di Francesco Benozzo
Dal momento che, storicamente e geograficamente, lo sciamanesimo – inteso come dispositivo di funzionamento sociale e culturale di una comunità – è attestato e riconosciuto in alcune aree, siamo erroneamente portati a credere che esso abbia vissuto e si sia sviluppato esclusivamente in quei luoghi. Da un punto di vista cognitivo ed evolutivo, al contrario, come dimostrano i più recenti studi (1), si tratta di un fenomeno che è giusto interpretare come pertinente a tutta la storia di Homo Sapiens, vale a dire come presente in tutte le civiltà che si sono sviluppate a partire dal Paleolitico superiore. Il problema è semmai di riconoscerne le tracce in maniera sistematica, a partire dall’analisi di fenomeni spesso trascurati dalla ricerca antropologica. Tra questi, rivestono un’importanza straordinaria le attestazioni linguistiche presenti nelle nostre lingue e in particolare nei nostri dialetti (2).
All’epoca in cui, come Australopitechi, scendemmo dagli alberi, cominciando a muoverci come esseri bipedi, iniziammo a sviluppare il nostro linguaggio (3). Tre milioni di anni fa il nostro linguaggio era necessariamente un linguaggio di selva, memore di quando eravamo noi stessi selva. Erano sillabe-foglie, parole-cortecce, frasi-alberi. La lingua comune era una foresta. Il nostro lato selvatico (da silva ‘foresta’) non era ancora il lato oscuro di una wilderness esterna ai luoghi abitati. Il selvatico, dalla radice sel- ‘luce’ (la stessa di Selene, cioè della luna, ‘la splendente’) era invece ciò che portava la civiltà, la ‘luce’ del fuoco, il ricordo dei rami di quando eravamo rami. Era ciò che portava il cibo, la selvaggina. Ed era il luogo dove vivevano le Signore della Selvaggina, le antenate delle dee madri, all’epoca in cui – prima del Neolitico, cioè prima di 9000 anni fa (quando incominciammo a comprenderla osservando gli animali allevati) – non era nota la correlazione tra atto sessuale e procreazione.
Alle Signore della Selvaggina, cioè a quelle creature che, nella credenza preistorica, regolavano e garantivano il rinnovo di scorte della selvaggina, al tempo stesso protettrici degli animali e donatrici di prosperità, rivolgemmo per milioni di anni preghiere propiziatorie, sacrifici e pianti propiziatori, al fine di ottenere una buona caccia e di poterci muovere con sicurezza in un territorio minaccioso. Questo spazio ancora inesplorato era cioè il luogo, poi divenuto sacro, che dovevamo esplorare, vale a dire, in lingua latina, ex-plorare ‘piangere, pregare fuori’ (4). Eravamo cacciatori, esploratori, gli adoratori della selva e delle sue emanazioni oniriche. Le Signore della Selvaggina, come intermediarie tra mondi allora coesistenti, sono da intendersi come le prime sciamane della nostra (prei)storia.
Le tracce linguistiche e dialettologiche di un’antica concezione secondo la quale il canto, la parola poetica, il sogno, la grotta e la guarigione erano parte di un sistema complesso di riferimenti – oggi osservabile appunto solo nelle società sciamaniche a interesse etnografico – sono molteplici. Si pensi a quei verbi che significano al tempo stesso , nei nostri dialetti, ‘guarire’, ‘sognare’ e ‘comporre poesie/cantare’: si possono citare l’occitano endurmìr ‘dormire’ e ‘comporre’, ensongiàr ‘sognare’ e ‘guarire’, il ladino sugner ‘sognare’ e ‘guarire’, il bretone hun ‘sonno’ e ‘guarigione’, il gallese bredwydd ‘sognare’ da *bredw-, anticamente ‘guarire’, lo svedese dialettale söva ‘dormire’ e ‘guarire’, l’olandese dromen ‘sognare’ e ‘guarire’, il finlandese unelma ‘sonno/sogno’ e ‘guarigione’ (5).
Un’altra categoria rilevante è rappresentata da parole che significano tanto ‘poeta’ quanto ‘guaritore’: emiliano bernardòun ‘poeta’ e ‘guaritore tradizionale’, mantovano bernardùn ‘cantastorie’ e ‘mago’, gaelico (Isola di Skye) an choáithe ‘poeta’ e an cheáithe ‘guaritore’, gallese cerdedd ‘guarire’, collaterale al sostantivo cerdd ‘poesia’, ladino garìr un ćànt ‘comporre un canto’, sic. (Vittoria) guariri ‘guarire’ e ‘cantare’ (6). Il termine emiliano vòtra significa ‘guaritrice’ e viene dalla radice indeuropea *uat- ‘essere ispirato, essere posseduto’, alla base di corrispettivi germanici, quali gotico woths, ags. wōd, norr. oðr, tutti col significato di ‘posseduto, ispirato’ (da cui – non a caso – il nome del dio-sciamano Odhinn, Wotan, cioè Odino) e di irlandese fáith e gallese gwawd, entrambi ‘poeta, bardo’ (7).
Esistono poi verbi che significano tanto ‘guarire’ quanto ‘nascondere / stare nascosti’, come il ligure selà, emiliano slèr, veneto selàr, salentino cillare, siciliano ciddari, tutti palesemente connessi al latino. celo, celare ‘nascondere’ e al latino cella ‘cava, cella, grotta’; si tratta della radice indeuropea *kel- ‘nascondere’, che, oltre che nel latino, si continua da un lato nella ricca famiglia germanica che porta all’inglese hell ‘inferno, dimora dei morti’, e dall’altro nel celtico: antico irlandese celim ‘nascondo’, cuile ‘cava’ e cuilean ‘guarigione’ (8). Sullo stesso piano si possono citare quei verbi che significano ‘guarire’ ma il cui primo significato è ‘stare in una grotta’: ad esempio piemontese groté, emiliano grutèr, veneto grotàr, abruzzese gruttare, siciliano gruttari, voci connesse al latino *grupta ‘grotta’, che lasciano facilmente ricostruire una protoforma del tipo *grottare ‘stare in una grotta’ (9).
È evidente che i significati molteplici e sovrapposti di queste parole rimandano a un’origine delle stesse in cui essi facevano parte di un’unica concezione: quando la rivelazione in sogno, magari dormendo dentro una grotta, era tutt’uno con la guarigione e il canto, come ancora oggi si osserva, appunto, nelle comunità dove lo sciamanesimo non è stato soppiantato da altri sistemi di credenze. In questo senso, più che in connessione con la nascita di un’idea animistica del mondo, lo sciamanesimo sarà da intendere come contemporaneo alla (e magari responsabile della) nascita dell’idea di una coscienza. Cioè come forma, esso stesso, di autoconsapevolezza. E ciò che nelle nostre culture appare imparentato con le forme di sciamanesimo etnograficamente note, non è traccia ma essenza, non è persistenza ma presenza originaria, non è influsso ma evoluzione. Viaggiamo, dentro i sogni, ogni volta al modo degli sciamani.
Le società pre-stratificate, e ancora di più quelle pre-neolitiche, non erano società senza lo stato: ciò presupporrebbe che, evolvendosi, esse avrebbero raggiunto un punto in cui uno stato avrebbe obbligatoriamente incominciato a esistere in quanto naturale e necessario riempimento di quel «senza». Allo stesso modo in cui le società a comunicazione orale non sono società senza scrittura, ma società anti-scrittura, pre-scrittura, alternative alla scrittura, ed eventualmente non corrotte dalla scrittura, così le società pre-stratificate erano società anti-stato, pre-stato, alternative allo stato, e in definitiva non corrotte dallo stato. Cosa ci fa lo sciamano in una società anti-stato? La funzione sacerdotale non è forse complementare a quella regale? Non presuppone essa stessa l’esistenza di stratificazioni? Non è essa stessa l’espressione, gerarchicamente appagata, di quella cristallizzazione sociale? Lo sciamano è già presente nel Paleolitico proprio perché non è sacerdote, non è uomo del sacro, non è il professionista della comunicazione estatica tra naturale e soprannaturale.
Lo è diventato successivamente, come affioramento di una parte del vasto corpo che egli aveva, come sopravvivenza di un semplice dito, o addirittura di una falange, rispetto al suo intero corpo, e come metamorfosi di se stesso nel mondo in cui egli ha – apparentemente – perduto la propria centralità. Allo stesso modo in cui il totemismo non è una forma di religione, ma un sistema di credenze che precede qualsiasi forma di religione, così lo sciamano è, molto prima della nascita delle funzioni sacerdotali, un professionista della parola. Egli è in questo senso anti-sacerdote, pre-sacerdote, alternativo al sacerdote, e in definitiva non corrotto dal sacerdote.
Non-sacerdote e non-stato, lo sciamano non è nemmeno guaritore o terapeuta. È diventato anche questo, come è diventato sacerdote. Ma la questione fondamentale, per lo sciamano, non è di guarire la malattia, di riconoscere o interpretare l’inconscio. Lontano da questa concezione dittatoriale dell’ individuo, egli si pone il problema fondamentale, assumendo in sé la funzione che a ciò presiede e rivendicandone le capacità in modo elettivo-misterico, di produrre inconscio, di creare desideri, di espandere l’ immaginario. Lo sciamano non cura le malattie. Egli le narra.
Lo sciamano, allora, non è il residuo di sistemi di credenze primitive. La sua figura in carne e ossa non rimanda a un passato perduto, non ne è la trasformazione. Lo sciamano è una variante riconoscibile (e in qualche territorio riconosciuta in quanto tale dalla comunità in cui opera) di ciò che eravamo milioni di anni fa. I bardi celtici, i trovatori occitani, i poeti tradizionali, le guaritrici di campagna dell’Europa, le lamentatrici funebri dall’Irlanda alla Magna Grecia (10), gli interpreti in forma scritta della grande tradizione di testi legati al viaggio onirico, fino a Dante e oltre Dante, non sono “eredi” degli antichi sciamani, ma, al pari di essi, essenza, presenza originaria, evoluzione di ciò che eravamo (11).
Nonostante i benemeriti sforzi scientifici ed etnoscientifici, ancora fatichiamo a cogliere il senso dello sciamanesimo. Poiché il senso delle cose si scorge, senza vistose eccezioni, appena esse sono scomparse, si tratta di una difficoltà che precede il discorso scientifico e speculativo. Questa difficoltà conferma che lo sciamano è parte di noi stessi e non è ancora scomparso. Negli ultimi dieci anni ho letto oltre quattro centinaia di saggi sullo sciamanesimo. Dai quali, anche quando ho visto vivacemente argomentato il contrario, ho ricavato unicamente prove che non si tratta, banalmente, di un fenomeno circoscritto ai territori in cui è ancora attestato in forma etnograficamente rilevante.
Lo sciamanesimo ha fondato la nostra civiltà, dissolvendo via via la propria forma più visibile e diventando un fenomeno molecolare. E come esistono molecole visuali e sonore che non si confondono con temi e forme pittoriche o musicali ma che, proprio esse, costituiscono il “segreto” di un pittore o di un musicista, allo stesso modo, quando riflettiamo sulle origini dell’Europa, intesa nella sua accezione geoculturale più vasta, più che con i temi e le forme del cristianesimo, dell’islamismo, della civiltà carolingia, della civiltà ellenistica alessandrina, dei vari apparati statali e meta-statali che, in quanto macchine di asservimento, ne hanno segmentato e ne segmentano i territori, siamo costretti a fare i conti, già dalla preistoria, con un’ipotesi diversa e più radicata.
L’ipotesi di cui parlo si può così riassumere: forse il poeta, il poeta-sciamano, non è ospitato dal continente, ma ospita in sé ogni continente. Da cui può emergere un dubbio positivo: forse è proprio nello sciamano, e non nei vari stadi di evoluzione culturale, tecnica e sociale di Homo sapiens (faber, religiosus, politicus, laborans, oeconomicus, ludens, aestheticus, technologicus) che dobbiamo riconoscere il segreto della civiltà eurasiatica (12).
Di Francesco Benozzo per ComeDonChisciotte.org
NOTE-
(1) G. Costa, La sirena di Archimede. Etnolinguistica comparata e tradizione preplatonica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007.
(2) F. Benozzo, Etnofilologia. Un’introduzione, Napoli, Liguori, 2010, pp. 235-322.
(3) F. Benozzo – M. Otte, Speaking Autralopithecus. A New Theory on the Origins of Human Language, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2018.
(4) F. Benozzo – M. Alinei, Dizionario etimologico-semantico della lingua italiana, Bologna, Pendragon, 2015, p. 24.
(5) F. Benozzo, Sogni e onirismo nei dialetti d’Europa: evidenza etnolinguistica di una continuità preistorica, «Quaderni di Studi Indo-Mediterranei» 2, pp. 23-39.
(6) F. Benozzo, Il poeta-guaritore nei dialetti d’Europa, in S.M. Barillari (ed.), La medicina magica. Segni e parole per guarire, Alessandria, Edizioni dell’Orso, pp. 45-55.
(7) F. Benozzo, Lepri che volano, carri miracolosi, padelle come tamburi: una tradizione etnolinguistica preistorica in area emiliana, «Quaderni di Semantica» 57, 2009ì8, pp. 165-84.
(8) F. Benozzo, Malattia e guarigione: tracce di concezioni preistoriche nel lessico uralico e indeuropeo, in C. Corradi Musi (ed.), Sul cammino delle metamorfosi tra gli Urali e il Mediterraneo, Bologna, Carattere, pp. 98-103.
(9) F. Benozzo, Sounds of the Silent Cave. An Ethnophilolgical Perspective on Prehistoric “incubatio”, in G. Dimitriadis (ed.), Soundscape Archaeology, Oxford, Archaeopress, pp. 14-25.
(10) F. Benozzo, Sciamani e lamentatrici funebri. Una nuova ipotesi sulle origini del pianto rituale, in F. Mosetti Casaretto (ed.), Lachrymae. Mito e metafora del pianto nel Medioevo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, pp. 283-301.
(11) F. Benozzo, Sciamani europei e trovatori occitani, in C. Corradi Musi (ed.), Miti e simboli della tradizione sciamanica, Bologna, carattere, 2008, pp. 96-110.
(12) F. Benozzo, Le origini sciamaniche della cultura europea, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015.