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La Redazione

 

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REGOLARE I CONTI CON LA NATURA

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A cura di supervice
Il 10 Gennaio 2012
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DI ANTONIO TURIEL
The Oil Crash
Effetto Cassandra

Traduzione di Massimiliano Rupalti

Cari lettori,
un mio collega di laboratorio di tanto in tanto realizza campagne oceanografiche in Antartide. Un paio di anni fa, ebbe l’occasione di trovarsi coi sui vecchi amici in un ambiente che aveva visitato più di venti anni prima. Al ritorno mi ha raccontato molte storie sul suo viaggio, del fatto che avesse rivisto il suo vecchio vascello di ricerca oceanografica, i colleghi che ancora sono imbarcati lì…Poi è diventato pensieroso e mi ha detto: “Sai, la cosa peggiore non è che ogni volta ci sia più mare libero. Vent’anni fa gli iceberg erano bianchi, ora sono azzurri.” Risposi: “Già”, e siamo entrambi rimasti in silenzio.

Il colore del ghiaccio

indica la quantità di aria che si trova intrappolata al suo interno;

nella misura in cui il ghiaccio resta intrappolato a maggior profondità

ed è sottoposto a maggior pressione, l’aria tende a fuoriuscire ed

il ghiaccio diventa sempre più azzurro. Quegli iceberg che aveva visto

il mio collega erano di ghiaccio vecchio, probabilmente molto vecchio,

ghiaccio che non aveva visto la luce del Sole da molto tempo, probabilmente

da secoli. Lavorando in ciò in cui lavoro trovo molto scioccante sentire

le urla ostinate del negazionismo climatico, poiché giorno dopo giorno

i miei colleghi mi raccontano delle loro campagne di lavoro, o quelle

dei loro colleghi, con una copertura pressoché globale.

Raccontano che i clatrati dei fondali marini in alcune zone stanno evaporando, che le specie di pesci ed insetti tropicali si stanno spostando a latitudini più alte, che nelle specie di pesci presso le quali il sesso viene determinato dalla temperatura si osserva una sproporzione di femmine, che le temperature del Polo Nord e della Groenlandia superano di 8 gradi la media del XX secolo in modo costante, che la maggior parte dei ghiacciai della Groenlandia stanno accelerando la perdita di ghiaccio e il fronte degli stessi retrocede, che la calotta di ghiaccio dell’Artico è sempre più sottile, che si cominciano a vedere terre libere da ghiaccio in Antartide durante l’estate australe…

E questo senza tener conto di effetti più sottili come l’aumento dell’evaporazione e del suo possibile collegamento con l’aumento di eventi estremi (precipitazioni più intense in certi luoghi e, paradossalmente, siccità più pronunciate in altri, a seconda dei capricci della circolazione atmosferica generale). Se c’è qualcosa di evidente, questo è che si sta verificando un cambiamento del clima veloce e su larga scala, di una ampiezza maggiore di quello che ci mostrano i registri dell’ultimo milione di anni (escludendo le glaciazioni che sono di segno contrario) e, per quanto insensatamente possano insistere i negazionisti, scollegato dai cicli dell’attività solare.

Ugo Bardi osserva che certi effetti indesiderati dell’attività industriale lasciano un pesante fardello alla società, sotto forma di inquinamento – inteso in senso ampio, come ora vado a spiegare. Questo fardello è inizialmente leggero, irrilevante, e la società può farvi fronte facilmente, la maggior parte delle volte ignorandolo.

Tuttavia il suo effetto è generalmente cumulativo, per cui la sua presenza finisce per essere generalizzata e alla fine la società deve dedicare sempre maggiori risorse per tenerlo a bada. Nel momento in cui la società entra in una fase di declino energetico causata dall’arrivo del Picco del Petrolio e del Peak Everything
(
la
Grande Scarsità
) il contenimento degli effetti di questo inquinamento è letteralmente una necessità vitale, ma in questo momento la scarsità di risorse mette la società di fronte ad un crudele dilemma: o destina risorse per rimediare – o, per meglio dire, mitigare – il disastro precedente e quindi diminuisce ancora di più la propria capacità produttiva o ignora il problema dell’inquinamento come ha sempre fatto e quindi questo, di proporzioni già gigantesche, chiederà il suo pedaggio di vite umane e infrastrutture distrutte.

In entrambi i casi il risultato è un declino della società più brusco di quanto previsto dagli stessi modelli che predicono l’esaurimento delle risorse. È ciò che Bardi chiama effetto Seneca. La conseguenza più immediata dell’effetto Seneca è che il collasso della società è molto più probabile di quanto si possa pensare, tenendo in considerazione che il discorso implicito di questa società è che le questioni ambientali sono secondarie.

A questo punto è importante chiarire una cosa: è vero che i nostri leader si riempiono la bocca con la necessità di rispettare l’ambiente, cosa di cui la lotta ai cambiamenti climatici è diventata una bandiera. Analogamente i nostri mezzi di comunicazione ripetono monotonamente che dobbiamo proteggere l’ambiente e promuovono campagne di sensibilizzazione basate su piccoli gesti in suo favore. Il che va molto bene, ma è ampiamente insufficiente rispetto a quello che si dovrebbe fare. Tuttavia, quando si arriva al momento di essere seri, quando si dovrebbero adottare le misure drastiche e decidere, per esempio, di ridurre drasticamente il volume di emissioni della CO2, allora i discorsi si riempiono di frasi vuote e alla fine non si fa nulla. Perché? È già stato spiegato in un post precedente: per scarsa lungimiranza e per timore di compromettere la crescita economica, che è il Sancta Sanctorum dell’agenda politica.

Per questo il vertice di Durban sarà un nuovo fallimento. Su scala più locale, quando parli con un imprenditore, e anche con la gente per strada, a volte arrivano a dire esplicitamente quello che è il sentire di gran parte della popolazione: “Sì, va bene avere uccellini e fiorellini, l’ambiente e così via, ma la prima cosa è avere da mangiare, sa?, e l’economia
è la base di tutto
.” Il sentire popolare è che la conservazione dell’ambiente non è una battaglia tanto vitale, alla stessa stregua del fatto che non si percepisce l’urgenza di superare la nostra dipendenza dalle risorse non rinnovabili e, in buona parte, è dovuto allo stesso motivo: perché non ha riflessi immediati, qui ed ora, sulle nostre condizioni di vita.

La nostra strategia animale, come specie e come individui, ci porta a restare a guardare i pericoli concreti che esistono, aspettando che i pericoli futuri diventino presenti, prima di reagire, senza cercare di capire che quando questi si presenteranno alla nostra porta, la loro grandezza ci travolgerà e ci fagociterà. Questo significa che non c’è salvezza, che la scarsa lungimiranza è un fattore determinante del nostro comportamento e che è impossibile agire in un altro modo?
No. La nostra mancanza di lungimiranza è un risultato logico della nostra psiche animale, del nostro comportamento istintivo.

Tuttavia, siamo esseri razionali e come tali possiamo superare i nostri impulsi irrazionali e porre le basi per fare le cose correttamente. Ciò che manca è conoscere i fatti ed affrontarli serenamente e senza pregiudizi. E siccome il miglior modo di imparare è attraverso la virtù dell’esempio, vado ad esporre alcuni esempi dei costi naturali differiti che possono rivelarsi insormontabili nell’epoca di scarsità e che già richiedono la nostra attenzione prioritaria.

La gestione delle scorie nucleari, in particolar modo quelle ad alta radioattività.

Lo abbiamo scritto all’esordio di questo blog e ne abbiamo parlato mercoledì scorso in radio. Come la tragedia di Fukushima ha reso evidente, le centrali nucleari contengono le barre di combustibile usate normalmente in piscine sottoposte a refrigerazione o pompaggio costante, mentre queste vanno via via raffreddandosi e in attesa che possano essere manipolate.

Siccome il processo che ha luogo non è chimico ma nucleare, la nostra esperienza del giorno dopo giorno non è valida; le quantità di energia implicate sono enormi e la loro latenza inverosimile: devono passare normalmente cinque anni prima che si possano manipolare queste barre, tale è il calore e la radiazione che liberano. Ma questo non significa che siano già fredde: si dovranno ancora raffreddare per diversi decenni, normalmente per 60 anni, prima di poterle confinare in un contenitore solido definitivo e senza raffreddamento. E’ chiaro che un deposito di scorie con queste caratteristiche è un’installazione che ha un considerevole consumo di energia e che richiede una monitorizzazione costante e specializzata.

Data la situazione di degrado economico che stiamo vivendo e l’inevitabile decrescita energetica che si andrà accentuando sempre di più, è legittimo mettere in dubbio che si possano mantenere operative queste installazioni non produttive per troppo tempo. Ricordiamo che solo per il petrolio nei prossimi dieci anni si devono mettere in produzione quattro Arabie Saudite, circa 36 Mb/d, che il gas sarà prossimo al picco, che il carbone probabilmente lo avrà già superato e probabilmente anche l’uranio.

E questo nel giro di dieci anni; cosa ne sarà, non già dei sessanta anni di “raffreddamento” nucleare, ma dei trenta? Ad un altro livello di fabbisogno energetico ci sono i depositi di scorie di media e bassa radioattività e quelli ad alta radioattività quando non siano più tanto caldi. Come si potrà garantire il loro perfetto contenimento durante i molti secoli che passeranno prima che smettano di essere pericolosi? Chi si farà carico di cambiare i bidoni quando sia necessario a causa del passare del tempo e della corrosione, parzialmente provocata dalle scorie stesse?

E’ evidente che ad un certo punto le attività in relazione alla gestione delle scorie cesseranno e queste saranno abbandonate a se stesse. A partire da lì partirà un processo – lento nel caso delle scorie fredde, abbastanza più veloce nel caso di quelle calde – di dispersione e contaminazione. Le scorie arriveranno nelle falde acquifere ed ai terreni circostanti, contaminandoli. Ciò non significa che la vita sparisca completamente in queste zone (il livello di radiazioni non sarà alto a sufficienza per sterilizzarle) ma la vita stessa sarà generalmente più breve è minacciata da tumori ed intossicazioni. La portata di questo inquinamento dipenderà dal tipo di scorie e da come collassi l’installazione di contenimento, ma l’area seriamente compromessa sarà prevedibilmente di vari chilometri di raggio.

In questo senso, è probabile che molte centrali nucleari attualmente in uso, finiscano per essere abbandonate alla loro sorte dopo la loro dismissione, per cui dovremo annoverarle come possibili depositi improvvisati ed inquinanti. Una menzione speciale la meritano qui le centrali gravemente compromesse da un incidente nucleare, come quella di Cernobyl in Ucraina (dove attualmente si sta costruendo un secondo sarcofago di contenimento, essendo quello originale strutturalmente già compromesso) o i tre reattori collassati della centrale di Fukushima in Giappone. Le attività di contenimento di questi reattori sembrano essere molto intense – nel caso di Cernobyl , due grandi strutture di calcestruzzo in 25 anni, più tutte le attività di decontaminazione e vigilanza – e in questo caso un suo non contenimento implica un inquinamento dei più nocivi nell’area circostante.

Conviene anche evidenziare che la gestione stessa delle armi nucleari (queste migliaia di testate nucleari che si trovano diffuse in tutto il globo) può presentare problemi importanti in caso di grave collasso della società; prevedo che uno scenario probabile – entro alcuni decenni, quello sì – sarebbe lo smantellamento dei missili per sfruttare il combustibile di propulsione e l’immagazzinamento dei missili in qualche deposito militare. Ma a poco a poco il costo di sostituzione del contenimento può diventare proibitivo. In ogni caso, inoltre, si dovrà contare su personale ed equipaggiamento specializzati, sempre più cari da ottenere in uno scenario di declino energetico ed economico.

Insomma, i costi crescenti di tutte queste installazioni permettono di ipotizzare che un loro abbandono quantomeno parziale sia praticamente inevitabile, con la conseguenza che estese aree produttive di molti paesi rimarranno alla fine devastate, rendendo il declino più rapido del previsto.

La gestione dell’acqua

I problemi di inquinamento ambientale sono abbastanza gravi e tutti richiedono un sistema di monitoraggio e mitigazione per evitare che abbiano un

impatto non solo sociale, ma anche economico, nella nostra società.

Si segnala in particolare il trattamento dell’acqua, poiché l’acqua

è veicolo per la dispersione di sostanze su larga scala e un vettore

perfetto per via dell’ingestione diretta o indiretta nell’organismo

delle persone. I nostri sistemi di potabilizzazione dell’acqua per il

consumo umano e per l’irrigazione, richiede grandi quantità di energia.

In parte frutto della nostra attività industriale, i nostri fiumi sono

più inquinati e bisogna mettere in atto controlli speciali e trattamenti

per eliminare le sostanze tossiche, prima che arrivino in qualsiasi

punto della catena trofica e non solo all’acqua potabile. Problemi ricorrenti

dell’inquinamento dell’acqua sono la presenza di arsenico a causa del sovrasfruttamento delle falde acquifere, di metalli pesanti come cadmio, zinco, piombo e mercurio provenienti dall’attività industriale, di purine a causa delle attività di allevamento, delle diossine di diversa provenienza e della presenza, di per sé naturale, di batteri ed altre sostanze.

Trattare l’acqua prima e dopo il consumo è oggigiorno un compito complesso che richiede installazioni specializzate, che necessitano di capitali ingenti, di reagenti chimici e, perché no, di energia. Già nell’attuale situazione di ristrettezza economica c’è una certa tendenza all’abbandono di una parte di questo trattamento delle acque, normalmente delle acque reflue, come abbiamo detto in una precedente occasione nel caso della Spagna.

Nella misura in cui il declino energetico vada lasciando meno risorse energetiche disponibili, saranno richiesti più soldi alla popolazione, finché, ad un certo punto, tali servizi non saranno più forniti su larga scala. Il non trattamento dell’acqua moltiplicherà i problemi di salute della popolazione, che in certe occasioni saranno molto gravi, il che obbligherà a deviare altre risorse per la cura dei malati e diminuirà la mano d’opera disponibile.

A causa della concentrazione dei problemi intorno alla installazioni
industriali, le grandi città e le popolazioni molto industrializzate si vedranno particolarmente minacciati da questo problema, il quale sicuramente comporterà una crescente sensazione di insalubrità per il fatto di vivere in questi luoghi e che una parte crescente della popolazione li abbandoni, accelerando il declino della società.

Effetti direttamente associati al
cambiamento climatico

Quello che la gente è solita pensare in relazione a questo tema è l’innalzamento delle acque marine o, eventualmente, i fenomeni estremi (siccità prolungate, temperature letali in estate, uragani alle latitudini tropicali, tempeste devastanti, ecc). Tutto ciò è possibile ma non è necessariamente ciò che ci può portare all’ “effetto Seneca” più rapidamente.

Ci sono, invece, una miriade di effetti sottili, che si potrebbero realizzare in una scala temporale più breve, che possono trasformare vaste aree della Terra rendendole poco adatte alla vita umana, perlomeno nella sua attuale dimensione numerica, e in un modo molto più prosaico. Uno di questi effetti è lo spostamento a latitudini più alte di insetti propri dei climi tropicali. Molti di questi insetti sono vettori di
malattie inesistenti dalle nostre parti, non solo quelle umane, anche
quelle degli animali: un’infinità di virus, batteri, funghi, parassiti vari, per i quali la concentrazione di uomini ed animali, nella quale siamo tanto prodighi, può essere l’equivalente di avvicinare la fiamma alla paglia.

Alcune di queste piaghe non è necessario che colpiscano uomini e bestiame, ma i loro pascoli: avendo ridotto la diversità genetica delle nostre semine, le abbiamo rese più vulnerabili ad agenti che qui non sono abituali, ma che potrebbero cominciare ad esserlo. Avete sentito del fungo che sta distruggendo le coltivazioni di grano in Africa e che avanza verso nord?
E dell’emergenza dei
nuovi insetti resistenti ai ceppi del mais insetticida della Monsanto?

Un altro di questi effetti sottili sono alcune alterazioni climatiche regionali, niente di spettacolare, ma determinanti per la sostenibilità agricola di certi territori. Per esempio, in Europa la constatata diminuzione dell’estremità della Corrente del Golfo che passa lungo il nord Atlantico, evidenza che questo flusso di acqua calda potrebbe finire per arrestarsi. Se ciò dovesse accadere, l’Europa diventerebbe più secca e fredda, per cui l’agricoltura europea vedrebbe sensibilmente ridotti i propri rendimenti. E, come dicevo, questi sono solo alcuni della miriade di effetti nocivi che complicheranno la nostra esistenza nei prossimi decenni e contro i quali non potremo opporre la magnifica potenza che ci hanno fornito i combustibili fossili.

Erosione del suolo e perdita di
suolo coltivabile

Il modello di agricoltura intensiva praticato per anni ci ha portato, per molti aspetti, in un vicolo cieco. Alcuni studi suggeriscono che l’agricoltura industriale che pratichiamo finisce, alla lunga, per rendere meno di coltivazioni fatte con tecniche più tradizionali (uno studio recente delle Nazioni Unite afferma che l’agricoltura ecologica potrebbe rendere fino al doppio di quella industriale).

Di fatto, uno dei problemi gravi dell’agricoltura industriale è l’abuso di fertilizzanti e dell’aratura del suolo. Il fertilizzante in eccesso finisce nelle falde acquifere e nei fiumi, inquinando ampie zone e generando anche delle zone morte nel mare a causa dell’eutrofizzazione. E l’eccesso di aratura lascia esposti strati di suolo fertile che possono essere erosi dal vento (ed anche dal dilavamento e dall’esposizione alla luce del Sole, che uccide la vita dei microrganismi, ndT).

La realtà è che la parte fertile dei suoli coltivabili ha, in gran parte del pianeta, uno spessore di pochi centimetri e che per rigenerare un paio di questi centimetri serve circa un secolo di deposito naturale di materia organica. Ma noi lo stiamo erodendo e degradando molto più rapidamente. La cosa giusta sarebbe evitare di arare troppo le terre coltivate per non ridurre la loro fertilità, ma con l’apporto di fertilizzanti naturali la strategia della lavorazione intensiva era molto più redditizia. Il problema è che dopo decenni di queste pratiche, ampie aree degli Stati Uniti e del Regno Unito hanno un suolo coltivabile che è come una spugna: è sprovvisto di nutrienti naturali ed è produttivo solo aggiungendo fertilizzanti artificiali. Fertilizzanti come l’azoto, che si sintetizza a partire dal gas naturale e i fosfati, che derivano dalla roccia di fosfato, che ha superato il picco estrattivo anni fa (Il Picco del Fosforo).

Senza sufficienti input di materiali ed energia, il rendimento agricolo scenderà drasticamente, specialmente in quelle terre che già ora non funzionano senza apporti esterni. E venendo meno la capacità di mantenere ben nutrita la popolazione, questa si disperderà (il problema, ovviamente, è capire dove). Siccome pare che non ci sia fine al peggio, risulta che anche che si sia abusato delle risorse idriche in molti ambienti, sempre alla ricerca di rendimenti crescenti; il che potrebbe riportarci con la memoria a tempi fatidici che pare abbiamo dimenticato, come il Dust Bowl. Non è un’esagerazione: alcuni contadini degli Stati Uniti denunciano che l’attuale modello di sfruttamento potrebbe portare ad un nuovo Dust Bowl, come se una maledizione biblica ci portasse a ripetere gli scenari degli anni trenta del secolo scorso, sia in senso economico sia in senso ambientale.

Solo che stavolta il problema si produrrebbe in molti punti del Globo,
come
per esempio in Arabia Saudita.

Gestione non rinnovabile di risorse
rinnovabili

Nonostante possa sembrare paradossale, una risorsa rinnovabile si potrebbe esaurire se viene sfruttata in modo eccessivo (sovrasfruttamento). La gente percepisce intuitivamente questo problema quando si tratta di un bosco (se lo tagliamo più rapidamente di quanto crescano gli alberi, finiremo per spianarlo), ma è un problema generalizzato: peschiamo pesce più rapidamente di quanto esso si riproduca (abbiamo già detto che al ritmo di pesca attuale stermineremo tutti i pesci di tutti i mari entro il 2030/2050), tagliamo boschi per fare nuove coltivazioni, abusiamo dell’acqua delle falde, dei fiumi e delle paludi, ecc. Di fatto, è abbastanza difficile sapere a priori se una scala concreta di sfruttamento di una risorsa sarà o no sostenibile.

Per esempio, è difficile sapere quanta biomassa si può sottrarre ad un bosco o un’area, soprattutto tenendo conto del fatto che processi come l’esaurimento del fosforo sono lenti e non sempre evidenti. In ogni caso c’è sempre un limite massimo di sfruttamento, se non vogliamo degradare o eventualmente distruggere una risorsa rinnovabile. Ma, scarseggiando le risorse non rinnovabili, per mantenere il Business as Usual è naturale bruciare tutto il bruciabile, fregandosene del futuro. Questo accelererà la caduta, a mo’ di effetto
Seneca, posto che la risposta delle risorse rinnovabili non sarà all’altezza
delle nostre aspettative, nate nell’epoca d’oro dei combustibili fossili.

Niente di tutto ciò è nuovo. Il rimpianto Quin faceva già riferimento a questo
problema nel suo post “
È
successo nel 1980
“,
nel quale commentava un articolo della prestigiosa Proceeding of
the National Academy of Sciences
, dal titolo “
Tracking the ecological overshoot of the human economy” di Mathis Wackernagel e dei sui collaboratori. Il grafico parla da solo: dal 1980 la Terra non è più sufficiente per mantenere il nostro stile di vita.

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Si può riassumere questa storia con concetti intelligibili per gli economisti: siamo passati dal vivere dalla rendita della Terra al vivere del suo capitale. Logicamente questa situazione non può durare all’infinito e in qualche modo l’effetto Seneca è ciò che riflette la necessità di pagare questo debito che abbiamo accumulato. Perché, di nuovo, si tratta di un problema di debito: abbiamo preso in prestito dal futuro per vivere meglio nel presente, senza preoccuparci di caricare le conseguenze sulle generazioni future. La stessa logica della bolla finanziaria ma su scala temporale maggiore. Pertanto, il deficit ecologico è la versione, nel mondo delle risorse, del problema del debito, e l’effetto Seneca diventa il default del debito ecologico.

Naturalmente le cose non possono che prendere il peggior corso possibile, ma quello che è chiaro, ed è ciò che viene reso evidente dall’effetto Seneca, è che più tardiamo a ridurre l’uso delle risorse, più ci costerà. La visione a breve termine analizzata nel precedente post, spiega perché questi temi non sono presi in considerazione, poiché l’obbiettivo è crescere a tutti i costi, anche se sprechiamo.

Un’altra cosa importante è che preservare l’ambiente e combattere le esternalità è, in realtà, un buon affare, anche dal punto di vista finanziario, perché fa risparmiare sui costi futuri, i quali non solo saranno in assoluto in crescita, ma lo saranno molto di più in relazione a un PIL che non può più crescere ma che diminuirà, poiché questa crisi non finirà mai.

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Fonte: Regolare i conti con la Natura

07.01.2012

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