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DI JEFF HALPER
Counterpunch

La Strategia d’Israele per l’Occupazione Permanente

Si potrebbe legittimamente pensare che la disputa all’interno della comunità ebraica di Israele contrapponga le destre, che vogliono mantenere gli insediamenti ad est di Gerusalemme e il West Bank [Cisgiordania] in modo da “riscattare” la Grande Terra d’Israele quale nazione ebraica, e le sinistre che cercano con i palestinesi una soluzione che preveda due Stati e sono così disposti a rinunciare a una sufficiente quantità dei “territori”, se non a tutti, affinché possa sorgere uno Stato palestinese autonomo.

Ma le cose in effetti non stanno così. I sondaggi e la composizione del governo israeliano suggeriscono che forse un quarto degli ebrei d’Israele appartiene al primo gruppo, i duri a morire, mentre non più di un 10% sostiene un completo ritiro dai territori occupati. (Effettivamente nessun ebreo israeliano usa il termine “occupazione”, che Israele nega di compiere). La grande maggioranza degli ebrei israeliani, che va dal partito liberale Meretz attraverso quello laburista, il Kadima, fino all’ala “liberale” del Likud, con la sola eccezione dei partiti religiosi e dell’estrema destra guidata dall’ex Primo Ministro Benjamin Netanyahu e dall’attuale Ministro per gli affari strategici, Avigdor Lieberman, è ampiamente d’accordo: sia per motivi di sicurezza sia per “i fatti sul terreno” di Israele, gli arabi (come noi [israeliani] chiamiamo i palestinesi) dovranno accontentarsi di un mini stato mutilato e costituito da non più del 15-20% del Paese tra il Mediterraneo e il fiume Giordano.

Ma la cosa più importante è l’essere d’accordo sul fatto che la decisione se rinunciare al territorio e in che quantità, spetti esclusivamente a Israele. Potremo offrire ai palestinesi un qualche tipo di “proposta generosa” se si comporteranno bene e si adatteranno ai nostri obbiettivi, tuttavia ogni iniziativa nella direzione della “pace” deve essere unilaterale. I palestinesi possono suggerire una preferenza, ma la decisione è nostra e soltanto nostra. Il nostro potere, la nostra preoccupazione onnicomprensiva per la sicurezza e per il piano fanno si che gli arabi non siano considerati affatto un limite (eccetto come fattore di disturbo) a qualunque processo di pace che preveda, al massimo, una disponibilità a garantire un minuscolo Bantustan diviso in quattro o cinque distretti, e completamente circondato dagli insediamenti e dall’esercito israeliano. Il controllo israeliano dell’intera Terra di Israele, sia per ragioni religiose, che nazionali o di sicurezza è un fatto scontato da non mettere mai in discussione.

Naturalmente per i palestinesi questo è del tutto inaccettabile. E non per il fatto in sé, ma in quanto si solleva un problema fondamentale. In qualunque autentico negoziato che conduca a un intesa sostenibile e reciprocamente concordata, Israele dovrebbe rinunciare a molto più di quanto non sia disposta in effetti. E’ necessario che di tanto in tanto i negoziati abbiano luogo, almeno per dare una buona immagine di Israele quale paese alla ricerca della pace –Annapolis è semplicemente l’ultima farsa – ma che non possono mai condurre ad alcun reale progresso in quanto i due terzi degli ebrei sostengono la presenza permanente, civile e militare, di Israele nei territori occupati precludendo lo sviluppo di uno Stato palestinese autonomo. Ma come può Israele mantenere la maggior parte dei suoi insediamenti , una Grande Gerusalemme e il controllo su territorio e confini senza apparire intransigente? Come può conservare la sua immagine di unico cercatore di pace e vittima del terrorismo arabo, sotto cui si cela la propria violenza, e di fatto proprio l’occupazione, con lo scopo di scaricare la responsabilità sui palestinesi?

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La risposta per i passati 40 anni di occupazione è stata lo status quo, il ritardo, mentre silenziosamente si andavano allargando gli insediamenti e si estendeva il controllo sulla Giudea e la Samaria (ribadisco, non usiamo il termine “occupazione” o “territori occupati” in Israele, per non parlare poi del nome “palestinese”). Comunque, esaminiamo il periodo che precede Annapolis e i negoziati promessi da Israele. Il Primo Ministro israeliano Ehud Olmert ha detto recentemente che “Annapolis è una pietra miliare sulla via dei negoziati e dell’ autentico sforzo per immaginare le due nazioni: lo Stato di Israele – la nazione ebraica; e lo Stato palestinese – la nazione dei palestinesi”. Suona bene, vero?

Ora esaminiamo le pre-condizioni che Israele ha imposto proprio le due settimane prima di Annapolis:

Ridefinire la Fase 1 della Road Map. La prima Fase della Road Map, la vera base dei negoziati, esige che Israele congeli la costruzione dei suoi insediamenti. Cosa che Israele ovviamente non farà. Così, sulla base di una lettera che il precedente Primo Ministro Ariel Sharon ha ricevuto dal Presidente Bush nel 2004, – un cambiamento fondamentale nella politica americana che tuttavia non vincola gli altri membri del “Quartetto” della Road Map: Europa, Russia e ONU – Israele ha annunciato che considera le aree che il Quartetto ritiene “occupate” unicamente quelle ricadenti fuori dai propri maggiori blocchi di insediamenti e dalla “Grande” Gerusalemme. Così, unilateralmente, Israele (e apparentemente gli USA) ha ridotto il territorio da negoziare con i palestinesi dal 22% al 15%, e lo ha frammentato in distretti.

Richiedere il riconoscimento di Israele come “Stato ebraico”. Ai palestinesi è richiesto di riconoscere formalmente lo Stato di Israele. Lo hanno già fatto nel 1988 quando hanno accettato la soluzione dei due Stati, all’inizio del processo di Oslo e ripetutamente per il ventennio passato. Ora giunge una nuova richiesta: che prima di qualunque negoziato riconoscano Israele come Stato ebraico. Questo non solo introduce un elemento completamente nuovo che Israele sa che i palestinesi non accetteranno, ma pregiudica lo status egualitario dei cittadini palestinesi d’Israele, il 20% della popolazione israeliana. Questa è la via che porterà al trasferimento, alla pulizia etnica. Tzipi Livni, il Ministro degli Esteri di Israele, recentemente ha dichiarato in una conferenza stampa che il futuro dei cittadini arabi di Israele è in un futuro Stato palestinese, non in Israele.

Creare insormontabili ostacoli politici. Due settimane prima di Annapolis, al Knesset, il parlamento israeliano, è passata una legge dove si stabiliva che occorresse una maggioranza dei due terzi per approvare modifiche nello stato giuridico di Gerusalemme, una soglia impossibile.

Attuazione ritardata. OK, il governo israeliano dice: negozieremo. Ma l’attuazione di qualunque accordo seguirà solo alla completa cessazione di ogni resistenza da parte dei palestinesi. Dato che Israele considera la resistenza, armata o non violenta, una forma di terrorismo, questo erige un altro ostacolo insormontabile prima di qualunque processo di pace.

Dichiarare uno Stato palestinese di “transizione”. Se tutto ancora fallisce – non essendo effettivamente una opzione né la negoziazione con i palestinesi né la rinuncia all’occupazione – gli USA, per ordine di Israele, possono fare in modo di saltare la Fase 1 della Road Map e passare direttamente alla Fase 2, che esige prima la nascita di uno Stato palestinese di “transizione”, i cui confini effettivi, il territorio e la sovranità saranno stabiliti nella Fase 3. Questo è l’incubo palestinese: essere rinchiusi indefinitamente nel limbo di uno Stato di “transizione”. Per Israele è l’ideale, poiché si offre la possibilità di imporre i confini e di espandersi ancora nelle aree palestinesi unilateralmente, eppure, poiché il fatto compiuto è solo di “transizione”, di farlo sembrare conforme alla richiesta della Road Map di decidere sulle questioni finali attraverso i negoziati.

Il risultato finale verso il quale Israele sta procedendo deliberatamente e sistematicamente dal 1967, può essere definito soltanto apartheid, che significa “separazione” per gli Afrikaner, esattamente lo stesso termine che Israele usa per descrivere la propria politica (hafrada in ebraico). Ed è apartheid nel senso stretto del termine: una popolazione separata dal resto, da dominare poi, in modo permanente e istituzionalmente, attraverso il regime politico di uno Stato d’Israele allargato che chiude i palestinesi in distretti dipendenti e impoveriti. La questione prioritaria per il governo di Israele allora non è come raggiungere la pace. Se pace e sicurezza fossero veramente in questione, Israele avrebbe potuto raggiungerle 20 anni fa, concedendo il 22% del territorio richiesto per dare vita ad uno Stato palestinese autosufficiente. Oggi che il controllo israeliano è infinitamente più forte, il popolo ebraico d’Israele e il governo che questo elegge si chiedono: perché dovremmo concedere qualcosa di significativo? Godiamo della pace con Egitto e Giordania, e la Siria è moribonda per negoziare. Abbiamo relazioni con la maggior parte degli stati arabi e musulmani. Godiamo dell’assoluto e acritico appoggio dell’unica superpotenza del mondo, sostenuta da una Europa compiacente. Il terrorismo è sotto controllo, il conflitto è stato reso gestibile, l’economia israeliana è in espansione. Che cosa c’è che non va in questo quadretto? si chiedono gli israeliani.

No, la questione per Israele è piuttosto come trasformare la sua Occupazione da quello che il mondo considera una situazione temporanea a un fatto politico permanente accettato dalla comunità internazionale, de facto se proprio ce ne fosse bisogno, e quindi formalmente, se l’apartheid potrà essere affinato in una soluzione a due Stati. E questo è il dilemma, e l’origine del dibattito all’interno del governo israeliano: persistere nella strategia che ha funzionato così bene nei precedenti 40 anni, rimandare o prolungare i negoziati così da mantenere lo status quo, rafforzando il controllo sui territori palestinesi o, in questo unico ma effimero momento della storia in cui Gorge Bush è ancora in carica, provare a inchiodarlo definitivamente, costringendo i palestinesi a uno Stato di transizione secondo lo schema della Road Map?

Olmert, seguendo Sharon, preme per la prima ipotesi. Netanyahu, Lieberman, l’ala destra (che include molti dello stesso partito di Olmert) e significativamente il presidente dei laburisti e il Ministro della Difesa Ehud Barak, pur sempre un falco militare, resistono nel timore che persino un processo di finti negoziati potrebbe sfuggire di mano, e creare aspettative in Israele. Meglio, dicono, continuare con la politica sperimentata e certa dello status quo che può, se perseguita con astuzia, essere esteso indefinitamente. Inoltre, Bush è fuori uso, e nessuna pressione sarà fatta su Israele fino al Giugno 2009, e fino ad al meno i sei mesi successivi all’insediamento del prossimo presidente americano, Democratico o Repubblicano che sia. Siamo proprio a posto fino ad allora; perché quindi dondolare la barca? L’unico periodo difficile per Israele è rappresentato dai due anni al centro di un mandato presidenziale. Possiamo resistergli. Annapolis? Cercheremo di ottenere con cautela l’apartheid, sperando che Abu Mazen [Mahmoud Abbas], punzecchiato dall’inviato del Quartetto Toni Blair, giochi il ruolo del collaboratore. Se questo non funziona, bene, lo status quo è sempre una opzione affidabile.

Intanto, per tutto il tempo che gli israeliani godranno di pace, di quiete e di un buon andamento economico, per tutto il tempo che resteranno convinti che la sicurezza richieda che Israele mantenga il controllo dei territori, dal fronte interno non arriverà alcuna pressione verso qualche significativo cambiamento di politica. E grazie a questo paesaggio politico dentro Israele, nei territori e all’estero, per i leader d’Israele è difficile nascondere la propria esuberante sensazione di “vittoria!”, formale o meno che sia.

Jeff Halper è il Coordinatore del Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case palestinesi (ICAHD) e candidato, insieme all’attivista pacifista palestinese Ghassan Andoni, al premio Nobel per la Pace 2006. Può essere raggiunto all’indirizzo: [email protected]

Titolo originale: “When the Roadmap is a One Way Street. Israel’s Strategy for Permanent Occupation”

Fonte:http://www.counterpunch.org/
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28.11.2007

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ANTONELLA SACCO

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