1° Maggio 2023: il Lavoro nell’epoca di Tik Tok

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Di Andrea Zhok

Nelle ultime discussioni è riemerso abbastanza spesso un ritornello critico intorno al tema del lavoro. L’argomento suona più o meno così: “Mica si deve sgobbare per fare soldi, anzi lavorare non è un modello di vita, non è un esempio virtuoso, di più il lavoro è qualcosa di cui bisogna liberarsi.” E questa cosa è persino presentata come un recupero delle “autentiche istanze della sinistra” (e, in effetti, forse è davvero così).

Ora, siccome questo punto è solo apparentemente banale, due parole di precisazione vanno spese.
Mi trattengo dall’avviare una discussione retrospettiva sull’annoso problema di cosa vada inteso come “lavoro”, sulla differenza tra lavoro alienato e disalienato, lavoro produttivo e improduttivo, ecc. Sono tutte interessantissime discussioni svoltesi negli ultimi due secoli (dagli scritti jenesi di Hegel, agli scritti giovanili di Marx, alle rielaborazioni di Gramsci, fino alle obiezioni dei postmoderni.), che però richiederebbero un saggio autonomo.

Venendo alle cose di base, è innanzitutto del tutto chiaro che esistono lavori con caratteristiche molto diverse, con condizioni di sfruttamento molto diverse, condizioni di usura diverse, orari diversi, stimoli diversi, ecc. ecc. Dunque generalizzazioni come “nel lavoro l’essere umano si realizza” o al contrario “nel lavoro l’essere umano si aliena” possono semplicemente essere vere talora e false talaltra.
Sappiamo, perché ci è stato spiegato dal barbuto pubblicista di Treviri un secolo e mezzo fa, che nel contesto capitalistico la tendenza generale – in assenza di resistenza – è verso una compressione tendenziale delle condizioni di lavoro: aumento degli oneri e riduzione dei compensi.

E’, incidentalmente, quello che sta succedendo a tutti noi da anni. Fare resistenza a questa tendenza è doveroso a meno che uno non brami la schiavitù, e chi non mette in piedi un’adeguata resistenza, banalmente, verrà spremuto e buttato.

Questo è l’ABC.

Fare resistenza a questa tendenza però NON è fare resistenza al lavoro, ma allo sfruttamento del lavoro. Confondere questi due piani è un errore grave.

Si possono immaginare modi di lavorare migliori (molto, molto migliori, invero), si possono immaginare pressioni e vincoli lavorativi minori, si possono immaginare orari lavorativi ridotti, ecc.
Ma c’è un inderogabile punto di fondo che rende il lavoro un’attività di valore morale: finché le cose di cui ci nutriamo, le cose che vestiamo, le case che abitiamo, gli oggetti che utilizziamo, ecc. saranno prodotti con l’apporto di lavoro umano, in qualunque società, presente, passata o futura, dare il proprio contributo lavorativo sarà semplicemente un primario dovere morale.
L’odierna ampia divisione del lavoro fa spazio per forme di lavoro estremamente diverse, che richiamano capacità, investimenti, forme di fatica difficilmente commensurabili. Ma sono tutti contributi al prodotto sociale. E prodotto sociale del lavoro c’è sempre stato da che esiste la specie umana e continuerà ad esserci per il prevedibile futuro.

Chi pensa di sottrarsi a tale contributo non compie un atto emancipativo, bensì un atto parassitario.

Sappiamo bene che spesso siamo messi tutti nelle condizioni di esercitare il nostro lavoro male, in modo inefficiente, frustrante, ed è perfettamente comprensibile che qualcuno sotto queste condizioni non percepisca più di dare un effettivo contributo e tenda a ritrarsi dal lavoro. Può capitare e capita. Questa però è una disfunzione sociale che non toglie niente al cuore della questione: contribuire con il proprio lavoro al prodotto sociale è un dovere primario e non farlo è parassitismo, è vivere alle spalle degli altri.

Mi rendo conto che ribadire una cosa del genere suonerà banale e ridondante per molti, e me ne scuso.

Tuttavia in un’epoca in cui le nuove generazioni occidentali vengono su avendo come modelli figli di papà, ereditiere, gente che vende la propria immagine al miglior offerente (youtuber, tiktoker, influencer), e in cui il rapporto tra livello degli introiti e livello del contributo lavorativo è integralmente saltato, forse ricordare queste banalità può avere uno scopo.

1° Maggio 2023: il Lavoro nell'epoca di Tik Tok

Di Andrea Zhok

29.04.2023

Andrea Zhok è un filosofo e accademico italiano, professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano.

Fonte: https://www.facebook.com/andrea.zhok.5/posts/pfbid026p5cyte2QJH31bVHGs2nJdNpsK2jAbEpF1fCph8cFTjsh4aUhPckHc8vocwY5KZl

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