Stephanie Kelton – “Il mito del deficit”: prefazione all’edizione italiana

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Riportiamo la prefazione curata dalla professoressa Stephanie Kelton all’edizione italiana del libro, da lei scritto, “Il mito del deficit. La teoria monetaria moderna per un’economia al servizio del popolo” , in libreria dal 3 dicembre 2020. Traduzione italiana del volume a cura di Jacopo Foggi. Ringraziamo la Fazi Editore per la gentile concessione.

Il pericolo non viene da ciò che non conosciamo, ma da ciò che crediamo sia vero e invece non lo è.

– Mark Twain

Care lettrici e cari lettori italiani,

In questo libro utilizzo le lenti della teoria monetaria moderna (Modern Monetary Theory, MMT) per mostrare che, contrariamente a quanto gli economisti mainstream e i politici ci raccontano da decenni, i governi che emettono la propria valuta (che detengono, cioè, la sovranità monetaria) non possono mai “finire i soldi”, né possono diventare insolventi (fare default) sui titoli di debito emessi nella loro stessa valuta. A dire il vero non hanno neanche bisogno di emettere titoli di Stato per finanziare i propri deficit di bilancio. Né hanno bisogno di ricorrere alla tassazione per finanziare le proprie spese. Questo perché, in quanto emittenti di valuta, a differenza delle famiglie e delle imprese, che sono dei semplici utilizzatori di valuta, gli Stati che dispongono della sovranità monetaria possono semplicemente creare “dal nulla” tutto il denaro di cui hanno bisogno. Questi governi, dal punto di vista tecnico, hanno una capacità di spesa illimitata nella propria valuta: possono cioè acquistare senza limiti tutti i beni e servizi disponibili nella valuta nazionale. (Come spiego nel libro, questo non implica che i governi che emettono la propria valuta debbano spendere o incorrere in deficit senza limiti; esistono dei limiti, solo che non sono di natura finanziaria).

Comprendere questa semplice verità equivale a fare un vero e proprio salto di paradigma, perché significa che la maggior parte dei paesi – e in particolare le nazioni industrializzate tecnicamente avanzate e altamente sviluppate che spendono, tassano e prendono in prestito nelle proprie valute inconvertibili (e adottano un regime di cambio fluttuante) – possono “permettersi” (letteralmente) di fare molto di più per incrementare il benessere dei propri cittadini e più in generale per perseguire qualunque obiettivo politico scelgano di prefissarsi (penso per esempio alla mitigazione del cambiamento climatico) di quanto comunemente si creda. Vi dirò di più: fintanto che l’economia ha la capacità di assorbire la spesa aggiuntiva, le nazioni che dispongono della sovranità monetaria non hanno alcuna ragione di preoccuparsi del proprio livello di deficit (che possono benissimo “autofinanziare”) o di debito pubblico (che saranno sempre in grado di onorare). Questo vale per nazioni come gli Stati Uniti, il mio paese d’origine, che è al centro dell’analisi di questo libro, il Regno Unito, il Giappone, il Canada, l’Australia e molti altri.

Purtroppo, questo discorso non vale per l’Italia. Nonostante il vostro paese sia, da tutti i punti di vista, una “nazione industrializzata altamente sviluppata e tecnicamente avanzata”, rinunciando alla sua sovranità monetaria per aderire all’euro, l’Italia ha perso molti dei privilegi di cui godono i paesi di cui sopra. Le nazioni che fanno parte della zona euro utilizzano quella che è a tutti gli effetti una valuta estera: esattamente come fanno i singoli Stati federati degli Stati Uniti o dell’Australia, i paesi della zona euro si indebitano in una valuta che non controllano (non possono né fissare i tassi di interesse né rinnovare il debito emettendo nuova moneta e dunque, a differenza dei paesi che emettono la propria valuta, sono effettivamente soggetti al rischio di insolvenza). Questo li relega, nei fatti, al rango di semplici utilizzatori di valuta. La stessa Banca centrale europea (BCE), in uno dei suoi rapporti, ha riconosciuto che «sebbene l’euro sia una moneta fiat, le autorità fiscali degli Stati membri della zona euro hanno rinunciato alla possibilità di emettere debito esente dal rischio di insolvenza (non-defaultable debt)».

Pertanto, la capacità di spesa dei governi dell’eurozona è effettivamente dipendente in larga parte dalle entrate fiscali, dalla loro capacità di emettere titoli sui mercati e dalla “buona volontà” della BCE, un’istituzione sovranazionale che è realmente indipendente dai governi (a differenza delle altre banche centrali, come la Federal Reserve, che creano sempre la valuta domestica per conto dei loro rispettivi governi, i quali spendono attingendo a un conto presso la banca centrale), oltre ad essere soggetta a serie limitazioni per quello che concerne la sua capacità di offrire un supporto illimitato e incondizionato ai mercati sovrani della zona euro (a differenza, ancora una volta, delle altre banche centrali). Questo pone gli Stati membri della zona euro «nella stessa condizione di quelle economie emergenti che sono costrette a contrarre prestiti in una valuta estera»ha commentato alcuni anni fa Paul De Grauwe, professore di economia politica europea presso la London School of Economics (LSE). Questo ha implicazioni economiche di vasta portata: nella misura in cui la gestione della politica di bilancio di un paese dipende dal controllo della politica monetaria, e che la politica di bilancio è il pilastro principale di qualunque politica economica, come evidenzia la MMT, rinunciare al potere di emissione della moneta significa, di fatto, rinunciare alla possibilità di poter perseguire un’agenda politico-economica che serva al meglio gli interessi dei cittadini.

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Questo divenne dolorosamente chiaro allo scoppio della crisi finanziaria del 2008, quando la recessione globale spinse in profondo rosso i bilanci della Grecia, dell’Italia e di altri paesi dell’eurozona. Per finanziare questi deficit ogni paese si vide costretto a reperire i fondi necessari sui mercati obbligazionari, e a pagare qualunque cifra il mercato chiedesse per assicurarsi i finanziamenti di cui aveva bisogno. Gli investitori erano giustamente preoccupati dall’estendere prestiti a governi che non potevano più garantirne il rimborso, avendo rinunciato alla sovranità monetaria. Per compensare il rischio aggiuntivo che si stavano assumendo, i mercati finanziari cominciarono a chiedere tassi di interesse sempre più elevati. In poco tempo si verificò una vera e propria crisi del debito. In Grecia, caso emblematico della crisi, i tassi di interesse sui titoli di Stato decennali schizzarono alle stelle passando dal 4,5 per cento del settembre del 2008 a poco meno del 30 per cento nel febbraio del 2012. Alla fine, l’istituto di emissione – la BCE – è intervenuto e i tassi di interesse sono scesi drasticamente. Ma a quel punto il danno sociale ed economico era stato fatto.

Ci si potrebbe chiedere: ma perché la BCE ha aspettato così tanto prima di intervenire? Tale ritardo è solitamente attribuito agli obblighi derivanti dai trattati, alla testardaggine ideologica dei vertici della banca centrale e alla complessa politica dei compromessi che caratterizza il processo decisionale della zona euro. C’è del vero in tutto ciò. Tuttavia, Luigi Zingales dell’università di Chicago ha argomentato che il mandato anti-interventista della BCE non dovrebbe essere visto come un difetto di progettazione dell’euro, quanto piuttosto come un asse centrale del suo progetto politico: «Al momento della creazione della BCE […] si evitò espressamente di incorporare tutta una serie di meccanismi tipici delle banche centrali, al fine di consentire ai mercati di disciplinare i paesi membri. Ma economicamente fu un errore, rendendo inevitabile un eventuale intervento attivo da parte della BCE».

In effetti, lo stesso ex presidente della BCE Jean-Claude Trichet non ha nascosto che il rifiuto della banca centrale di sostenere i mercati delle obbligazioni pubbliche nella prima fase della crisi finanziaria aveva lo scopo di spingere i governi della zona euro a consolidare i propri bilanci e ad attuare le cosiddette “riforme strutturali”. Come ha osservato lo storico Adam Tooze, «[i]l ruolo dei mercati obbligazionari in rapporto alla BCE e al dominante governo tedesco era non tanto quello di un vigilante che colpisce a ruota libera, quanto quello di gruppi paramilitari che vengono autorizzati al pestaggio sotto lo sguardo della polizia». Ma voi italiani probabilmente lo sapete già. Secondo il Financial Times, la BCE «costrinse Silvio Berlusconi a dimettersi a favore di Mario Monti», facendo intendere al governo e al Parlamento italiani che le dimissioni del premier erano la condizione necessaria perché la banca centrale continuasse a sostenere le obbligazioni pubbliche e le banche del vostro paese. Lo stesso Monti in un’intervista del 2017 al Corriere della Sera ha affermato che alla fine del 2011 «Draghi decise […] di cessare gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della BCE, che avevano dato ossigeno al governo Berlusconi nell’estate e autunno 2011».

In foto, prima pagina de “Il Sole 24 Ore” durante la fase più acuta dalla crisi degli spread sui titoli di debito pubblico italiani nel novembre 2011. Tale crisi portò alla creazione di una nuova maggioranza parlamentare a sostegno di Mario Monti come nuovo capo del governo.

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Questo episodio è un esempio lampante di come rinunciare alla propria sovranità monetaria sia non solo problematico dal punto di vista economico, ma sollevi anche seri problemi di legittimità democratica. Come scrisse nel 1992, quando il Regno Unito stava discutendo se aderire o meno all’euro, l’economista britannico Wynne Godley, con cui ho avuto la fortuna di lavorare al Levy Economics Institute alla fine degli anni Novanta: «[i]l potere di emettere la propria moneta, di fare ricorso alla propria banca centrale, è la cosa principale che definisce l’indipendenza di una nazione. Se un paese rinuncia a, o perde, questo potere, acquisisce lo status di ente locale o di colonia». Sarebbe a dire che il paese in questione mette il proprio destino economico nelle mani chi controlla la moneta: nel vostro caso la BCE. Ciò pone seri pericoli politici. Come ha osservato sempre Zingales, «un qualsiasi assetto istituzionale che dia a un organo non eletto come la BCE un dominio incontrollato sugli organi eletti solleva serie questioni di legittimità».

Anche il famoso “whatever it takes” di Mario Draghi, nel 2012, non ha finito per trasformare la BCE in una “normale” banca centrale (d’altronde Draghi non avrebbe potuto cambiare i trattati con un tratto di penna anche se avesse voluto). La politica italiana negli ultimi anni ha continuato ad essere dominata dallo spettro dello “spread” – il differenziale tra i tassi di interesse dei titoli di Stato italiani e quelli dei titoli di Stato tedeschi –, in base all’assunto errato secondo cui i tassi di interessi sono fissati dai mercati, i quali necessitano di essere “rassicurati” dai governi per mezzo di politiche fiscali “responsabili”, quando in realtà, come spiego nel libro, i tassi di interesse sui titoli di Stati sono una variabile che dipende sempre dalla politica monetaria della banca centrale (anche quando quest’ultima sceglie, per ragioni politiche, di lasciare che siano i mercati a determinare i tassi, come ha spesso fatto la BCE in passato).

La risposta della BCE alla crisi determinata dalla pandemia lo ha reso ampiamente evidente. Da marzo, la BCE ha intensificato il suo programma di acquisto titoli ed oggi sta effettivamente finanziando il disavanzo pubblico dell’Italia, acquistando praticamente tutte le obbligazioni italiane di nuova emissione; di conseguenza, nonostante un significativo aumento del deficit e del debito pubblico, i tassi di interesse sulle obbligazioni italiane sono scesi a livelli record. Ciò dimostra al di là di ogni dubbio che la BCE può sempre impedire che l’aumento del deficit (o dei livelli del debito) spinga all’insù i tassi di interesse. Se lo avesse voluto, la BCE avrebbe potuto scegliere di stabilizzare i tassi di interesse italiani durante le turbolenze politiche del 2018-2019, consentendo così il regolare svolgimento del processo democratico, invece di lasciare che i mercati obbligazionari influenzassero l’agenda politica del vostro paese. Allo stesso modo, proprio come la BCE sta oggi creando denaro per sostenere gli sforzi nazionali per combattere la pandemia, avrebbe potuto fare lo stesso in passato per aiutare i governi a combattere la disoccupazione e altre piaghe sociali invece di insistere affinché i governi riducessero i loro livelli di deficit e di debito.

Ma volgiamo lo sguardo al futuro. Il nuovo approccio della BCE in materia di politica monetaria e la sospensione del Patto di stabilità significano che stiamo assistendo a una rivoluzione di lungo termine nell’assetto istituzionale della zona euro? Che gli Stati membri possono considerarsi finalmente liberi – per sempre – dai vincoli di bilancio che hanno causato loro così tanto dolore in passato? Che i governi della zona euro sono finalmente liberi di gestire la loro politica di bilancio come meglio credono, consapevoli di poter contare sul pieno appoggio della BCE? Purtroppo, le azioni fiscali degli stessi governi europei sollevano seri dubbi su questa narrazione ottimistica. Come mostra il database del Fondo monetario internazionale (FMI) sulle misure fiscali nazionali adottate in risposta alla pandemia di COVID-19, lo stimolo fiscale dei paesi della zona euro è stato molto più fiacco di quello dei paesi avanzati che godono della sovranità monetaria. Al momento della scrittura (ottobre 2020), paesi come Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia, Giappone e Nuova Zelanda hanno tutti messo campo stimoli fiscali compresi tra il 10 e il 20 per cento del PIL, mentre i governi della zona euro – che includono alcuni dei paesi maggiormente colpiti dalla pandemia, tra cui l’Italia e la Spagna – hanno tutti realizzato stimoli fiscali nell’ordine del 5 per cento o meno del PIL (ad eccezione della Germania, che ha realizzato uno stimolo di bilancio dell’8 per cento circa del PIL).

Inoltre, nonostante la pandemia in Europa sia tutt’altro che contenuta e l’economia sia lungi dall’essere su un solido percorso di ripresa, tutti i paesi della zona euro (compresa la Germania) hanno già annunciato la loro intenzione di ridurre i loro deficit di bilancio il prossimo anno. Sarebbe un tragico errore. Una possibile spiegazione di ciò è che i governi europei non sono convinti che il cambio di passo della BCE e dell’UE in materia di politica monetaria e di bilancio sia permanente, e dunque non vogliono rischiare di ritrovare con un debito insostenibile nel momento in cui verrà meno l’ombrello della BCE.

Tali paure non sono ingiustificate. Come ha scritto sul Financial Times Shahin Vallée, ex consigliere economico dell’allora presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, e attuale membro del German Council on Foreign Relations: «Isabel Schnabel, membro del consiglio di amministrazione della BCE, ha sottolineato che “questo non è il momento per preoccuparsi che l’aumento del debito pubblico oggi possa minare la stabilità dei prezzi un domani” e ha applaudito gli sforzi fiscali europei comuni in corso. Ma si è guardata bene dall’incoraggiare un’espansione fiscale nazionale più vigorosa. Anche la Commissione europea non si sta dimostrando in grado di svolgere un ruolo di coordinamento [delle politiche fiscali] e di spingere l’Eurogruppo a realizzare una posizione di bilancio aggregata adeguatamente espansiva. Le lettere inviate dai commissari Valdis Dombrovskis e Paolo Gentiloni ai ministri delle finanze europei non formulano una chiara raccomandazione sull’orientamento di bilancio complesso della zona euro nel 2021 […]. Infine, mentre la Germania ha fatto grandi passi avanti sulle questioni fiscali europee e ha realizzato un’espansione audace nel 2020, si rifiuta di impegnarsi in un dibattuto serio sulla riforma del quadro fiscale europeo e sul “freno all’indebitamento” inserito nella Costituzione tedesca. Tutto ciò continua a gettare una lunga ombra sulla politica fiscale europea». Nel frattempo, il tanto decantato Recovery and Resilience Facility, comunemente noto come Recovery Fund, concordato nel luglio 2020, lodato come una grande passo in avanti nella direzione di un federalismo fiscale europeo, continua ad essere bloccato nel pantano della politica intergovernativa europea, «creando molta incertezza, vanificando le speranze di un passo in avanti hamiltoniano per l’Europa e offrendo poco o nulla in termini di stimolo fiscale», nota causticamente Vallée.

In conclusione, so che in Italia c’è un vivace dibattito sull’euro, e non spetta a me dirvi cosa è meglio per il vostro paese. Quello che posso dire è che un aspetto fondamentale della MMT è la necessità di una cooperazione attiva tra le autorità monetarie e quelle politiche, che nelle democrazie consistono nei rappresentanti eletti del popolo. Il problema di fondo dell’euro consiste proprio nell’aver reciso questo legame fondamentale. Di conseguenza abbiamo un’autorità monetaria molto potente priva di legittimità democratica, la BCE, e delle autorità politiche nazionali democraticamente legittimate che non hanno pressoché nessun controllo sulle leve di politica economica. Pertanto, il nodo fondamentale, dal punto di vista della MMT, consiste nel colmare il divario tra questi due livelli. Ciò può essere fatto in due modi: democratizzando appieno l’Unione europea (UE) e trasformandola in uno Stato federale a tutti gli effetti (un obiettivo che però presenta seri ostacoli, come dimostrano gli estenuanti negoziati, tutt’ora in corso, sul Recovery Fund) o restituendo la sovranità monetaria alle singole nazioni europee (obiettivo che a sua volta presenta, ovviamente, ostacoli titanici). Una cosa, però, è chiara: i paesi della zona euro non possono più permettersi di rimanere impantanati nell’attuale limbo economico-politico. Soprattutto in un momento storico così drammatico.

Stephanie Kelton

Stephanie Kelton, economista statunitense, professoressa di economia e politica pubblica presso la Stony Brook University (New York, USA). Tra le massime esperte di Teoria della Moneta Moderna , o Modern Money Theory (MMT), ex capo economista della Commissione bilancio del Senato degli Stati Uniti d’America (staff democratico). Già direttrice del Dipartimento di economia presso l’Università del Missouri-Kansas City (Missouri, USA). Tra le 50 persone che più hanno influenzato il dibattito politico in USA, secondo il quotidiano statunitense POLITICO.

Fonte: Sovranità Popolare, rivista mensile, numero di dicembre 2020

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