Prof. Gabriele Bastianutti – (CSEPI)
Il linguaggio porta con sé l’ombra dell’indefinito e ogni parola è una semplice indicazione per un sentiero da percorrere. La parola non si abbraccia, la parola si attraversa.
Ma il linguaggio è il nostro mondo, direbbe Wittgenstein, ed è per questo che la parola funge da rimando ad un contenuto, ad un significato che diventa medium per la comunicazione, elemento imprescindibile ed insostituibile per il confronto e la relazione.
Utilissimo è il ricorso all’etimologia della parola, strumento capace di svelarne sfumature segrete: la sua storicizzazione e la cornice culturale nella quale la parola si racconta e si concepisce.
Parole nuove tratteggiano mondi nuovi, nuove interpretazioni, nuovi modelli e nuove prospettive.
Per affrontare dunque un qualsiasi problema, prima ancora di interrogarsi sulle sue possibili soluzioni, bisognerebbe affrontare il tema del significato e soprattutto del senso che il problema stesso produce.
“Parola chiave” si usa dire, per indicare l’espressione che regge la struttura di un pensiero, l’archè di un concetto o di un ragionamento
Oggi proveremo ad interrogarci sul significato della parola scuola e sul suo senso, con particolare riferimento all’accezione quotidiana a cui la parola rimanda.
La psicanalisi da oltre un secolo ha dimostrato come l’io sia un luogo di incontro, una sorta di centro di analisi e riunificazione. All’interno del processo evolutivo e formativo la scuola assume un ruolo importante ed inderogabile. Ma quale è il suo scopo? Quale è la natura che gli è propria?
Al di là della vastissima letteratura pedagogica, la scuola dovrebbe avere come obiettivo primario e condiviso quello di contribuire alla formazione del cittadino. A questo punto la domanda di partenza si riallaccia ad un’altra questione: a quale tipo di cittadino?
Ad un cittadino consapevole dei propri diritti, capace di analizzare, dubitare, scegliere, criticare e proporre? O ad un cittadino-lavoratore, un cittadino-strumento, la cui efficienza e competenza vengono calibrate sull’adesione al pensiero unico del mercato, del “cosi è”, ai test inutili, alle prove invalsi, a quella idea superficiale ed ipocrita di democrazia telecomandata, di progresso inteso come strumento e macchina che risponde e non domanda?
Basterebbe osservare il ruolo dei collegi dei docenti, troppo spesso ridotti ad una specie di piattaforma Rousseau in cui il dibattito sulla didattica e sulla programmazione è declinato all’accettazione supina dei diktat dirigenziali, a loro volta proni alla novità imposta dall’alto, fine a sé stessa. Ma un modello non dovrebbe essere sperimentato prima d’essere adottato? E soprattutto non bisognerebbe stabilire in fase di sperimentazione ultimata, i confronti con i modelli precedenti?
Come può una classe docente incapace di produrre prospettive critiche e alternative (basterebbe che qualche ispettore controllasse i verbali delle riunioni collegiali per accorgersi che oltre il 95% delle decisioni vengono prese all’unanimità!!!) insegnare il pensiero divergente ai propri studenti?
Come possono i dirigenti essere in grado di creare una scuola che non sia azienda, che rifugga dai cartelloni pubblicitari, da quell’idea folle e mercatocentrica nella quale la quantità domina sulla qualità, ed il numero degli iscritti corrisponde al valore della scuola che li ospita se, essi stessi agiscono ed operano all’interno di questa logica che di pedagogico possiede quanto la mano invisibile di smithiana memoria ha con la solidarietà?
E cosa dire della presenza costante e fuoriluogo dei genitori, scopertisi pedagoghi-avvocati, capaci di portare in tribunale un intero consiglio di classe per non aver attribuito il voto che loro presumevano meritasse loro figlio? L’idea che i bisogni del proprio rampollo, siano le necessità prioritarie del mondo intero è la cifra del delirio di presunzione che ormai accompagna la maggior parte delle dimostranze genitoriali, il tutto condito dal beneplacito della dirigenza che considerando gli studenti al pari di clienti vive sotto l’egida che il “cliente ha sempre ragione”. Come non essere d’accordo con Umberto Galimberti quando invoca l’ostracismo per mamme e papà, che con la loro presenza costante finiscono per danneggiare i propri figli, la scuola e la società in generale?
Ed in questo delirio collettivo anche i ragazzi finiscono per diventarne correi, svilendo il più delle volte, quelle assemblee di istituto che un tempo erano momenti di analisi e costruzione e che ora appaiono circoli ricreativi temporanei. Ai dirigenti fa comodo, ed ai ragazzi viene data l’illusione della scelta, anche se di fatto, vengono consegnati all’oblio dell’assenso acritico.
Nei consigli di istituto si fa costantemente appello al territorio e questa sarebbe una scelta buona e giusta se per “territorio” non si intendesse esclusivamente il mercato ed i suoi bisogni. Ed è così che l’alternanza scuola lavoro diventa il preludio allo sfruttamento futuro, una sorta di preparazione all’impiego non retribuito, a quel senso di frustrazione prologo di nichilismo sociale o di emigrazione.
In questa logica, nel cunicolo buio del pensiero aziendale, la scuola è in agonia, forse del tutto spenta, rinnegata, offesa e umiliata, violentata e derisa. Ed allora la parola “scuola” dovrebbe essere sostituita, perché non può essere utilizzato uno stesso termine per definire concetti diversi. Sarebbe opportuno chiamarla con uno dei tanti acronimi che piacciono al potere in cerca di yesmen, agli impiegati ubbidienti, agli zelig della “mauvaise époque actuelle”, magari CTI (centri temporanei involutivi) o –perché no?- LPAE (luoghi per l’accettazione entusiastica), ma, vi prego, non chiamatela più scuola.
Qui non è questione di modernità o di adeguamento a nuove necessità temporali: qui è in gioco l’essenza stessa della scuola e della formazione delineata dai padri costituenti.
Pensare che la scuola pubblica sopravviva in tempo di covid per mezzo di una piattaforma, di proprietà di una multinazionale del web (meet di google) è solo l’esempio più emblematico della corruzione del pensiero sponsorizzato da quell’assioma finto e perverso che il privato sia migliore del pubblico. Ed il diritto alla privacy dove lo mettiamo? chi lo tutela? Consegnare nelle mani del privato ciò che dovrebbe edificare la dimensione del pubblico e forgiarne il carattere precipuo, rappresenta il precipizio e la caduta dell’etica e del diritto.
E cosa dire del Ministero che anziché organizzarsi per mettere fine a questo scempio, creando ad esempio una piattaforma MIUR pubblica e garantita, investe in sedie a rotelle quando contemporaneamente viene imposto il distanziamento sociale?
E cosa aggiungere se non la complicità di alcuni sindacati (ogni rifermento alla CISL non è assolutamente casuale) che intendono la scuola come un semplice strumento per l’affermazione personale?
Forse è già tardi, ma tutti e proprio tutti, abbiamo il dovere civile di adoperarci per cercare di porre degli argini a questa deriva liberista che disumanizza la scuola e spegne le luci sul futuro delle nuove generazioni.
Ritornare ad una scuola dell’impegno e della solidarietà, ritornare al sacrificio che non rinnega la gioia ma la esalta secondo quella relazione insostituibile che lega la libertà alla responsabilità, ad una modalità di insegnamento che rinunci alla quantità fine a sé stessa, che abiuri le classi pollaio, che gratifichi l’insegnamento economicamente e socialmente, che scelga i dirigenti all’interno del collegio docenti con incarichi quinquennali non rinnovabili consecutivamente, che sappia fornire agli studenti dei sussidi pomeridiani ma che abbia anche il coraggio di giudicare in coscienza e assumere le responsabilità sociali che le sono proprie.
Come disse il poeta William Butler Yeats “la scuola non è riempiere un secchio, ma accendere un incendio” perché in aggiunta pensiamo che solo il fuoco è in grado di sciogliere la rigidità dei metalli e fare della canna di un fucile un vomere per dissodare la terra, al fine di prepararla per un nuovo raccolto.
I binari del futuro
Correrà questo treno d’umanità
Dai finestrini aperti al vento
Come il meriggio dell’estate
Che conosce la fragilità dei tuoni.
Sono i nostri ragazzi, pronti alla stazione
Con la valigia del domani
Con le scarpe dei nonni.
Che la scuola rimanga scuola
Affinché il vuoto delle vetrine
Non uccida i loro cuori.Gabriele Bastianutti