Articolo di Francesco Corigliano pubblicato in Letteratura e Scienze – Atti delle sessioni parallele del XXIII Congresso dell’ADI (Associazione degli Italianisti) Pisa, 12-14 settembre 2019 a cura di Alberto Casadei, Francesca Fedi, Annalisa Nacinovich, Andrea Torre. Roma, Adi editore 2021
Resistere a sé stessi. “L’uomo è forte” di Francesco Corigliano
In “L’uomo è forte” di Corrado Alvaro, un romanzo dai toni distopici pubblicato nel 1938, viene descritta realisticamente una ipotetica società dittatoriale, caratterizzata da un totale controllo sulle azioni e sulle emozioni delle persone. L’impianto narrativo, accostabile a esempi letterari distopici coevi, si distingue per la rappresentazione del concetto di colpa sociale, che nello stato fittizio immaginato da Alvaro si mescola ad un senso del peccato dai toni pseudo-religiosi. Nel sistema oppressivo ognuno deve assolvere ad una funzione, fosse anche quella di essere il “nemico” necessario a giustificare il continuo senso di minaccia.
“L’uomo è forte” di Corrado Alvaro si può a tutti gli effetti collocare all’interno della narrativa distopica. Pubblicato nel 1938, il romanzo è incentrato su una tormentata storia d’amore, profondamente influenzata dal particolare ordinamento sociale della nazione immaginaria in cui è ambientata la vicenda. In questo stato fittizio, di cui non viene mai specificato il nome, si manifesta una particolare interpretazione del topos letterario della distopia oppressiva, in questo caso caratterizzata da particolari assolutamente degni di nota, soprattutto se contestualizzati
storicamente.
Il paese di “L’uomo è forte” è stato devastato da una guerra civile tra due gruppi politici, le Bande e i Partigiani: la vittoria è toccata ai secondi, i quali hanno instaurato un sistema di controllo sociale e politico molto stretto, in grado di influire su tutta la popolazione. La rivoluzione non è stata omogenea in tutto il paese, e nelle frange più esterne si verificano ancora scaramucce e combattimenti con le Bande; eppure la presa sul territorio da parte dei Partigiani è tale da permettere loro di gestire direttamente la vita della nazione. Sebbene manchi una specificazione cronologica chiara, da accenni e allusioni dei personaggi si intuisce che la narrazione si svolge nei primi decenni del Novecento, contribuendo ad avvicinare l’intera ambientazione alla realtà storica europea del XX secolo.
Il protagonista è Roberto Dale, un ingegnere che vive all’estero e che rimpatria per vivere nello stato post-rivoluzionario; al suo arrivo conosce Barbara, una donna figlia di antagonisti politici che sono stati giustiziati quando lei era ancora una bambina, con la quale intesse una relazione amorosa.
Nonostante i numerosi riferimenti al mondo reale, e nello specifico a nazioni effettivamente esistenti quali gli Stati Uniti, la Francia e l’Italia, lo stato immaginario creato da Alvaro non va necessariamente ricollegato ad un paese storicamente esistito. Naturalmente la presenza dell’apparato politico, i frequenti riferimenti a città italiane quali Roma e Venezia, la scelta di nomi tipicamente italiani, nonché la nazionalità dello stesso autore, portano il lettore a identificare le scene del romanzo con quelle reali dell’Italia fascista. D’altro canto, la guerra civile tra Bande e Partigiani potrebbe fare pensare facilmente alla guerra civile spagnola che si svolgeva proprio negli anni in cui viene pubblicato il romanzo. Eppure la anonima città in cui è ambientata la vicenda non è la trasposizione letteraria di una specifica metropoli industriale europea. La specificità dell’invenzione alvariana ha ragioni filosofiche e letterarie, e sarebbe in qualche modo riduttivo ricondurla semplicemente ai totalitarismi coevi. Queste ragioni letterarie non si risolvono nell’ispirazione a testi coevi. Esistono naturalmente esempi distopici precedenti: The Iron Heel di Jack London viene pubblicato nel 1907, Brave New World di Aldous Huxley nel 1932 e It Can’t Happen Here di Sinclair Lewis nel 1935, ma questi testi hanno più differenze che somiglianze con il romanzo di Alvaro. Come giustamente nota Massimo Onofri, in L’uomo è forte manca una riflessione sull’impatto della tecnologia sulla società, che si può invece trovare in Huxley, né si ritrova un’autentica critica del capitalismo occidentale rintracciabile invece in London. Onofri evidenzia piuttosto le somiglianze con il romanzo My (Noi, 1921) di Zamjatin (1), ma non si può avere la certezza che Alvaro lo conoscesse (nonostante le ipotesi avanzate dallo scrittore polacco Gustaw Herling-Grudziński). È dunque difficile individuare un modello letterario distopico evidente per L’uomo è forte, ma tra i testi che devono aver influito su questo romanzo si potrebbe evidenziare, come vedremo più avanti, il Grande Inquisitore di Dostoevskij. Questo accostamento non deriva esclusivamente dalla conoscenza della letteratura russa da parte di Alvaro (il quale fu anche traduttore di Sologub e dello stesso Dostoevskij), né dalla semplice presenza di personaggi chiamati “Inquisitori” nel romanzo stesso. Vedremo che la ragione principale di questo accostamento risiede nel tema centrale trattato da L’uomo è forte, ovvero il concetto di rinuncia di una parte fondamentale di sé in favore della collettività. L’uomo è forte sembra estremizzare la società immaginata da Ivan nei fratelli Karamazov, quando recita ad Alesa il suo poema Il Grande Inquisitore. Il romanzo di Alvaro, infatti, insiste sulla responsabilità individuale non soltanto nei confronti dell’intera società, ma anche nei riguardi di un’idea di umanità specifica in cui è riconoscibile una matrice cristiana. Questi concetti – e soprattutto l’idea di un’influenza determinante della società sul singolo – sono stati affrontati da Alvaro anche in altri contesti letterari. In Vent’anni, romanzo dai toni autobiografici ambientato nella Grande Guerra, l’autore aveva ragionato proprio sul valore della realizzazione individuale in funzione di uno scenario collettivo, come appunto nel caso del primo conflitto mondiale. In un romanzo incompiuto, Belmoro (apparso postumo nel 1957), Alvaro arriverà poi a estremizzare ulteriormente l’immagine di un governo onnipervasivo, descrivendo un mondo dalle sfumature fantascientifiche, dominato da una tecnocrazia soffocante e autoritaria che finisce col sostituire i valori più intimi dell’individualità umana. Eppure, in “L’uomo è forte” – il cui titolo originale era “Paura sul mondo” – l’oppressione autoritaria assume dei connotati particolarmente disturbanti nelle loro implicazioni morali. Il modello di essere umano delineato dalla società rivoluzionaria immaginata nel romanzo è definito perlopiù dalla sua capacità di fare del male, il suo esistere principalmente in relazione ad una società che l’individuo stesso può mettere in pericolo. Ciò che sembra ferire maggiormente Dale è proprio il considerare l’umanità, da parte dell’organizzazione statale, esclusivamente da un punto di vista comunitario: ciò che definisce il carattere e la personalità va considerato in modo negativo, non soltanto perché differenzia gli uni dagli altri ma principalmente perché implica l’esistenza di un mondo interiore, separato e inviolabile, addirittura un’anima, che la società non può tollerare. L’esistenza deve essere razionalizzata e ci si deve sentire in colpa a voler essere qualcosa di più di ciò che si vede, poiché «la stessa vita di un cittadino è un segreto di Stato», e «la rivelazione di quanto soffriamo è un segreto di stato. È un delitto». Gli stessi sentimenti umani, l’appartenere all’emotività di qualcun altro mette in discussione questo principio:
E probabilmente questo individuo era irritato che altri esseri avessero qualcosa per loro, appartenessero a qualcuno, fossero possessori di un oggetto tutto per loro. Ora Barbara era di uno. Questo sentimento era più grande e più importante dell’amore, nella sua condizione presente. Essere di uno solo, riservargli qualcosa di profondo e incomunicabile agli altri. Staccarsi dagli altri. Avere ripugnanza degli altri. Essere uno. Ecco la colpa.Bisognava essere tutti.
Questo collettivismo esasperato, insieme all’avversione per la categoria degli “intellettuali”, può far pensare naturalmente alla situazione politica coeva alla stesura del romanzo, e naturalmente non si può slegare il discorso storico da una simile narrazione, considerando, ad esempio, che il romanzo venne scritto dopo un periodo di viaggi in Europa e nella Russia sovietica. Eppure l’invenzione di Alvaro si caratterizza per una propria autonomia, che trova la propria ragione nell’esasperazione di concezioni filosofico-sociali prima ancora che storiche. La stessa idea di iper-collettivismo, cui sembra tendere l’immaginario paese di L’uomo è forte, può essere raggiunta soltanto se ognuno si sente sempre osservato. Nella città abitata da Dale le finestre non hanno finestre e imposte, la gente osserva di continuo chiunque passi, palazzi interi vengono abbattuti per distruggere i dedali di viuzze che ospitano, e per fare spazio a grandi vialoni in cui tutto si può vedere, «quasi che un occhio onniveggente dominasse quel mondo divenuto leggibile, senza più mistero». Naturalmente risaltano le evidenti somiglianze con il successivo 1984 di George Orwell e con il suo sistema di controllo perpetuo dei cittadini. Nonostante non si possa parlare davvero di un Grande fratello ante litteram, alcuni elementi dei due romanzi sono facilmente comparabili: ad esempio, la fessura nel muro nella camera dalla quale Dale e Barbara si sentono spiati, e nella quale probabilmente non c’è nessuno, non può non far pensare alle piastre di osservazione di 1984 da un punto di vista concettuale, perché in entrambi i romanzi si porta lo Stato sin dentro le case, sin dentro le stanze. Similmente in entrambi i testi si trova un sistema di delatori e di agenti in incognito, e in L’uomo è forte viene presentato un personaggio politico che viene idolatrato dalle folle, con un fare mistico ed emotivo che ricorda il rapporto dei cittadini con il Grande Fratello, sebbene restino differenze marcate. Manca in Alvaro l’utilizzo della tecnologia come strumento di controllo proposto invece da Orwell e, come abbiamo anticipato, mancano anche riferimenti manifestamente politici (naturalmente anche per questioni di censura); eppure l’idea di Stato oppressivo è simile: il controllo governativo si manifesta principalmente nell’atto del guardare, dell’osservare da parte di un’entità sempre allerta, un organismo che bada che ogni propria particella – i cittadini – non dimentichi mai di essere parte di un tutto superiore. La collettività, come una volontà maligna ed esterna, manipola gli individui e al contempo si manifesta attraverso di loro, nell’ansia di non perdere la propria integrità, tanto che i personaggi, commentando la situazione sociale nella nazione fittizia, possono ben dire:
“Noi non ci apparteniamo più. Qualche cosa ci ha invaso. Qualcuno è padrone di noi. Non materialmente, ma moralmente. Ha invaso i nostri sogni, i nostri pensieri, i nostri propositi e la nostra volontà. Lei si sente mai solo?” “No.” “Bene. Nessuno si sente solo. Lei non si sente solo neppure nei suoi pensieri. Questo è il grande fenomeno. È il fenomeno moderno. Qualcosa si è rotto. Probabilmente la volontà”.
La società orwelliana propone un programma atto a modificare la natura umana, non in senso biologico ma in senso filosofico, poiché l’uomo ha senso in quanto particella statale. Il passato viene riscritto, letteralmente (lo stesso protagonista è impiegato nella riscrittura di vecchi giornali), e anche in Alvaro possedere un passato è visto come qualcosa di sovversivo. Si deve cambiare l’idea di uomo, cosa che sistematicamente si propongono di fare anche gli Inquisitori di Alvaro:
«tutto quello che l’umanità ha compiuto di grave e delittuoso negli ultimi secoli dipende esclusivamente da questo senso privato, dal sentimento della propria persona. Bisogna distruggere queste cose dalle fondamenta. Sradicarle, estirparle, con tutti i mezzi».
Il risultato è una società fondata sulla colpa, a cui ognuno contribuisce col sospetto verso di sé e verso gli altri, in un’unione comunitaria dalle sfumature quasi religiose. L’accostamento al Grande Inquisitore si potrebbe porre proprio entro questi termini: nel testo di Dostoevskij il personaggio di Ivan prospetta una società in cui gli esseri umani rinuncino in parte al proprio libero arbitrio, sotto il peso di una intollerabile consapevolezza della propria libertà, in definitiva abbandonando parzialmente la propria umanità per poter essere diretti docilmente da un ordine superiore, un ente che si assuma la responsabilità della salvezza di tutti e rappresentato, in Dostoevskij, dalla Chiesa Romana. Analogamente, gli Inquisitori di Alvaro postulano dei cittadini che rinuncino all’idea stessa di essere individui, diventando appunto esclusivamente cittadini, particelle che esistono funzionalmente solo in rapporto alla società, rinunciando a sé stessi. In entrambe le società la collettività si fa luogo di realizzazione, da una parte su uno sfondo teocratico, dall’altra su uno sfondo rivoluzionario: essere individui è una cosa del passato, controrivoluzionaria:
Bisogna distruggere tutto quello che è privato, personale, intimo, e che è la causa di tutti i mali di cui soffre oggi l’umanità. Avere un segreto è un delitto […] Tutto quello che l’umanità ha compiuto di grave e di delittuoso negli ultimi secoli dipende esclusivamente da questo senso privato, dal sentimento della propria persona. Bisogna distruggere queste cose dalle fondamenta. Sradicarle, estirparle, con tutti i mezzi.
In “L’uomo è forte” si mostra la politicizzazione di un senso di colpa sociale, una laicizzazione del sentimento del peccato religioso che si unisce alla condivisa responsabilità, superiore e fondante, di non essere qualcuno. Questo è il quid della distopia alvariana: gli agenti della società dipinta in “L’uomo è forte” agiscono come dei teologi della colpa, e i cittadini come degli adepti. L’accostamento tra responsabilità sociale e fede religiosa è evidente, tanto che
«Ora gli uomini hanno bisogno di confessare anche senza religione, e alla fine confessano. Bisogna essere grati almeno di questo alla religione»;
così, un elemento appartenente al passato come la spiritualità può essere utile nella società post-rivoluzionaria, grazie ai suoi meccanismi interni. Significativamente, molti cittadini della nuova nazione sono stati educati in seminario, come emerge dal dialogo tra Dale e l’Inquisitore:
“Lei parla come un mistico,” disse Dale. “Sono stato educato in seminario. Questa è bella, che siamo molti, usciti dal seminario. Poi ho perduto Dio. Ma si possono volere le cose perfette appunto perché s’è conosciuto io, e lo si è perduto. Dunque, io sarò troppo vecchio per l’umanità nuova e felice. E non mi rimarrà che scomparire. Noi siamo uno strumento. Niente altro che uno strumento di un’umanità migliore”.
Il modello è quello di una teocrazia in cui la divinità è costituita dalla collettività, mentre l’attesa escatologica si è risolta nella rivoluzione: il nuovo mondo è arrivato, mentre l’uomo nuovo «non è ancora nato». Si vuole instillare un senso religioso nel vivere sociale, di modo che lo stato incomba sulla collettività alla stregua di un Dio e, in quanto assoluto e trascendente, sia accettato senza discussioni:
“Sei sicura che tutta questa gente sia tranquilla e in pace?”
“Lo immagino.”
“Sei stata educata dai religiosi?”
“Che cosa ti salta in testa? I religiosi, i religiosi?” diceva Barbara con una reazione eccessiva, come se avesse la febbre.
“Sì, se fossi stata educata dai religiosi, ti accorgeresti che è la stessa cosa. che quando ti sei messa nell’animo l’idea del peccato non te la levi mai più. ti sembra sempre che qualcuno ti veda e ti giudichi. Qui è lo stesso. Per noi è lo stesso.”.
Il peccato originale è condiviso da tutti, e consiste nel fatto che potenzialmente tutti sono colpevoli di qualcosa di controrivoluzionario, ovvero di possedere e manifestare una propria individualità. Eppure la società stessa ha bisogno di qualcuno che abbia colpe, come d’altronde afferma proprio l’Inquisitore:
«nulla può fermare il colpevole sulla sua strada. Se mi fosse concesso dirlo, affermerei che noi amiamo il colpevole; noi lo seguiamo trepidamente; egli è l’amico e il compagno della nostra opera. Noi abbiamo bisogno di lui come egli ha bisogno di noi».
Nella comunità c’è posto per tutti, in un senso o nell’altro: ognuno si rivela necessario nell’affermare l’identità collettiva, anche un estraneo come Dale il quale viene “riassorbito” – pur nella sua ricerca di autenticità e verità – nel sistema globale.
La volontà di creare uno Stato-Dio è resa più complessa proprio dalla concessione della libertà e dalla apparente mancanza di costrizione nei cittadini. Gli agenti tentano di smorzare le accuse, di apparire umani e affabili: quando Barbara parla con l’Inquisitore nella Stanza n. 3, dove è andata a denunciare Dale (per il fatto, sostanzialmente, di averle fatto sentire di poter essere qualcuno) il funzionario si presenta gentile e comprensivo. Altrove l’inquisitore aveva detto che l’obiettivo è rendere tutti felici «per forza», un po’ come nel Grande Inquisitore lo stesso personaggio dostoevskijano immagina che nella società teocratica tutti saranno felici tranne coloro che si saranno fatti carico della gestione teocratica. In L’uomo è forte l’obiettivo è proprio questo, fare apparire lo stato come un garante della libertà, un’entità che non costringe nessuno a niente: si presuppone che i delitti, necessari allo Stato per giustificare la propria stessa esistenza, verranno comunque commessi da qualcuno. Tutti devono essere liberi di delinquere, perché ci si aspetta che qualcuno lo faccia; davanti all’inquisitore Barbara si rende conto che
«ella e Dale non erano colpevoli di quanto pensavano, ma di una colpa che echeggiava in profondità misteriose, in una specie di vita predestinata dalla stessa formazione delle loro fibre»,
alla stregua di una forza primigenia e universale. Il peccato è a monte, quasi religioso, e sarà espresso da qualcuno prima o poi – senza dimenticare che ogni qualcuno nella società di Alvaro si definisce soltanto in funzione della società stessa. La punizione seguirà a ruota e sarà di esempio per qualcun altro, magari ispirandolo a peccare similmente. Eppure, come abbiamo detto in precedenza, l’“uomo nuovo” non è ancora arrivato, e questo meccanismo non prosegue la propria corsa in modo semplice e indolore. La repressione di sé stessi conduce ad un inevitabile conflitto interno, ad una nevrosi che porta ad applicare la colpa a tutto e tutti (tanto che in diverse occasioni si parla di pazzia), in una ramificazione del sospetto che ha del kafkiano. “L’uomo è forte” si sviluppa proprio sulla spinta di un’inquietudine verso l’autorità organizzata che non può non ricordare proprio Der Process (Il processo, 1925) o anche Das Schloss (Il castello, 1926) dell’autore praghese. Nonostante la pervasività del sistema oppressivo, la narrazione sembra alludere alla possibilità di sfuggire alla presa soffocante della comunità. La deformazione umana che influenza inevitabilmente la storia d’amore tra Dale e Barbara, e che vede quest’ultima non riuscire a sopportare il senso di colpa dato dalla vicinanza a Dale, trova le proprie fondamenta nella corporeità. La causa della stabilizzazione interna di Barbara, che la conduce infine a denunciare Dale senza avere una chiara cognizione delle motivazioni, sembra innescarsi proprio nella rinnovata coscienza della propria materialità. Quando Dale è lontano Barbara lo desidera, quando è vicino lo odia: la storia d’amore si basa sulla contraddizione dei corpi. Lo Stato oppressivo di L’uomo è forte è nuovo, rivoluzionario, testo principalmente al distacco assoluto dal passato e dalla materia. A questa qualità eterea, fondata su senso di colpa e prospettiva politica, si oppone l’affetto di Dale per Barbara, il quale si manifesta con oggetti e doni materiali nonché tramite la semplice presenza fisica. Il corpo è infatti, insieme allo spirito, la parte umana indivisibile dall’individuo, «una cosa inalienabile»; averne coscienza tramite i piaceri fisici (i più elementari sono espressi dai cibi portati da Dale, come il tè e il vino) e tramite la percezione di sé stessi nello spazio (la necessità di nascondersi nelle scale, negli androni, la sensazione di essere osservati) causa un automatico senso di colpa tra i cittadini di L’uomo è forte. Mangiare buon cibo, appagarsi e sentirsi «bene come un animale» è un atto di circoscrizione personale, di isolamento dal continuo confondersi con il resto della società. Questa corporeità va dunque distinta da quella della massa, la quale si rivela invece l’ennesimo segnale dell’annullamento nel gruppo. Quando Dale si imbatte nel comizio, per strada, la folla è composta da «pupazzi»,immersi in una «calca urlante»:
Le grida parevano gemiti di dolore; le donne strillavano come prese da una voluttà feroce; come su un corpo gigantesco e comune a tutti, gli ondeggianti della folla stampavano ripugnanti escrescenze e tumori; da queste escrescenze e questi tumori vibravano le grida.
Nella fisicità individuale di Barbara e Dale, invece, si nasconde un’affermazione positiva nei confronti di un Altro. Se Barbara e Dale avessero perseverato in sé stessi, si sarebbero forse risolti a resistere, e il titolo definitivo, “L’uomo è forte”, può alludere tanto alla capacità di reprimere la propria natura quanto alla necessità di opporsi al mondo. Il finale del romanzo, comunque, dimostra che per quanto la struttura psico-politica sia onnipervasiva, i dubbi sulla sua legittimità esistono anche tra i suoi componenti. Ciò si vede nel caso del miliziano Isidoro, il quale si sente accomunato a Dale – che dovrà fucilare in quanto traditore e disertore – dalle comuni origini provinciali, peraltro riconosciute da un gesto semplice e insieme atavico, quello di accendere il fuoco. L’idea di avere origini comuni, che siano
«tutti e due della stessa fatta. Di campagna, tutti e due della campagna. Le stesse idee, gli stessi giochi, e le stesse donne, le stesse case»,
cioè di essere quasi la stessa persona, non riesce però a frenare il miliziano. Anzi, forse proprio per questo rivedersi in Dale, nel trovare in lui la funzione di colpa che potrebbe toccare a chiunque, Isidoro adempie comunque alla propria funzione sociale, e spara a Dale. E anche subito dopo Dale, sopravvissuto e ricoverato in ospedale, continua ad assolvere il proprio ruolo sociale, passando da assassino e fuggitivo a vittima delle Bande (nonostante a sparargli sia stato appunto Isidoro che è uno dei Partigiani). In L’uomo è forte non è importante chi si è, o chi si è stati, né quello che si sente; importa cosa si può essere, la potenzialità, ogni particella del libero arbitrio, la quale deve essere ricondotta alla società; che si finisca col commettere il delitto, o che se ne sia delatori, ogni movimento, pensiero e sentimento può e deve essere devoluto interamente al Leviatano – tanto biblico quanto politico – dello Stato.
Fonte
https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/letteratura-e-scienze/CORIGLIANO.pdf
Biografia
https://www.fondazionecorradoalvaro.it/pdf/biografia-corradoalvaro.pdf