Quando entra in ballo il Pentagono, la parola da usare è guerra. Che non sarà magari quella dei fucili e dei cannoni ma sarà comunque una guerra, senza esclusione di colpi. Dalle parti della Casa Bianca, infatti, sono comparse nelle scorse settimane due liste. Una “bianca”, compilata dal Dipartimento di Stato, e una “nera”, compilata appunto dal Pentagono. Le due liste sono complementari. Quella del Dipartimento di Stato elenca i buoni, quella del Pentagono i cattivi.
Cominciamo dalla lista bianca. Essa è stata redatta da un gruppo di venticinque esperti che il Center for Stategic and International Studies (CSIS) ha convocato da aziende e centri di ricerca di Europa, Asia e Ovviamente Usa. Questi, a loro volta, hanno lavorato sulla base delle cosiddette Proposte di Praga, elaborate nella capitale ceca nel 2019 a conclusione di un convegno dedicato a 5G (il sistema che dovrebbe rivoluzionare comunicazioni e connessioni) e sicurezza. Protagonisti di quel convegno i rappresentanti di trenta Governi, oltre a capitani d’industria ed esponenti dell’Unione Europea e della Nato. I lavori produssero un lungo testo, le Proposte di Praga, appunto, con le regole e i principi che ogni Paese dovrebbe osservare nell’implementare sul proprio territorio la tecnologia G5. Ultimo passaggio: il 29 aprile di quest’anno Mike Pompeo, il segretario di Stato Usa, ha annunciato che tutte le comunicazioni in entrata e in uscita dalle sedi diplomatiche americane nel mondo avrebbero dovuto avere una certificazione Clean Path (Percorso pulito), cioè fossero trattate solo da operatori di fiducia e non avessero nulla a che fare con aziende come le cinesi ZTE e Huawei.
La lista bianca del Dipartimento di Stato è il logico sviluppo di quelle tappe. Essa infatti elenca i Paesi che hanno accettato di non aver nulla a che fare con le compagnie cinesi messe all’indice dagli Usa. Tra gli altri: Repubblica Ceca, Polonia, Svezia, Estonia, Romania, Danimarca e Lettonia. La Grecia, inoltre, ha già ribadito di volersi affidare a Ericsson e non a Huawei per lo sviluppo dell’infrastruttura 5G nazionale. E allo stesso modo elenca le aziende che si sono meritate, in base agli stessi criteri, l’etichetta di Clean Telco, ovvero Compagnia di telecomunicazioni pulita. Orange in Francia, Jio in India, Telstra in Australia, SK and KT in Corea del Sud, NTT in Giappone e O2 nel Regno Unito. Queste compagnie hanno stabilito che non entreranno mai in affari, come scrive il dipartimento di Stato, “con gli strumenti della sorveglianza del Partito Comunista Cinese come Huawei”. A queste si aggiungono le tre maggiori compagnie telefoniche del Canada, che hanno siglato accordi di collaborazione con Ericsson, Nokia e Samsung respingendo le proposte di Huawei, e Telefonica Spagna e Germania, oltre alla Vivo brasiliana.
È facile notare che questa lista bianca è una lista di proscrizione al contrario. Per fare affari con o negli Usa bisognerà ricevere il certificato Clean Telco, cioè dimostrare di aver tagliato i ponti con le aziende cinesi. Altrimenti… Con altrettanta facilità si nota che nella lista bianca non figurano, per ora, aziende italiane o aziende che operano in Italia. Un segnale forse minaccioso perché si sa che gli Usa non hanno gradito le aperture alla Cina, e al progetto della nuova Via della Seta, del nostro Governo.
Ma il quadro si completa solo tenendo conto anche dell’altra lista, quella nera, quella compilata dal Pentagono. Essa presenta venti grandi compagnie cinesi come “aziende militari del Partito Comunista Cinese che operano negli Usa” e le definisce “entità possedute, controllate o affiliate al Governo, alle forze armate o all’apparato della difesa della Cina”. Dalla Aviation Industry Corporation of China (che produce componenti anche per Airbus e Boeing) alle due Chinese Aerospace Science and Technology Corporation e Chinese Arospace Scienze and Industry Corporation (sistemi d’arma e satelliti), dalla China Railway Construction Corporation (ferrovie, tunnel e attrezzature portuali) alla China Mobile Communications (il maggior operatore cinese di telefonia mobile, con 940 milioni di utenti). E poi l’elettronica, la cantieristica, il nucleare, l’informatica. In pratica, l’eccellenza del sistema economico cinese.
Nel trasmettere la lista al Congresso, i portavoce del Pentagono l’hanno definita “un utile strumento per il Governo, le aziende, gli investitori e le istituzioni accademiche degli Usa”. Il sottinteso è chiaro: nessuno di questi soggetti dovrebbe avere a che fare con quelle aziende cinesi.
Tutto questo autorizza a parlare di guerra, come ho fatto nel titolo dell’articolo? Secondo me sì. La lista nera del Pentagono è stata prodotta sulla base del Defense Authorization Act del 1999, la legge di bilancio che stabilisce (sulla base delle necessità strategiche) il budget della Difesa Usa. Dal 1999 a oggi nessuna amministrazione (Bill Clinton, George Bush e Barack Obama) aveva provveduto. Trump sì. E in base alla legge del 1977 chiamata International Emergency Economic Powers, l’attuale Presidente ha il potere di imporre sanzioni alle compagnie incluse nella lista nera.
È più che possibile, però, che la Casa Bianca non sia costretta a tanto. Come già in altri casi (Russia, Iran), basterà far capire alle aziende di tutto il mondo quanto potrebbe costare loro una collaborazione con le aziende cinesi (che è appunto lo scopo della lista bianca) per spingerle a sottostare ai desideri degli Usa. Gli effetti della pressione americana già si vedono. L’Unione Europea ha molto raffreddato le relazioni con la Cina, che ora viene vista come un potenziale rivale piuttosto che come un partner affidabile. E l’India, che ha rapporti tesi con la Cina, ha messo al bando Tik Tok e altre cinquattotto applicazioni prodotte da aziende cinesi perché “impegnate in attività che pregiudicano la sovranità e l’integrità dell’India, la sua difesa interna, la sicurezza dello Stato e l’ordine pubblico”. Sposando cioè in toto le tesi di Trump e dei suoi.
Se la tendenza dovesse proseguire, o addirittura accentuarsi, coinvolgendo per esempio l’Europa, il danno economico e politico per la Cina e per le sue ambizioni sarebbe enorme. E difficilmente Xi Jinping starebbe a guardare senza reagire.
Fulvio Scaglione