DI MARK PROVOST
Dissident Voice
Christina Romer, ex membro del Council
of Economic Advisors del presidente Obama accusa l’amministrazione
di “ignorare vergognosamente” la disoccupazione. Paul Krugman ha
fatto eco a queste preoccupazioni, osservando che Washington ha perso
interesse verso i “milioni dimenticati”. La disoccupazione
negli Stati Uniti è stata ignorata e dimenticata, ma le loro considerazione
non sono per niente superflue. Negli ultimi due anni, gli americani
senza lavoro hanno interpretato un ruolo fondamentale nell’aiutare
l’un per cento più ricco a recuperare valori finanziari per trilioni
di dollari.
I consiglieri di Obama spesso si congratulano
con loro stessi per aver evitato un’altra Grande Depressione, una
convinzione non sostenuta da alcun serio dibattito o analisi. Il modo
migliore per valutare queste considerazioni consiste nel comparare l’economia
USA a quella di altre ricche nazioni negli ultimi anni.
Sulle basi di una crescita sostenibile,
gli Stati Uniti stanno facendo meglio di qualsiasi altra economia avanzata.
Dal primo quadrimestre del 2008 alla fine del 2010, la crescita del
PIL ha
superato ogni paese del G-7 a parte il Canada.
Ma quando si parla di posti lavoro,
ai politici statunitensi vengono a mancare le rosee previsioni contenute
delle loro valutazioni. Malgrado la seconda crescita economica, Paul
Wiseman di Associated Press riporta: “Il mercato del lavoro negli Stati Uniti
rimane il più debole del gruppo. La disoccupazione ha toccato il fondo
ed è iniziata a calare un anno fa, ma c’è ancora il 5,4 per cento
di posti di lavoro in meno rispetto a dicembre del 2007. Il calo è
più forte che in qualsiasi altro paese del G-7.” Secondo un’importante
ricerca di Andrew Sum e di Joseph McLaughlin, gli Stati Uniti potevano
vantare uno dei livelli più bassi di disoccupazione nel mondo ricco
prima dello scoppio della bolla immobiliare, ora hanno il più alto.1
Il gap tra la crescita economica e
la creazioni di posti di lavoro riflette tre fattori diversi ma che
si rafforzano a vicenda: la governance della grandi aziende,
la politica economica di Obama e la deregolamentazione del mercato del
lavoro negli Stati Uniti.
I vecchi modelli economici ritenevano
che le aziende potessero reagire debolmente alle variazioni della domanda
per la mancanza di autonomia decisionale. Quando i dirigenti dovevano
far fronte a un calo della domanda, c’era l’obbligo di mantenere
una certa discrezione nella scelta delle soluzioni e quello di farsi
carico degli aspetti più negativi. La cultura aziendale e le organizzazioni
variavano da paese a paese.
Nelle stanze dei bottoni delle corporation,
i profitti non sono importanti, sono l’unica cosa che conta. Un report stilato dopo una ricerca di JPMorgan
conclude che l’attuale recupero dei profitti aziendali è ora più
dipendente dalla diminuzione del costo lavoro di quanto non sia mai
avvenuto nelle precedenti espansioni. In un certo modo, i dirigenti
delle aziende sono preoccupati dell’abbassamento del tenore di vita
dei lavoratori, ma le loro decisioni non sono né coordinate e non hanno
intenzioni negative. Chiamatelo il “paradosso del profitto”.
I dirigenti stanno svolgendo il proprio ruolo e tutelando gli interessi
dei propri azionisti: massimizzare i margini di profitto, anche in presenza
di una domanda scarsa per i tagli del personale e quelli alle spese.
Ma quello che si è rivelato essere positivo per le entrate di ogni
compagnia, è stato un disastro per le famiglie dei lavoratori e le
loro comunità.
Il recupero asimmetrico di Obama riflette
inoltre l’asimmetria dell’intervento del governo. Malgrado i discorsi
sulla questione dei posti di lavoro, l’amministrazione Obama non ha
mai sostenuto un piano concreto a favore dell’occupazione. Lo stimolo
ha dato un po’ di fiato, ma è stato troppo piccolo e non era focalizzato
alla creazione di posti di lavoro.
Il problema dell’amministrazione
non è una questione economica, ma riguarda i valori e le priorità.
Nella prima Grande Depressione, il presidente Roosevelt creò un buglione
di istituzioni – la Works Progress Administration
(WPA), la Tennessee Valley Authority
(TVA) e la Civilian Conservation Corps
(CCC) – per cercare di alleviare il problema della disoccupazione,
una crisi che il settore privato non era capace e non voleva risolvere
nell’odierna crisi, le banche hanno ripreso a creare nuovi enti–
il Troubled Asset Relief Program
(TARP), il Public-Private Investment Program
(PPIP) e la Term Asset-Backed Securities Loan Facility
(TALF) mentre i politici tergiversavano per aumentare gli insufficienti
sussidi alla disoccupazione.
La crisi del lavoro ha le sue origine
nel crash immobiliare, ma la precedente deregolamentazione del
mercato del lavoro ha reso le conseguenze molto più pesanti. Come tutti
i cambiamenti delle politiche economiche di questi decenni, la deregulation
del mercato del lavoro ha alterato il bilanciamento del potere a favore
del business e contro i lavoratori. Al contrario della riforma
del sistema finanziario, la deregolamentazione del mercato del lavoro
non è nell’agenda del presidente Obama ed è stata tralasciata dagli
argomenti dei suoi discorsi.
La deregulation
del mercato del lavoro si riduce essenzialmente a tre fattori: sindacati
deboli, leggi a tutela del lavoro lasche e basso tasso di occupazione.
Oltre a proteggere gli stipendi e i sussidi, i sindacati proteggono
anche i posti di lavoro. I contratti sanciti dai sindacati impediscono
alla dirigenza di licenziare indiscriminatamente i lavoratori per addossare
poi il carico di lavoro sugli impiegati rimasti. Dopo un decennio di
un declino imposto dall’alto, gli Stati Uniti al momento ha il quarto più basso numero
di iscritti dell’OCSE.
Un livello così basso di iscrizioni
spiega in parte perché la disoccupazione è salita così velocemente
e invece, vista la notevole crescita produttiva, le assunzioni sono
state così basse.
I sostenitori della flessibilità
del lavoro sostengono che è più facile creare posti per
il settore privato quando i costi associati alle assunzioni e ai contemporanei
licenziamenti si abbassano. Fortunatamente, la protezione della legge
per i lavoratori americani non potrà scendere più in basso: le leggi
sul lavoro degli Stati Uniti li rendono il posto dove è più facile
licenziare o rimpiazzare i lavoratori secondo
i dati dell’OCSE.
Un’altra conseguenza della flessibilità
del mercato del lavoro è data dallo slittamento da posti di lavoro
a tempo pieno verso posizioni temporanee. Nel 2010 il 26 per cento di tutti
i nuovo assunti erano ad interim,
mentre erano meno dell’11 per cento nei primi anni ’90 e solo il
7,1 per cento all’inizio degli ’00.
Il modello americano basato su alta
produttività e bassi stipendi ha molti sostenitori nelle alte
sfere. L’ex consigliere di Obama e zar del settore automobilistico
con General Motors, Steven Rattner, spiega che la crisi della disoccupazione negli Stati
Uniti è un segno di forza:
Il preoccupante
tasso di disoccupazione riflette chiaramente due delle caratteristiche
più promettenti dell’economia americana: la sua flessibilità e la
sua produttività. L’eliminazione dei posti di lavoro, con i dolorosi
costi umani che comporta, innalza la produttività e, quindi, la competitività.
In modo
insolito, la produttività degli Stati Uniti è cresciuta durante la
recessione; di norma, le compagnie non possono ridurre i costi abbastanza
velocemente per evitare il calo della produttività.
Questo
tipo di efficienza è forse il nostro bene economico più
prezioso. Per quanto possiamo esserne tentati, dobbiamo evitare i tentativi
di aggiustamento del mercato del lavoro. Le proposte dei politici troppo
indirizzate ad innalzare il tasso di occupazione possono provocare un
calo della produttività.
Rattner è arrivato pericolosamente
vicino all’articolazione di una politica di piena disoccupazione.
Egli ritiene che i disoccupati non meritino lo stesso massiccio intervento
che è così ben riuscito con General Motors e con le banche.
Quando Wall Street era alle corde, le due amministrazioni hanno evidenziato
in modo ragionevole che “fare niente non è possibile”. Per
la disoccupazione di lungo periodo, non fare nulla sembra invece essere
la politica preferita da Washington.
La crisi della disoccupazione è
stata benedetta dai super-ricchi d’America, che hanno il possesso
della stragrande maggioranza dei beni finanziari, azioni, obbligazioni,
contanti e materie prime.
La disoccupazione persistente e i sindacati
indeboliti hanno trasformato la classe lavoratrice americana in un mercato
di compratori: la gente in cerca di un posto e i lavoratori sono diventati
taker” invece
che “price maker“. Il recupero di Obama e i primi anni
di Reagan condividono il fatto di essere le uniche due espansioni in
seguito a un conflitto dove la riduzione degli stipendi è stata la
regola invece dell’eccezione. Il 2009 ha segnato il più basso tasso
di crescita degli stipendi, seguito a ruota dal 2010.2
La depressione del mercato del lavoro
negli USA ha stimolato un incremento del valore degli asset. Negli ultimi
due anni i profitti delle aziende statunitensi e le quotazioni delle
azioni hanno avuto il più alto tasso d’incremento della storia, e
ancora più alto nel G-7. Considerando la fonte di questi profitti,
il mercato azionario in crescita non sembra tanto un indice della prosperità
quanto che un guardiano a tutela della nuova miseria che morde gli Stati
Uniti. Mark Whitehouse del Wall Street Journal paragona il recupero di Obama a una ruota per criceti:
Dalla metà
del 2009 alla fine del 2010, la produttività oraria dei settori
non agricoli negli Stati Uniti è cresciuta del 5,2% mentre le
aziende hanno trovato il modo di spremere ancora di più i propri dipendenti.
Ma la parte del leone di questi guadagni l’hanno fatta gli azionisti
grazie al record dei profitti, invece che i lavoratori. Gli stipendi
orari, aggiustati all’inflazione, sono cresciuti solo dello 0,3% secondo
i dati del Dipartimento del Lavoro. In altre parole, le aziende hanno
condiviso solo il 6% dell’aumento di produttività con i loro lavoratori.
La proporzione era del 58% quando questi dati vennero rilevati per la
prima volta nel 1947.
Gli stipendi dei lavoratori rappresentano
i due terzi dei costi di produzione e guidano l’inflazione. Un’alta
inflazione è il peggior nemico per i possessori di obbligazioni perché
questi sono titoli che hanno interessi definiti. Ad esempio, se un obbligazione
ha una remunerazione fissa del 5 per cento e l’inflazione arriva al
4, il suo ritorno reale è ridotto all’un per cento. Un alto tasso
di disoccupazione contiene il costo del lavoro e, inoltre, è un’ancora
per il livello dell’inflazione, proteggendo così gli introiti dei
possessori dei bond. Grazie all’assenza di una crescita del
valore reale degli stipendi e l’inflazione registrata negli ultimi
due anni, le emissioni delle obbligazioni hanno attirato un record di
adesioni e gli investitori
ne hanno beneficiato immensamente.
La Federal Reserve ha svolto un ruolo
chiave nel sostenere la ripresa, ma le politiche monetarie hanno funzionato
in modo indiretto e sproporzionato a favore dei ricchi. I bassi tassi
di interesse hanno contribuito alla ricapitalizzazione delle banche,
hanno consentito agli uomini d’affari e agli immobiliaristi di rifinanziare
i debiti e di fornire a Wall Street uno tsunami di liquidità, ma l’impatto
sull’occupazione e sulla crescita degli stipendi è stata risibile.
Jim Cramer di CNBC ci ha fornito un approfondimento sulla connessione contro-intuitiva tra un’economia
allo sfascio e le quotazione delle azioni in crescita: “Non siamo
mai stati così a lungo, nei miei 31 anni di trading, in un periodo
in cui “le cattive notizie sono buone notizie”. Questo significa
che le cattive notizie abbassano i tassi d’interesse e ciò rende
le azioni, in modo particolare quelle con una buona protezione per i
dividendi, più appetibili delle alternative a reddito fisso.”
In altre parole, più a lungo le politiche di Ben Bernanke falliscono
nell’abbassare il tasso di disoccupazione, tanto più a lungo Wall
Street gongola.
Gli americani senza lavoro meritano
più di un sussidio, si meritano anche i dividendi. I ricchi non
li avrebbero mai racimolati senza di loro.
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Note:
- “The
Massive Shedding of Jobs in America”, Andrew Sum and Joseph McLaughlin.
Challenge, 2010, vol. 53, numero 6, pagg. 62-76.
- “Wage and Benefit Growth
Hits Historic Low
”,David Wessel, Wall Street Journal, 30 gennaio 2010. “
US Wage Growth: The DownwardSpiral
”,Chris Farrell, Bloomberg Businessweek, 5 febbraio 2010
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Fonte: http://dissidentvoice.org/2011/05/why-the-rich-love-high-unemployment/#identifier_1_33045
26.05.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE