DI GILAD ATZMON
Dissident Voice
Questa settimana, Jesse Lieberfeld, un adolescente ebreo americano ha vinto il Martin Luther King, Jr. Writing Awards del Dietrich College per aver composto un bel pezzo sul proprio risveglio morale e sul suo allontanamento dal Giudaismo.
“Una volta appartenevo a una religione meravigliosa. Ho fatto parte di una religione che permette, a coloro che vi credono, di sentire che siamo il più grande popolo al mondo, e allo stesso tempo di dispiacersi di noi stessi”, ha detto il giovane Jesse. Comunque, sembra che non ci sia voluto troppo tempo prima che Jesse abbia scoperto di qualcosa che non era né lusinghiero, né glorioso.L’indottrinamento culturale tribale ebraico è un processo intenso e omnicomprensivo: “Anche se sono stato abbastanza fortunato da avere genitori che non hanno cercato di obbligarmi verso un insieme di credenze, essere ebreo non rende assolutamente possibile eludervi quando si cresce”, ha detto Jesse: “Ero sempre stimolato in ogni festa, in ogni servizio e ad ogni incontro assieme ai miei parenti.”
L’amor proprio è inerente alla cultura e al suo mantenimento: “Mi veniva sempre ricordato quanto fosse intelligente la mia famiglia, quanto fosse importante ricordarsi da dove eravamo venuti ed essere orgoglioso di tutte le sofferenze che il nostro popolo aveva patito per poter alla fine realizzare il sogno della società perfetta di Israele.”
La programmazione ideologica e culturale ebraica è piuttosto sofisticata. È un modello dinamico molto particolare, praticato sia a livello collettivo che individuale. Ma quelli che portano il messaggio non sono pienamente consapevoli del loro ruolo all’interno dell’ideologia tribale che vogliono mantenere.
È ovvio che gli ebrei abbiano credenze variegate, e persino contraddittorie. Ma per quanto possano essere diversificati i loro punti di vista, quelli che sono identificati politicamente come ebrei si uniscono sempre contro ogni tentativo di criticare i fondamenti ideologici e culturali dei loro obblighi tribali. Il giovane Jesse è chiaramente consapevole di questo. In superficie, sono i crimini contro i palestinesi ad aver stimolato il suo senso etico. “Crescendo ero sempre più preoccupato. Sentivo continuamente parlare di uccisioni di massa senza motivazioni, di attacchi a strutture mediche e altre allarmanti violenze di cui non riuscivo a comprendere la ragione. ‘Genocidio’ mi sembrò essere il termine più adatto, anche se nessuno di quelli che conoscevo si sarebbero mai sognati di descrivere il conflitto in questo modo; parlavano sempre della situazione in termini scandalosamente neutrali.”
Uno degli aspetti tribali più sofisticati del mantenimento della cultura ebraica è il modo graduale con cui le critiche vengono messe a tacere: “Ogni qualvolta ne parlavo, mi veniva sempre data la risposta che le responsabilità erano su tutti e due i fronti, che nessuno doveva essere incolpato e che era semplicemente una ‘situazione difficile’.” Questo comune argomento di Hasbara in superficie sembra ragionevole, ma ignora il fatto che nel conflitto israelo-palestinese c’è una chiara distinzione tra l’aggressore e la vittima. Gli israeliani sono quelli che fanno pulizia etnica e sono gli occupanti. I palestinesi, dall’altro lato, sono gli espulsi, i razzialmente discriminati, i deprivati, i confinati dietro ai muri e al filo spinato nelle prigioni a cielo aperto e, in qualche caso, gli affamati.
Ma Jesse sembra essere fatto di onestà. Diversamente da alcuni ebrei di sinistra che presentano un argomento pseudo-moralista solo per guadagnare credibilità così da
porre il veto al discorso, il giovane Jesse è andato oltre, strappandosi di dosso ogni traccia di elitarismo e di eccezionalismo. “Avevo appena finito la seconda superiore quando compresi a pieno da che parte stavo. Un pomeriggio, dopo che, sul tram che ci riportava a casa, fu annunciata una nuova serie di omicidi, chiesi a due dei miei amici che sostenevano attivamente Israele cosa ne pensassero. ”
‘Noi dobbiamo difendere la nostra razza’, mi dissero: ‘È il nostro diritto’“.
Il “dobbiamo difendere la nostra razza” è una scusa comune che gli attivisti ebrei usano fra di loro. Anche se gli ebrei non formano una razza, la politica identitaria ebraica è ancora apertamente razzista. Infatti, tutte le forme di politica identitaria secolare ebrea hanno un volano razziale e sono alimentati dall’esclusivismo razziale. Questo non si riferisce solo agli ebrei pro-Israele, ma sfortunatamente anche ai gruppi ebraici ‘anti’-Sionisti.
Credo che sia ovvio il punto di arrivo di Jesse. Lui chiaramente ha notato un continuum ideologico tra il movimento dei diritti civili in America e la lotta di liberazione palestinese. Nelle due lotte, c’è chiaramente un oppressore razzialmente guidato e una vittima collettiva, e Jesse ne ha tratto la conclusione necessaria: “Mi sentii inorridito avendo capito che ero per natura dal lato degli oppressori. Ero raggruppato ai suprematisti razziali. Facevo parte
di un gruppo che uccideva lodando la propria intelligenza e il proprio raziocinio. Ero parte di un inganno.”
Jesse ha evidentemente identificato la politica ebrea e la cultura di cui era parte come una forma di “supremazia razziale”. Non ha mai menzionato il Sionismo e, infatti, la parola “Sionismo” non viene mai citata nel suo sincero post che ha scritto dopo aver ricevuto il premio. Ha parlato semplicemente della sua educazione ebraica, della cultura e dell’ideologia.
Il giovane Jesse già ha compreso che un appello rivolto ai suoi amici ebrei non porterà da nessuna parte. Scrive: “Decisi di fare un ultimo appello alla mia religione.
[…] La volta successiva, presenziai a un servizio, c’era una sessione aperta di domande e risposte sui temi della nostra religione. Quando finalmente mi fu data l’opportunità di fare una domanda, chiesi, ‘Io voglio sostenere Israele. Ma come posso farlo, quando lascia che il suo esercito commette così tanti omicidi?’ Mi furono puntati addosso una serie di sguardi focosi e adirati da alcuni degli uomini più anziani, ma fu il rabbino a rispondermi. ‘È una cosa terribile, non è vero?’, disse. ‘Ma non c’è niente che possiamo fare. È solo un fatto della vita.’ Sapevo, naturalmente, che la guerra non è una cosa semplice, e che noi non ammazzavamo per gioco, ma descrivere le nostre migliaia di uccisioni come un ‘fatto
della vita’ era per me semplicemente troppo per essere accettato.”
Sembra che Jesse abbia il coraggio per riscattare la sua anima: “Lo ringraziai (il Rabbino) e feci poi una breve camminata. Non ho mai fatto ritorno. […] Se non altro,
posso almeno tentare di liberarmi dal fardello di una credenza di cui non potevo avere una coscienza chiara. […] Non ho intenzione di proseguire a sentirmi uno del Popolo Eletto, identificandomi in un gruppo a cui non appartengo.”
Sorprendentemente, Jesse non fu costretto a scusarsi per aver detto la verità. Non ha dovuto ritrattare per aver spiegato le cose come sono. Infatti ha vinto il premio umanistico più prestigioso per il suo saggio. Ma mi chiedo quanto tempo ci vorrà prima che Abe Foxman di ADL e l’infame sostenitore della pulizia etnica Alan Dershowitz lancino una campagna l’istituto che lo ha premiato.
Essendo una persona che oscilla continuamente tra essere un “ex ebreo” e un “orgoglioso ebreo che odia sé stesso”, abbraccio il giovane Jesse e lo tengo vicino al cuore. Mio caro giovane gemello, non voler essere un eletto è una lotta che dura una vita. A volte ti potrai sentire solo, ma non lo sarai mai. L’umanità e l’umanesimo sono al tuo fianco, per sempre.
Fonte: Moral Awakening of an 11th-grader
19.01.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE