DI GAIL THE ACTUARY
Our Finite World
In un post
recente, ho scoperto qualcosa
di abbastanza allarmante, ossia che nel decennio passato (dal 2000 al
2010) sia il consumo mondiale di energia che le emissioni di CO2 derivanti
da questo consumo sono salite più velocemente del PIL per il mondo
preso nella sua totalità. Questa relazione è comunque strana,
perché prima del 2000 sembrava che i due dati prendessero direzioni
diverse: il PIL stava crescendo più rapidamente dell’uso di energia
e delle emissioni di CO2. E anche dopo il 2000, molte nazioni hanno
continuato a riportare questo sdoppiamento.
Ho deciso quindi di vagliare i risultati
individuali delle nazioni, per vedere se potevo notare un modello che
fondasse la modifica di questi risultati. Ho così scoperto tre
raggruppamento tra i paesi:
1. Asia Sudorientale, esclusi Giappone,
Australia e Nuova Zelanda. Questo gruppo si è rapidamente industrializzato.
Nel totale, il consumo di energia del gruppo è cresciuto più rapidamente
del PIL nello scorso decennio, e le emissioni di CO2 sono cresciute
più velocemente del PIL. Questo gruppo include Cina, India, Corea del
Sud, Vietnam e una lunga lista di altre nazioni dell’Asia Sudorientale,
comprese le isole vicine.
2. Nazioni del Medio Oriente. Questo
gruppo ha mostrato un uso di energia che è cresciuto più rapidamente
del PIL, suggerendo che stava prelevando più energia per estrarre il
petrolio e per pacificare la sua popolazione nel corso del tempo. Ho
incluso tutte quelle nazioni che BP racchiude nel suo raggruppamento
mediorientale, anche se Israele (e forse altre nazioni) non rientrano
molto in questo modello.
3. Resto del Mondo. Questo gruppo
è l’unico che mostra una tendenza favorevole nella crescita di energia
in relazione a quella del PIL nell’ultimo decennio, anche se il ritmo
dei miglioramenti ha rallentato. Le due ragioni per questa positiva
tendenza sembrano essere (a) la crescita continuata dei servizi, come
quelli finanziari, sanitari e formativi, che usano relativamente poca
energia e (b) la delocalizzazione della gran parte dell’industria
pesante in Asia Sudorientale.
Quando analizziamo le emissioni di
CO2 ripartite per queste tre categorie, i passaggi nel corso del tempo
sono abbastanza sorprendenti:
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La gran parte dell’incremento di
CO2 dagli anni ’80 ha avuto luogo nell’Asia Sudorientale e nell’area
mediorientale.
L’intensità energetica del PIL (ossia
l’ammontare di energia consumata per trilione di dollari di PIL reale)
ha mostrato modelli differenziati per i tre gruppi di nazioni:
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L’intensità energetica mondiale
del PIL si è appiattita nello scorso decennio, riflettendo una combinazioni
di impatti sulle tre aree. L’unica zona che ha migliorato l’intensità
energetica del PIL è il gruppo
del Resto del Mondo. Il gruppo dell’Asia Sudorientale è grossomodo
piatto. Quello mediorientale sta mostrando un aumento nel consumo di
energia, in rapporto alla crescita del PIL.
Basandomi sui dati di questo posto,
sono arrivata alle seguenti conclusioni:
1. L’industrializzazione dell’Asia
Sudorientale ha consentito agli importatori di tutto il mondo di ridurre
la loro intensità energetica del PIL, ma gran parte di questi risparmi
è stata vanificata dall’incremento dell’uso di energia (principalmente
carbone) nell’Asia Sudorientale. Parlando di CO2, siamo forse peggiorati,
a causa di questo passaggio.
2. Non ci sono prove che il Protocollo
di Kyoto abbia ridotto le emissione di CO2 in tutto il pianeta. Infatti,
avendo incoraggiato la delocalizzazione della produzione industriale
verso l’Estremo Oriente e reso le merce qui prodotte più competitive,
potrebbe aver contribuito a innalzare le emissioni mondiali di CO2.
Sembrerebbe che sia necessario un diverso approccio che riconosca il
fatto che i combustibili fanno parte di un mercato mondiale. I risparmi
di carburante in una parte del mondo non sono necessariamente utili
per il globo nella sua totalità.
3. Dal mio punto di vista, la produzione
industriale mondiale si è auto-organizzata in un modo che assegna
ruoli differenti alle compagnie che operano nei tre gruppi prima descritti,
come modo di minimizzare i costi di produzione. Nel lungo termine, questo
versione particolare di auto-organizzazione non può proseguire. Il
Medio Oriente raggiungerà un punto in cui le esportazioni di petrolio
caleranno rapidamente. L’Asia Sudorientale raggiungerà i massimi
per la produzione/importazione di carbone e per i livelli di inquinamento.
Il Resto del Mondo sta già raggiungendo i propri limiti facendo competizione
all’Asia Sudorientale. I tassi di disoccupazione sono alti, gli stipendi
nel settore produttivo bassi e molti lavoratori mancano degli introiti
necessari per acquistare servizi aggiuntivi che potrebbero far “crescere”
il PIL.
Prima di analizzare le problematiche
di queste tre regioni, vorrei menzionare che, quando si analizza il
consumo energetico per area (Figura 3), i cambiamenti nel consumo di
energia per i tre gruppi non sembrano così estremi come quelli della
produzione di CO2 (Figura 1).
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I risultati sono ancora differenti
se considerati sulla base del PIL reale (Figura 4), perché il
PIL del gruppo dei “Rimanenti” evidenzia una larga fetta di PIL
collegato ai servizi.
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secondo i dati dell’USDA Economic Research.
Differenze nell’utilizzo di energia per area
Non si potrebbe non essere colpiti
dalle profonde differenze nei modelli di consumo di energia nelle diverse
aree. L’uso di energia dell’Asia Sudorientale è cresciuto di circa
il 7% l’anno nell’ultimo decennio, con il carbone come fonte primaria
(Figura 5).
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La figura 5 mostra che l’uso di carbone in Asia Sudorientale è cresciuto particolarmente dal 2003.
L’uso di energia del Medio Oriente
è cresciuto poco più del 5% l’anno nell’ultima decade. Il suo
utilizzo di energia riguarda quasi esclusivamente petrolio e gas naturale
(figura 6).
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Il gruppo dei Restanti mostra una crescita
dell’energia inferiore all’1 per cento l’anno nello scorso decennio,
e un insieme differenziato di combustibili,
nucleare compreso (Figura 7).
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Come “funziona” il mercato del consumo di combustibili
Questa è la mia idea di come
funziona, in pratica, il mercato:
Medio Oriente. La figura 8 indica la recente produzione, il consumo e le esportazioni di petrolio.
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Siccome il Medio Oriente ha un rapido accesso al petrolio, lo usa liberamente, per finanziare programmi sociali per le molte persone che non hanno un lavoro e per favorire una più intensa attività di estrazione petrolifera. Allo stesso tempo, la figura 8 ci mostra che l’ammontare totale di petrolio estratto è stabile, e quindi le esportazioni sono in calo. Dato che il PIL si basa principalmente sulle esportazioni di petrolio, ciò fa sì che il consumo di energia aumenti più del PIL, se i prezzi del petrolio non aumentano molto rapidamente.
Asia Sudorientale e i Restanti. Questi due gruppi hanno intrapreso due strategie molto differenziate:
1. Il gruppo dei Restanti ha cercato
di minimizzare il consumo di petrolio e l’utilizzo dei combustibili fossili in generale, per poter ridurre il costo finanziario delle importazioni, per minimizzare le emissioni di CO2 e per assicurarsi una “sicurezza energetica” se i combustibili dovessero diventare meno disponibili. Il carbone, in particolare, viene evitato, a causa delle forti emissioni di CO2.
2. Il gruppo dell’Asia Sudorientale
ha scelto di sviluppare la crescita economica grazie alle esportazioni di merci prodotte, facendo uso della sua poco costosa forza lavoro e della disponibilità di carbone a basso prezzo. I vantaggi di costo dell’Asia Sudorientale sono davvero notevoli nella produzione ad alto utilizzo di energia, perché il carbone è relativamente economico e le nuove fabbriche spesso utilizzano la migliore tecnologia, limitando l’utilizzo dei combustibili.
Quando altri paesi comprano le esportazioni dall’Asia Sudorientale, si avvia una catena di altre attività economiche, la costruzione di nuove strade, di edifici in cemento e un numero maggiore di lavoratori con un salario sufficiente per permettersi un’auto. Quindi l’impatto della delocalizzazione è maggiore dell’energia
direttamente utilizzata per la produzione di beni per l’esportazione.
Il Protocollo di Kyoto potrebbe aver facilitato l’Asia Sudorientale nello sviluppo della sua economia orientata alle esportazioni. Una volta prefissati gli obbiettivi sul CO2, era chiaro che i paesi firmatari avrebbero voluto limitare la produzione ad alto utilizzo di energia nei propri confini. Un modo semplice era quello di acquistare le merci prodotte nei paesi dell’Asia Sudorientale. I limiti alle emissioni di carbonio hanno anche reso evidente che l’Asia Sudorientale avrebbe avuto una scarsa concorrenza per il carbone sul mercato mondiale, perché i paesi firmatari del Protocollo avrebbero limitato le importazioni di carbone.
Per di più, se i firmatari del Protocollo di Kyoto avessero introdotto delle tasse sul carbone, queste avrebbero reso i prodotti del sud-est asiatico (e i servizi, come la raffinazione di petrolio) anche più competitivi di quanto sarebbero stati altrimenti, dato che simili produzioni e servizi non sono soggetti a imposte in Asia Sudorientale. E tutto il petrolio risparmiato dal Protocollo di Kyoto sarebbe disponibile sul mercato mondiale a un prezzo leggermente inferiore, aiutando ancor di più l’Asia Sudorientale.
Se non ci fosse un mercato mondiale
per i combustibili fossili e per le merci prodotte dai combustibili
fossili (senza dazi doganali), i principi del Protocollo di Kyoto potrebbero
funzionare bene. Il problema è che il Protocollo di Kyoto non si occupa
dei mercati mondiali.
Perché nessuno dei tre gruppi può
perseguire la strategia attuale in modo indefinito
Medio Oriente. Sappiamo che,
essendo il petrolio una risorsa finita, alla fine dovrà esserci un
declino. In effetti, la figura 8 ci mostra che le esportazioni di petrolio
potrebbe essere già in calo nel Medio Oriente e questo può aver contribuito
alle sollevazioni avvenute nella regione. Se le esportazioni decrescono,
è difficile mantenere i programmi di spesa sociale se i prezzi del
petrolio non aumentano per coprire i fondi mancanti.
Non è ancora chiaro se le esportazioni
potranno essere aumentare nel futuro. L’Arabia Saudita ha di recente
messo in pausa i progetti per un’espansione
da 100 miliardi di dollari
fino a 15 milioni di barili al giorno di capacità per il 2020. Ha anche posticipato al 2014 l’unico altro grande progetto di espansione,
una raffineria da 900.000 barili al giorno che le permetterebbe di usare
il petrolio del giacimento di Manifa. Vista questa situazione, l’Arabia
Saudita potrebbe assistere a un calo delle esportazioni in un futuro
non troppo lontano.
Molti sperano in un’espansione della
produzione di petrolio in Iraq, ma ciò dipende dal mantenimento della
pace in questa nazione, cosa che potrebbe risultare difficile. Inoltre,
anche se un paese (principalmente l’Iraq) avesse un adeguato livello
di esportazioni, altri paesi mediorientali potrebbero assistere a rivolte
se le loro esportazioni dovessero declinare e i prezzi del petrolio
non dovessero salire abbastanza per compensare l’impatto del declino.
Asia Sudorientale. Questa parte
del mondo sta già avendo seri problemi di inquinamento. La qualità
dell’aria è notoriamente cattiva a causa di tutto il carbone bruciato.
Un recente
articolo pubblicato su Science riporta
che il 90% delle acque superficiali è inquinato, e il 37% di queste
acque è così sporco che non può essere trattato per utilizzarle per
l’uso domestico.
Anche se si crede che le scorte di
carbone siano più consistenti di quelle petrolifere, non sono
illimitate, e i costi stanno già salendo. Costi più alti
per il carbone provocano dissesti nel sistema. Ad esempio, i costi di
produzione delle merci per le esportazioni sono più alti, rendendole
meno competitive. Questi aumenti possono anche comportare che gli acquirenti
interni debbano tagliare altre spese, se dovranno continuare a comprare
elettricità e merci che usano apporti di carbone.
Inoltre, la produzione dell’Asia
Sudorientale dipende anche dalla disponibilità nel tempo delle esportazioni
petrolifere, che non possono proseguire indefinitamente.
Quindi il modello corrente di una crescita
continua delle esportazioni non
può continuare all’infinito, e forse non per molto, addirittura pochi
anni.
I paesi
“Restanti”. Queste nazioni hanno pianificato la delocalizzazione
di una quota significativa della produzione industriale e gli acquisti
di prodotti dalle importazioni. Questo approccio funziona solamente
se le persone hanno un lavoro e se sono ricche a sufficienza per permettersi
le importazioni. Sembra sempre di più non essere questo il caso.
Un’altra parte della strategia delle
nazioni “Restanti” è la continua crescita dei servizi. questa crescita
funziona solo fino a che i cittadini hanno un lavoro che gli consenti
di acquistare un numero sempre maggiore di servizi. Un articolo recente
del Wall Street Journal intitolato Evitare
di tagliarsi i capelli per comprare un’auto nuova dimostra che le cose stanno andando sempre
più in un’altra direzione. La figura 9 era allegata all’articolo:
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La contrazione della crescita dei servizi sembrerebbe spiegare la convergenza tra la crescita del PIL degli USA e la crescita dell’uso di energia negli ultimi anni, come mostrato
in figura 10.
Un nuovo modello
L’attuale sistema di creazione e
scambio delle merci non è la creazione di un singolo governo. Si tratta
di un’enorme rete di regole fissate dai governi e dalle istituzioni di tutto il mondo, che si sono evolute nel tempo. C’è un numero ancora maggiore di uomini d’affari e individui che prendono decisioni basate su queste regole. Il sistema è per diversi aspetti auto-organizzato, perché gli affari cercano di fare profitti all’interno del sistema, e si organizzano nel modo migliore possibile, date le regole stabilite.
Il problema è che ora abbiamo bisogno di un sistema nuovo, non è facile coordinare tutti i cambiamenti delle regole che sarebbero necessari al pianeta per creare un sistema simile. Infatti, sarebbe praticamente impossibile adottare un insieme corretto di regole, perché non si riescono a prevedere tutti gli impatti e i feedback indiretti che avrebbero luogo nel nuovo sistema quando le nuove regole entrano in vigore. Un sistema simile ha bisogno di essere progettato a poco a poco e di evolvere lentamente nel corso
del tempo.
Il sistema in cui viviamo dà per scontate molte cose, come la disponibilità a lungo termine dei combustibili fossili e che ci saranno sempre lavori a sufficienza per i lavoratori. Queste convinzioni non sono vere. Inoltre, è solo da poco che abbiamo riconosciuto che le emissioni di CO2 possono essere un problema. Quello di cui abbiamo ora bisogno è un nuovo modello, con un insieme complesso di nuove regole, ma è complicato capire come arrivarci. Non possiamo affidarci a una sola regole – anche fosse il Protocollo di Kyoto – per farci arrivare al punto necessario.
Fonte: Thoughts on why energy use and CO2 emissions are rising as fast as GDP
07.12.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE
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