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DI PAUL ROGERS
Open Democracy
La dura siccità in gran parte
dell’ Africa orientale è un’emergenza che richiede attenzione immediata.
Segnala una crisi globale: la convergenza della disuguaglianza, dell’insicurezza
alimentare e dei cambiamenti climatici.
La siccità in gran parte dell’Africa
orientale nella metà del 2011 sta causando profondi disagi ai popoli
in difficoltà, quando molti erano già schiacciati dalla povertà e
dall’insicurezza. L’arco delle zone colpite è molto esteso: i due distretti della Somalia che sono stati individuati come
zone di carestia sono la parte più estrema del più vasto disastro che si stende dalla Somalia verso l’Etiopia
e il Kenya settentrionale, ad occidente fino al Sudan e al distretto
di Karamoja nel nord-est dell’ Uganda.I numeri che sono in ballo, nella peggiore
siccità nella regione dagli anni ’50, sono enormi. Almeno 11
milioni di persone sono colpite dal disastro. Nel distretto di Turkana
nel Kenya settentrionale, 385.000
bambini (su un totale di
circa 850.000) stanno soffrendo di una forte malnutrizione (vedi Miriam
Gathigah, “L’Africa
dell’Est: Milioni alla fame di fronte alla brutale siccità”, TerraViva / IPS, 18 luglio 2011).
In Somalia il conflitto tra il movimento islamico Shabaab e il
governo effettivo hanno resi le condizioni ancora più disperate per
le persone coinvolte.
Il più grande campo di rifugiati
al mondo, a nel nord del Kenya, offre una dimostrazione lampante delle
conseguenze della siccità. La popolazione di Dadaab, che era stato
progettato per ospitare 90.000 persone, è arrivata ultimamente a 380.000
– e più di 1.300 altri ne arrivano quotidianamente (vedi Denis Foynes,
milioni a rischio nel Corno d’Africa”, TerraViva
/ IPS, 19 luglio 2011).
Le lezioni della crisi
Ma è sconvolgente il fatto che
questo fa
parte di un fenomeno ricorrente.
Segni evidenti di malnutrizione e di carestia erano già visibili ad
aprile del 2008; tra questi c’erano i fattori climatici, i rapidi
incrementi del prezzo del petrolio, l’aumento della domanda per diete
a base di carne per le comunità più ricche e gli investimenti nei
terreni per la coltivazione dei raccolti per i biocarburanti (vedi “L’insicurezza alimentare
mondiale”, 24 aprile
2008).
Quello che reso questi ingredienti
ancora più devastanti è il fatto, molto frequente, che agiscono
sinergicamente. Il più chiaro esempio fu dato dalla prolungata crisi
alimentare del 1973-74, quando (al suo picco) circa 40 milioni di persone
in trenta paesi furono a rischio. La gravità della situazione era causata
da una combinazione di vari fattori, due a lungo termine e cinque più
immediati.
Gli aspetti a lungo termine era la
relativa mancanza di sviluppo agricolo dagli anni ’50 e il fatto che
molti paesi stessero appena iniziando a registrare
la transizioni demografiche
(per il fatto che avevano il 40% o più della popolazione sotto l’età
di 14 anni). Questi fattori furono intensificati dai problemi a breve
termine: la simultaneità di cattive condizioni atmosferiche (comprese
la siccità settennale nel Sahel e le alluvioni nell’Asia meridionale),
un’enorme incremento dei prezzi del petrolio e dei fertilizzanti,
l’aumento della domanda di carne nelle nazioni del nord, il fallimento
della rivoluzione
verde per ottenere varietà
sufficientemente robuste di raccolti e la speculazione rampante sul
mercato delle commodity che ha forzato in alto in prezzi.
Alla fine la crisi del 1973-74 non si è trasformata in
un verso disastro. La carestia
internazionale fu evitata, anche perché nuovi stati (principalmente
i nuovi produttori di petrolio del Medio Oriente) hanno fornito, pur
tardivamente, abbastanza aiuti. Ma l’aspetto più significativo era
che comunque le riserve mondiali dei grani erano notevoli; giunsero
alla metà delle scorte usuali, ma anche al picco della crisi potevano
soddisfare 100 giorni di rifornimento. Il problema rivelato dalla crisi
era che troppi paesi non riuscivano a produrre abbastanza cibo e non
si potevano permettere i prezzi inflazionati nei mercati locali e nazionali. Il
nocciolo di questa emergenza risiedeva nella povertà e nella marginalizzazione
economica.
Le lezioni di una catastrofe sfiorata non sono state ben
apprese. Il progetto della Nazioni Unite per un maggior incremento della
ricerca e sviluppo nell’agricoltura tropicale cosò l’equivalente
del 2% della spesa
militare mondiale annuale,
mettendo a disposizione meno di un terzo delle somme necessarie.
Da quel momento ci sono stati quattro
decenni di “sviluppo”, con risultati
contrastanti: la ricchezza
mondiale è cresciuta molto, ma la torta più grossa ha beneficiato
1,5 miliardi di persone più ricche nella popolazione globale che le
Nazioni Unite stimano raggiunga i sette miliardi nell’ottobre del
2011. Un mondo molto più facoltoso è sempre più diviso, e ha oggi
quasi il doppio di persone
malnutrite di quante ce
ne fossero nei primi anni ‘70. Questi fatti sono una critica severa
al modo in cui si è evoluto il sistema economico mondiale, e in particolare
della trascuratezza per la sicurezza
alimentare per decine di
milioni delle persone più povere e vulnerabili.
Il fattore climatico
Quello che rende la situazione ancora
più pressante sono gli aggravi dovuti ai cambiamenti climatici
esistenti e a quelli probabili (vedi “Il
pericolo climatico: una corsa contro il tempo”,
13 novembre 2009).
Ci sono prove diffuse che il tasso
di incremento della temperatura nei prossimi decenni sarà ancora
più rapido nelle
fasce tropicali e sub-tropicali,
tre volte di più rispetto alla media di molte altre regioni. Gli effetti
immediati comprenderanno un declino marcato in quelle che Lester Brown ha definito “i serbatoi nel cielo”: le regioni glaciali delle Ande superiori e gli ancora più grandi
bacini ghiacciati presenti nell’Himalaya e nel Karakoram (talvolta definiti
“il terzo polo”) (vedi
Lester R Brown, “L’aumento
delle temperature scioglie la sicurezza alimentare”, TerraViva / IPS, 6 luglio 2011).
Le aree costiere asciutte del Peru
e di altre parti del America sud-occidentale dipendono dai ghiacciai
andini. Ma il valore dei ghiacciai asiatici è enormemente maggiore
dato che alimentano il Gange, l’Indo, il Brahmaputra e altri sistemi
fluviali dai quali centinaia di milioni di persone dipendono per l’approvvigionamento
del cibo. Quando i “serbatoi”
si seccano e la temperatura aumenta, il risultato è un aumento della calura
estiva e lo stress per
le coltivazioni, provocando la caduta delle rese e quindi carenze alimentari.
Queste carenze esistono già ora, come dimostra la crisi africana; con il passo attuale diventeranno molto peggiori
nei prossimi decenni (vedi “Un
secolo in bilico: 1945-2045“,
29 dicembre 2008).
Un grado di adattamento è teoricamente
possibile, non senza miglioramenti tecnologici e cambi politici: migliorando la conservazione dell’acqua
e la produzione di raccolti resistenti alla siccità, oltre a riformare
l’economia mondiale per assicurare una maggiore equità e l’emancipazione
economica (vedi Amartya Sen, Sviluppo
come Libertà [Oxford University
Press, 1999]). Queste innovazioni da sole sarebbero quasi rivoluzionarie,
ma non sarebbero ancora sufficienti a risolvere
i problemi. Tutto ciò
richiede che il cambiamento climatico sia posto sotto controllo attraverso
una “grande
transizione” verso economie
a basso utilizzo di carbone.
La crisi odierna nell’Africa orientale
richiede un’azione
coordinata e immediata per
alleviare la sofferenza
generalizzata. È anche
un favoloso promemoria degli sforzi ben più ingenti necessari qui e
altrove, che sono stati amplificati dalle precedenti decadi di abbandono
e sprechi. La capacità di raggiungere la grande transizione – con
tutto quello che concerne gli standard di vita sostenibili e l’organizzazione
sociale – determinerà se le prossime generazioni del pianeta avranno
una garanzia sul cibo e sulle altre risorse che li potranno far sopravvivere
e costruire esistenze appaganti.
Fonte: http://www.opendemocracy.net/paul-rogers/world-in-hunger-east-africa-and-beyond
21.07.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE
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