DI MARINO BADIALE E FABRIZIO TRINGALI
MegaChip
Nell’articolo “Come guidare il default italiano (“Il Manifesto”, 5 ottobre 2011), Guido Viale svolge considerazioni molto utili per comprendere lo stato attuale della crisi e le possibili vie di uscita. (Articolo ripreso su Comedonchisciotte qui, NdR).
Spiega infatti che il default italiano è un processo già in corso, e che quindi il nostro Paese deve scegliere fra una gestione dello stato di insolvenza simile a quello della Grecia (cioè pilotata dalle istituzioni internazionali, e finalizzato alla spoliazione del paese) e una gestione del default tale da difendere gli interessi del popolo italiano, finalizzata alla conversione ecologica della struttura produttiva del paese.
Questa considerazione, così come
molte altre contenute nell’articolo, ci trova d’accordo.
C’è un unico punto di dissenso
che vorremo discutere. Viale si chiede se il default dell’Italia
porterà inevitabilmente al crollo dell’Euro, e sostiene che la dissoluzione
della moneta unica getterebbe l’Europa in un caos peggiore di quello
causato dall’attuale crisi, perché i vantaggi determinati dalla svalutazione
delle monete dei Paesi deboli potrebbero non essere sufficienti a rilanciarne
la competitività.
Pensando all’Italia, per esempio, Viale
scrive che “non è detto che il ritorno a una moneta nazionale comporti,
per lo Stato in default, un recupero di competitività con una
svalutazione e il ritorno a una bilancia dei pagamenti in equilibrio.
Se il tessuto produttivo non c’è, o è inadeguato, la svalutazione
non basta per togliere quote di mercato ai più forti in campo tecnologico
e amministrativo”.
Viale quindi riconosce che all’interno
dell’area Euro vi sono squilibri di competitività che minano la
tenuta della moneta unica, ma ritiene che il ritorno ad una moneta nazionale,
e la successiva svalutazione, potrebbero non essere medicine sufficienti.
La nostra critica sta nel fatto che anche dalle stesse considerazioni
di Viale si evince che queste medicine sono comunque necessarie. Potrebbero
forse non essere sufficienti per la guarigione, ma certamente, senza
di esse, la malattia sarebbe ben peggiore.
Dato che la nostra produzione è
meno competitiva di quella, per esempio, della Germania, cosa succede
restando nell’euro? Accade che perdiamo quote di mercato, e questo produce
disoccupazione, unita ad una forte spinta ad aumentare lo sfruttamento
del lavoro per compensare i differenziali di competitività.
Ecco perché l’Europa ci impone
i licenziamenti facili e le deroghe ai Contratti Nazionali di Lavoro.
Se il nostro problema fosse abbassare il debito pubblico, queste richieste
non avrebbero senso. Ma se l’obiettivo è abbassare i differenziali
di competitività, l’estensione a tutto il mondo del lavoro del “modello
Marchionne” diventa una necessità. L’Euro unisce paesi con industrie
a diversi livelli di produttività, questo è un fatto.
Per salvare la moneta unica, e contemporaneamente
rigettare l’estensione del “modello Marchionne” occorrerebbero investimenti
colossali per rinnovare l’intero sistema produttivo del Paese e portarne
la produttività e la competitività fino a livelli “tedeschi”.
E i denari per questi investimenti non ci sono, né ci sarebbero introducendo
ingenti imposte patrimoniali o colpendo l’evasione.
Esclusa questa strada non resterebbe
che affidarsi alla possibilità che siano i Paesi forti a pagare
gli effetti degli squilibri di competitività, tramite strumenti come
gli Eurobonds, magari uniti a una fiscalità generale vantaggiosa
per i Paesi deboli. Ma questa non sarebbe che una falsa soluzione. Già
oggi l’opinione pubblica tedesca è manifestamente contraria agli aiuti
ai Paesi deboli.
Ipotesi come queste incontrerebbero
quindi una resistenza fortissima in tutti i settori sociali, come ha
recentemente dimostrato il dibattito tedesco sul finanziamento del nuovo
fondo salva-stati EFSF, accettato a larga maggioranza dal
Bundestag solo dopo ampia rassicurazione che il fondo stesso non
sarà aumentato.
Pertanto gli Eurobond, un sistema
fiscale coordinato, o qualsiasi soluzione che comporti una perequazione
delle ricchezze a livello europeo, potrebbero vedere la luce solo dopo
aver recepito le richieste dei Paesi forti, e cioè dopo aver implementato
meccanismi di spoliazione della sovranità nazionale tali da garantire
l’applicazione di tutte le misure favorevoli all’aumento di competitività
dei Paesi deboli. Si ritornerebbe a dover accettare la cancellazione
dei diritti e delle tutele dei lavoratori, senza nemmeno aver più un
governo nazionale come controparte, perché le disposizioni verrebbero
direttamente impartite da Bruxelles.
Ecco dunque i motivi della nostra critica
a Viale. Si può coniugare la difesa del lavoro e la salvezza dell’Euro?
La conversione ecologica della produzione che Viale giustamente chiede,
produce un aumento della competitività del sistema-Paese?
Se la risposta a queste domande è
NO, salvare la moneta unica rende necessario accettare l’attacco ai
diritti dei lavoratori e rinunciare alla conversione ecologica dell’economia.
E impone a ciascuno di noi le scelte conseguenti.
Fonte: Salvare l’Euro? Ecco i prezzi da pagare.
10.10.2011