è ancora presente nella memoria dei suoi cittadini, tanto tra i veterani

come tra le nuove generazioni. Olga Onoiko, una giovane scrittrice di

ventisei anni che ha guadagnato il prestigioso premio Debut,

ha affermato alcuni mesi fa, con un’ingenuità che rivela anche la coscienza

di una gran perdita: “L’Unione Sovietica appare nella mia mente

come un paese grande e bello, un paese soleggiato e festante, il paese

dei sogni della mia infanzia, con un chiaro cielo azzurro e bandiere

rosse che sventolano.” Da parte sua, Irina Antonova, una donna

eccezionale di ottantanove anni, direttrice del celebre Museo Pushkin

di Mosca, ha aggiunto: “L’epoca di Stalin fu un momento duro

per la cultura e per il paese. Ma poi ho visto, tempo dopo, un gran

paese che si è perso in modo involontario e non necessario. […] A

volte mi dico che voglio solo andare all’altro mondo dopo aver visto

di nuovo un germoglio di qualcosa di nuovo, qualcosa di realmente nuovo.

Un Picasso che trasformi questa realtà

dall’arte, dalla bellezza e dall’emozione umana. Ma la cultura di massa

ha divorato tutto. Ha abbassato il nostro livello. Anche se passerà.

È solo un periodo brutto. E lo supereremo.

**********************************************

Fonte: Veinte años sin la URSS

11.01.2012

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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