DI JOSEPH E. STIGLITZ
Vanity Fair
Dimenticatevi della politica monetaria. Riesaminando la Grande Depressione – la rivoluzione in agricoltura che tolse il lavoro a milioni di persone – l’autore afferma che
gli Stati Uniti stanno ora affrontando e devono gestire un simile passaggio nell’economia “reale”, dall’industria ai servizi, o rischiano una tragica replica di quello che è successo 80 anni fa.
Sono ormai passati cinque anni dallo scoppio della bolla immobiliare, e quattro anni dall’avvio della recessione. Ci sono 6,6 milioni di posti di lavoro in meno negli Stati Uniti rispetto a quattro anni fa. Quasi 23 milioni di americani che vorrebbero lavorare a tempo pieno non riescono a trovare un impiego. Quasi la metà dei senza lavoro sono disoccupati di lungo termine. Gli stipendi stanno precipitando, e gli introiti reali di una tipica famiglia americana sono ora sotto il livello del 1997.Nel 2008 già sapevamo che la crisi sarebbe stata seria. E pensavamo di sapere chi fossero i “cattivi”, le grandi banche della nazione, che con prestiti cinici e scommesse
senza sosta hanno portato gli Stati Uniti sull’orlo della rovina. Le amministrazioni Bush e Obama hanno giustificato i salvataggi, affermando che, solo se le banche avessero potuto maneggiare soldi senza limitazioni – e senza condizioni -, l’economia si sarebbe potuta riprendere. Non abbiamo fatto questo perché amiamo le banche ma perché (ci è stato detto) non potevamo fare a meno dei prestiti da loro resi possibili. Molti, specialmente nel settore finanziario, hanno argomentato che un’azione forte, risoluta e generosa per salvare non solo le banche ma anche i banchieri, i loro azionisti e i loro creditori avrebbe riposizionato l’economia dove era prima della crisi. Nel frattempo, uno stimolo di breve termine, moderato in dimensione, sarebbe stato sufficiente per sostenere l’economia fino a che le banche fossero tornate in salute.
Le banche hanno avuto il loro salvataggio. Una parte dei soldi è finita nei bonus. Poco denaro è stato prestato. E l’economia non ha recuperato di certo; il prodotto è appena maggiore di quando fosse prima della crisi, e la situazione del lavoro è desolata. La diagnosi della nostra condizione e la cura che ne è seguita erano scorrette. In primo luogo, è stato un errore pensare che i banchieri potessero fare ammenda, che avrebbero ripreso a prestare se solo fossero
stati trattati con riguardo. Ci è stato detto: “Non ponete condizioni alle banche per chiedergli di ristrutturare i mutui o per comportarsi più onestamente nei confronti di chi non riesce a
pagare. Non vanno forzate a usare i soldi per concedere prestiti. Tali condizioni potrebbero sconvolgere i fragili mercati.” Alla fine, i manager delle banche si sono guardati tra loro e hanno continuato a
fare quello a cui sono abituati.
Pur avendo sistemato a dovere il sistema bancario, siamo ancora in un mare di guai, perché eravamo già in un mare di guai.
Quell’apparente età dell’oro del 2007 non era certo un paradiso. Sì, l’America ha molte cose di cui essere orgogliosa. Le aziende del campo informatico-tecnologico hanno
trainato una rivoluzione. Ma i redditi per la gran parte dei lavoratori americani ancora non è tornato ai livelli precedenti alla recessione. Il tenore di vita degli americani era sostenuto solo dall’incremento
del debito, un debito così vasto che il tasso di risparmio negli Stati Uniti è sceso quasi a zero. E questo “zero” non ci dice tutto. Siccome i ricchi sono sempre stati in grado di risparmiare una quota significativa del proprio reddito facendoli comparire nella colonna positiva, un tasso medio vicino allo zero significa che tutti gli altri devono avere i numeri in rosso. (Ecco la realtà: negli anni che hanno portato alla recessione, secondo una ricerca fatta dal mio collega alla Columbia University Bruce Greenwald, l’80 per cento dal più basso reddito della popolazione americana ha speso circa il 110 per cento dei propri introiti.) Ciò ha reso possibile questo livello di indebitamento è stata la bolla immobiliare, che Alan Greenspan e poi Ben Bernanke, direttori del Federal Reserve Board, hanno contribuito a creare
grazie ai bassi tassi di interesse e alla mancanza di regole, non usando neppure quelle che avevano a loro disposizione. Come sappiamo, ciò ha abilitato le banche a prestare e le famiglie a prendere in prestito sulla base di beni il cui valore era determinato in parte dall’illusione di massa.
E’ un dato assodato che l’economia negli anni precedenti alla crisi attuale era fondamentalmente debole, con la bolla e il consumo insostenibile che hanno fatto da volano, facendo la funzione di supporto vitale. Senza questi fattori la disoccupazione sarebbe stata molto più alta. È assurdo pensare che sistemare il sistema bancario possa da solo rimettere in salute l’economia. Riportare l’economia “dove era” non fa niente per risolvere i problemi sottostanti.
Il trauma che abbiamo vissuto proprio adesso ricorda il trauma di cui abbiamo fatto esperienza ottanta anni fa durante la Grande Depressione, ed è stato creato da un insieme analogo di circostanze. Allora, come adesso, dovemmo affrontare un crollo del sistema bancario. Ma al tempo, così come adesso, il collasso del sistema bancario fu in parte dovuto a problemi più profondi. Anche se avessimo risposto correttamente al trauma – il fallimento del settore finanziario – ci sarebbe voluto un decennio o più per raggiungere il pieno recupero. Anche con le migliori condizioni, avremmo dovuto subire un Lunga Crisi. Se avessimo risposto in modo scorretto, come abbiamo fatto, la Lunga Crisi sarebbe durata più a lungo e il parallelo con la Depressione avrebbe assunto una nuova e tragica dimensione.
Fino ad ora, la Depressione è stato l’ultimo periodo della storia americana in cui la disoccupazione ha superato l’8 per cento quattro anni dopo l’inizio della recessione.
e mai negli ultimi 60 anni il prodotto è stato appena più alto quattro anni dopo una recessione di quanto non fosse prima del suo avvio. La percentuale di persone occupate è calata del doppio rispetto a ogni
rallentamento che ha avuto l’economia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Non c’è da sorprendersi che gli economisti abbiano iniziato a riflettere sulle similarità e le differenze tra la nostra Lunga Crisi e la Grande Depressione. Ricavarne la lezione giusta non è comunque semplice.
Molti hanno ipotizzato che la Depressione fu causata principalmente dalle troppe rigidità dell’offerta monetaria da parte del Federal Reserve Board. Ben Bernanke, uno studioso della Depressione, ha affermato in pubblico che questa fu la lezione che apprese e la ragione per cui aprì i rubinetti monetari. E li ha aperti parecchio. Iniziando dal 2008, il bilancio della Fed ha raddoppiato e poi triplicato i livelli precedenti. Oggi è di 2,8 trilioni di dollari. Anche se la Fed, facendo questo, potrebbe aver salvato le banche, non è riuscita a sistemare l’economia.
La realtà non ha solo screditato la Fed, ma ha anche sollevato questioni su una delle interpretazioni convenzionali delle origini della Depressione: l’ipotesi secondo cui
è stata la Fed a causare la Depressione ponendo un freno alla moneta, e che se la Fed avesse aumentato l’emissione – in altre parole, se avesse fatto quello che la Fed ha fatto oggi – si sarebbe forse evitata una Depressione in piena regola. In economia, è difficile testare le ipotesi con esperimenti controllati sul modello di quelli utilizzati dalla scienza. Ma l’inefficacia dell’espansione monetaria nel contrastare l’attuale recessione dovrebbe far relegare nel dimenticatoio la possibilità che fosse stata proprio la politica monetaria la principale colpevole negli anni ’30. Il problema oggi, come allora, è un altro. Il problema è la cosiddetta economia reale. È un problema radicato nel tipo di lavori che abbiamo, di cui abbiamo bisogno e che stiamo perdendo, così come nel tipo di lavoratori che vogliamo e con cui non vogliamo avere a che fare. L’economia reale ha avuto una transizione lancinante durata decenni e i suoi dissesti non sono mai stati affrontati a viso aperto. È la crisi dell’economia reale che sta alle spalle della Grande Crisi, come lo fu anche nella Grande Depressione.
Negli ultimi anni io e Bruce Greenwald ci siamo impegnati su una teoria alternativa della Depressione e su un’analisi alternativa di quello che sta oggi debilitando l’economia. Questa analisi ritiene che la crisi finanziaria degli anni ’30 sia stata una conseguenza, non tanto di un’implosione finanziaria, ma di una sottostante debolezza dell’economia. Il collasso del sistema
bancario non raggiunse il suo apice che nel 1933, molto in ritardo rispetto all’avvio della Depressione e molto tempo dopo che la disoccupazione cominciò a mostrare i denti. Nel 1931 la disoccupazione era già vicina al 16% e raggiunse il 23% nel 1932. Le baraccopoli “Hooverville” stavano spuntando come funghi. La causa determinante era dovuta a un cambiamento strutturale dell’economia reale: il declino generalizzato dei prezzi e dei redditi agricoli, provocato da ciò che viene sempre considerata una “cosa buona”, l’aumento di produttività.
All’inizio della Depressione più di un quinto degli americani ancora lavorava nelle fattorie. Tra il 1929 e il 1932 queste persone videro falcidiati i propri redditi tra un terzo e due terzi, e ciò si aggiunse ai problemi che gli agricoltori stavano già affrontando da anni. L’agricoltura fu una vittima del suo successo. Nel 1900 ci voleva una larga fetta della popolazione statunitense per produrre cibo a sufficienza per la nazione. Poi arrivò quella rivoluzione verde che si sarebbe intensificata nel corso del secolo, con semi migliori, migliori fertilizzanti, migliori pratiche agricole, assieme a una meccanizzazione sempre più diffusa. Oggi il 2 per cento degli americani produce più cibo di quanto ne possiamo consumare.
Questa transizione, in ogni caso, comportò la distruzione del lavoro e dei mezzi di sopravvivenza in agricoltura. A causa dell’accelerazione di produttività, il prodotto aumentò più della domanda e i prezzi calarono bruscamente. Fu questo, più di qualsiasi altra cosa, che portò a un rapido calo dei redditi. Gli agricoltori di allora (come i lavoratori oggi) contrassero prestiti in modo massiccio per sostenere il loro tenore di vita e la produzione. Siccome né gli agricoltori né i propri banchieri avevano previsto la rapidità del declino dei prezzi, ne risultò una stretta creditizia. Gli agricoltori non riuscivano a rimborsare quello che dovevano. Il settore finanziario fu sconvolto dal vortice del declino dei redditi agricoli.
Le città non furono risparmiate, tutt’altro. Con il calo dei redditi rurali, gli agricoltori avevano sempre meno soldi per comprare merci prodotte nelle fabbriche. I produttori dovettero licenziare i lavoratori, con un’ulteriore diminuzione della domanda di prodotti agricoli, spingendo ancor più in basso i prezzi. In breve tempo questo circolo vizioso colpì l’intera economia nazionale.
Il valore dei beni (come le case) spesso diminuisce assieme ai redditi. Gli agricoltori furono intrappolati dal declino del proprio settore e da uno scenario depressivo. Il calo dei redditi e della ricchezza rese la migrazione verso le città ancora più difficoltosa; l’alta disoccupazione urbana rese la migrazione meno attraente. In tutti gli anni ’30, malgrado un forte calo dei redditi agricoli, ci fu comunque poca emigrazione. Nel frattempo, i contadini continuarono a produrre, lavorando più duramente per abbassare ancora di più i prezzi. A livello individuale la cosa poteva avere un senso; collettivamente no, dato che ogni incremento di offerta spingeva in basso i prezzi.
Data la dimensione del declino del reddito agricolo, era normale che il New Deal da solo non riuscisse a portare il paese fuori dalla crisi. I programmi erano troppo ridotti
e molti furono abbandonati. Nel 1937 F. D. Roosevelt, assecondando i falchi del deficit, tagliò le iniziative di stimolo, un errore disastroso. Nel frattempo, gli stati e gli enti locali in difficoltà furono costretti a licenziare i dipendenti, come stanno facendo oggi. La crisi bancaria riassume senza dubbio tutti questi problemi e ha esteso e aggravato la flessione. Ma ogni analisi degli sconvolgimenti finanziari deve partire da quello che ha avviato la reazione a catena.
L’Agriculture Adjustment Act, il programma di F. D. R. destinato all’agricoltura che fu progettato per alzare i prezzi col taglio della produzione, può aver facilitato marginalmente la situazione. Ma fu solo con la spesa governativa salita alle stelle a causa della guerra globale che l’America iniziò a uscire dalla Depressione. È importante capire questa semplice verità: fu la spesa del governo – uno stimolo keynesiano, non una qualsiasi correzione di politica monetaria o un rafforzamento del sistema bancario – che ci portò la ripresa. Le prospettive di lungo termine sarebbero, naturalmente, state migliori se la gran parte del denaro fosse stata spesa in formazione, tecnologia e infrastrutture invece che in armamenti, ma anche in questo modo una forte spesa pubblica ha più che compensato la debolezza della spesa privata.
La spesa governativa risolse in modo non intenzionale il sottostante problema dell’economia: completò una trasformazione strutturale necessaria, spostando l’America, e specialmente il Sud, dall’agricoltura alla manifattura. Gli americani di solito sono allergici a termini come “politica industriale”, ma la spesa di guerra non fu nient’altro che questo, una politica che mutò in modo permanente la natura dell’economia. La forte creazione di posti di lavoro nel settore urbano – nella produzione – riuscì a far traslocare le persone dalla campagna. La domanda e l’offerta di cibo tornarono a bilanciarsi: i prezzi dei prodotti agricoli iniziarono a salire. I nuovi migranti in città furono addestrati alla vita urbana e alle competenze dell’industria, e dopo la guerra il G.I. Bill assicurò ai veterani tornati a casa di poter prosperare in una moderna società industriale. Nel frattempo, il notevole numero di lavoratori ancora intrappolati in campagna era tutt’altro che sparito. Il processo fu lungo e doloroso, ma la fonte della difficoltà economica se ne era andata.
I paralleli tra la storia dell’origine della Grande Depressione e della nostra Lunga Crisi sono notevoli. Allora ci spostammo dall’agricoltura alla manifattura. Oggi ci spostiamo
dalla produzione a un’economia di servizi. Il declino degli occupati nella manifattura è stato fortissimo, da circa un terzo della forza lavoro sessant’anni fa a meno di un decimo di quella attuale. Il ritmo
si è velocizzato nello scorso decennio. Ci sono due ragioni per questo declino. Uno è la maggiore produttività, la stessa dinamica che rivoluzionò l’agricoltura e che costrinse la gran parte degli agricoltori americani a cercare lavoro da qualche altra parte. L’altra è la globalizzazione, che ha spedito milioni di impieghi oltre oceano verso paesi a basso reddito o verso quelli che avevano investito maggiormente in infrastrutture o in tecnologia. (Come evidenziato da Greenwald, la gran parte della perdita di posti di lavoro negli anni ’90 era collegata agli aumenti di produttività, non alla globalizzazione.) Quale che sia la causa specifica, l’esito inevitabile è esattamente lo stesso rispetto a ottanta anni fa: un calo dei redditi e degli impieghi. I milioni di disoccupati dapprima impiegati nelle fabbriche di città come Youngstown,
Birmingham, Gary e Detroit sono gli equivalenti dei contadini in rovina della Grande Depressione.
Le conseguenze per la spesa dei consumatori e per la fondamentale salute dell’economia – per non menzionare i preoccupanti costi umani – sono ovvie, anche se siamo riusciti a ignorarle per un po’ di tempo. La bolle nei mercati creditizio e immobiliare avevano mascherato il problema creando una domanda artificiale, che a sua volta aveva creato lavoro nel settore finanziario, in quello edilizio e in tutti gli altri. La bolla ha fatto persino dimenticare ai lavoratori
che i loro redditi erano in declino. Hanno assaporato una possibilità di ricchezza con i loro sogni, proprio mentre il valore delle proprie case saliva e quello delle loro pensioni, investite nel mercato azionario,
sembravano fare lo stesso. Ma questi lavori erano temporanei, alimentati dal nulla.
I macroeconomisti mainstream asseriscono che il vero spauracchio in una flessione non sia il calo degli stipendi, ma la sua rigidità: se solo i redditi fossero più
flessibili (ossia, più bassi) le flessioni si correggerebbero da sole! Ma ciò non fu vero durante la Depressione, e non è vero neppure ora. Al contrario, stipendi e redditi inferiori riducono semplicemente la domanda, indebolendo ancor più l’economia.
Dei quattro maggiori settori dei servizi – finanza, immobiliare, salute e formazione – i primi due erano già saturi prima dello scoppio della crisi. Gli altri due, salute e formazione, hanno da sempre ricevuto un pesante finanziamento governativo. Ma l’austerità delle spese a ogni livello – che avviene quando si tagliano i fondi nei periodi di recessione – ha colpito l’educazione in modo davvero pesante, avendo decimato il settore pubblico nel suo insieme. Circa 700.000 impieghi statali e negli enti locali sono svaniti negli ultimi quattro anni, in modo analogo a quanto avvenuto nella Depressione. Come nel 1937, oggi i falchi del deficit si impuntano su un riequilibrio dei finanziamenti e su sempre maggiori tagli. Invece di spingere verso un’inevitabile transizione strutturale – e di investire in modo corretto in capitale umano, in tecnologia e infrastrutture, che alla fine ci potrebbero portare nella giusta direzione – il governo si trattiene. Le strategie attuali possono avere un solo risultato: ci assicureranno che la Lunga Crisi sarà più lunga e più grave di quanto fosse necessario.
Si possono trarre due conclusioni da questa breve storia. La prima è che l’economia non rimbalza da sola, almeno non in una cornice temporale utile alla gente comune. Sì, tutte le case sgomberate alla fine troveranno qualcuno che ci tornerà a vivere o verranno abbattute. I prezzi in qualche modo si stabilizzeranno e potranno persino cominciare a risalire. Gli americani si adegueranno a un tenore di vita più basso, non solo utilizzando i propri mezzi, ma anche altri mentre lotteranno per ripagare una montagna di debito. Ma il danno sarà enorme. La concezione dell’America come terra di opportunità è già stata duramente erosa. I giovani disoccupati ne sono oramai distanti. Sarà sempre più duro riportare la gran parte di loro sul binario produttivo. Verranno segnati a vita da quello che sta avvenendo oggi. Basta percorrere le valli industriali del Midwest, le piccole città della Pianure o i nodi industriali del Sud per vedere un quadro di declino irreversibile.
La politica monetaria non ci aiuterà a uscire da questo macello. Ben Bernanke lo ha, tardivamente, ammesso. La Fed ha svolto un ruolo cruciale nel creare le condizioni odierne, incoraggiando la bolla che ha portato a un consumo insostenibile, ma ora c’è ben poco da fare per poter mitigarne le conseguenze. Posso comprendere che i suoi membri possano sentirsi in qualche misura responsabili. Ma tutti quelli che credono che la politica monetaria possa resuscitare l’economia verranno brutalmente delusi. Quest’idea è una distrazione, e anche pericolosa.
Quello di cui abbiamo bisogno è introdurre un massiccio programma di investimenti – come abbiamo fatto, praticamente per caso, 80 anni fa – che aumenterà la nostra produttività per gli anni a venire, e che farà incrementare subito l’occupazione. Questo investimento pubblico e la conseguente spinta al PIL aumentano i ritorni degli investimenti privati. Gli investimenti pubblici potrebbero essere diretti a migliorare la qualità della vita e la reale produttività, diversamente dagli investimenti privati nelle innovazioni finanziarie che sono oramai simili ad armi di distruzione di massa.
Riusciremo a fare questo, in assenza di una mobilitazione per una guerra globale? Forse no. La buona notizia (in un senso) è che gli Stati Uniti hanno sotto-investito in infrastrutture, tecnologia e educazioni per decenni, quindi il ritorno da un aumento degli investimenti sarebbe alto, con il costo del credito ai minimi storici. Se prendessimo oggi a prestito per finanziare investimenti ad alto ritorno, il nostro rapporto debito/PIL – la misurazione consueta della sostenibilità del debito – verrebbe notevolmente migliorato. Se simultaneamente incrementassimo le imposte – ad esempio, per l’1% delle famiglie con reddito più alto – la sostenibilità del nostro debito potrebbe migliorare ancora.
Il settore privato da solo non riuscirà a intraprendere la trasformazione strutturale nella scala necessaria, anche se la Fed dovesse tenere i tassi di interesse a zero per i prossimi anni. L’unica maniera possibile è tramite uno stimolo governativo designato non per preservare la vecchia economai, ma per crearne una nuova. Dobbiamo spostarci dalla produzione ai servizi che la gente richiede, in attività produttive che aumentano il nostro tenore di vita, non verso quelle che aumentano rischi e disuguaglianza. Alla fine, ci sono molti investimenti ad alto ritorno che potremmo fare. L’educazione è cruciale e una popolazione altamente formata è un vettore fondamentale per la crescita economica. C’è bisogno di supporto per la ricerca di base. Gli investimenti del governo nei decenni precedenti – ad esempio, per sviluppare Internet e la biotecnologia – hanno alimentato
la crescita economica. Senza investimenti nella ricerca di base, cosa darà forza alla prossima ondata di innovazione? Nel frattempo, gli stati potrebbero certamente utilizzare l’aiuto federale per chiudere il buco nei bilanci. La crescita economica di lungo termine ai ritmi attuali di consumo di risorse è impossibile, quindi finanziare la ricerca, l’addestramento dei tecnici e le iniziative per una produzione
energetica più pulita ed efficiente non solo ci aiuterà a uscire dalla recessione, ma costruirà una robusta economia per decenni. Quindi, le nostre infrastrutture in declino, dalle strade alle ferrovie, dagli argini alle centrali elettriche, sono il primo obbiettivo di un investimento remunerativo.
La seconda conclusione è questa: se ci aspettiamo di conservare una qualche parvenza di “normalità,” dobbiamo sistemare il sistema finanziario. Come già evidenziato, l’implosione del settore finanziario potrebbe non essere stata la causa determinante della crisi odierna ma l’ha resa peggiore, ed è un ostacolo alla ripresa di lungo termine. Le piccole e medie imprese, specialmente quelle nuove, sono per la grandissima parte la fonte di nuovi lavori nell’economia e sono state colpite in modo terribile. Quello di cui abbiamo bisogno è di separare le banche dal business pericoloso della speculazione e riportarle nel noioso alveo dei prestiti. Invece, non abbiamo messo a posto il sistema finanziario. Abbiamo rovesciato soldi sulle banche, senza restrizioni, senza condizioni e senza un’idea del tipo di sistema bancario che vogliamo e che pretendiamo. Abbiamo, in una frase, confuso i mezzi con i fini. Un sistema bancario dovrebbe servire la società, non fare l’opposto.
Aver sopportato una tale confusione di cause ed effetti ci dice qualcosa di terribile su dove erano dirette la nostra economia e la nostra società. L’americano comune a poco a poco sta comprendendo quello che è successo. I manifestanti in tutto il paese, galvanizzati dal movimento Occupy Wall Street, già lo sanno.
Fonte: The Book of Jobs
28.12.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE