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La Redazione

 

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PERCH I GOVERNI FANNO LE GUERRE
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A cura di supervice
Il 7 Novembre 2011
82 Views

Uno sguardo sul fronte interno:
una teoria libertaria delle relazioni internazionali

DI JUSTIN RAIMONDO
Antiwar.com

Perché gli Stati Uniti sono coinvolti
in una guerra senza fine in tutto il mondo? Perché, in materia bellica, le nazioni o, meglio, i loro governi si comportano nel modo a cui quotidianamente assistiamo? Il numero di risposte è senza dubbio quasi uguale al numero di interlocutori. “Si tratta di economia”, dicono i marxisti (e gli hamiltoniani): l’imperialismo è la fase suprema del capitalismo. No, dicono i “realisti”, tutto verte sugli oggettivi “interessi”
delle varie nazioni e sull’interazione di questi “interessi” in campo internazionale. I neoconservatori hanno una spiegazione diversa: è tutta una questione di “volontà” e “scopo nazionale” o della mancanza di queste: intrisa dell’ideale della nostra “grandezza nazionale” l’America diffonderà la democrazia in tutto il mondo, altrimenti andrà incontro a un declino vergognoso in cui la perdita spirituale precederà la perdita dello spirito guerriero.
Eppure nessuna di queste teorie apparentemente

dominanti fornisce una spiegazione adeguata sul come e sul perché

ci troviamo nella situazione attuale. L’America ha mandato in bancarotta

sé stessa per costruire un impero globale con basi, protettorati,

colonie in ogni continente; eppure ci ostiniamo ancora a perseguire

una politica che ci sta portando sull’orlo dell’abisso finanziario.

La nostra rete di ammortizzatori sociali è in gravi condizioni e mostra

molti segni di fallimento: il nostro sistema bancario è un traballante

castello di carte e la crisi immobiliare nazionale – l’ultima bolla

finanziaria a manifestarsi – sta trascinando il ceto medio-basso nella

miseria. Eppure inviamo miliardi, anzi, migliaia di miliardi di dollari

oltreoceano per puntellare un precario impero all’estero. Come è possibile

questo, e perché è successo?

Nel postulare una teoria libertaria

dei rapporti internazionali dobbiamo tralasciare il prescrittivo per

concentrarci sul descrittivo: cioè, dobbiamo ignorare, per il momento,

la questione di ciò che la politica estera ideale dovrebbe essere per

concentrarci sulla descrizione di come le nostre attuali politiche sono

formulate e attuate. Iniziamo quindi con la questione di chi in questo

momento decide la politica estera.

Ci viene detto che nelle società “democratiche” è il popolo a

prendere le decisioni, perché, in teoria, i cittadini non richiamano

i politici alle loro responsabilità solo quando si recano alle urne,

ma anche nelle tribune dell’opinione pubblica e qualsiasi apparato

parlamentare condivide il potere con l’esecutivo. Nella pratica, invece,

la politica estera è un regno completamente separato, è il dominio

di “esperti” e specialisti nascosti nei think tank

* e, naturalmente, nelle alte sfere del Consigli di Stato.

Inoltre, a meno che non sia in corso

una guerra – evento che ha un effetto evidente sulla vita economica

e politica della nazione -, la politica estera è l’ultima delle

preoccupazioni dei cittadini. Ciò è particolarmente vero

negli Stati Uniti, ma anche in un contesto più ampio: è naturale che

le persone di solito siano interessate agli eventi loro più prossimi,

perché hanno una maggiore conoscenza del relativo contesto.

Questa presa di distanza dei cittadini dal processo decisionale è accentuata,

negli Stati Uniti, dall’erosione del potere del Congresso nel campo

della politica estera. Negli ultimi giorni dell’impero americano, la

politica è fatta quasi interamente all’interno della Casa Bianca e

dalla burocrazia della sicurezza nazionale: il Congresso ha ceduto i

suoi poteri in materia bellica molto tempo fa.

Il comportamento dell’America, come

di qualsiasi altro paese, in materia di politica estera è quindi il

campo d’azione di un gruppo molto piccolo al vertice della piramide

politica: quello che potremmo chiamare, in mancanza di una migliore

descrizione del gruppo, la classe dirigente, anche nota come “Establishment“.

Questi sono i principali attori sulla scena mondiale, oltre a soggetti

non incardinabili in schemi definiti, come i gruppi terroristici, i

vari movimenti di “liberazione” e George Soros.

Per rispondere alla domanda posta all’inizio di questo articolo, è

necessario chiedersi che cosa motiva l’Establishment: cosa

lo induce al raggiungimento del consenso e all’azione? Per i libertari

e per quelli che hanno una mentalità realistica, che non sempre coincidono

con la stessa persona, la risposta è semplice: è tutta una questione

di potere.

Il mantenimento e l’espansione del

potere politico sono stati l’obiettivo centrale di ogni classe dirigente

nel corso della storia, non importa quale fosse il declamato orientamento

ideologico. Le dittature, le democrazie e tutte le forme di governo

che sono configurabili in una posizione intermedia tra queste due modalità

di organizzazione politica hanno questo tratto in comune: il mantenimento

e l’espansione del potere politico sono il principio organizzativo alla

base della macchina politica, l’idea alla base delle azioni. Le varie

spiegazioni ideologiche delle proprie azioni offerte da queste élite

sono sempre razionalizzazioni di azioni fatte per il proprio tornaconto

e, quindi, in ultima analisi, tali spiegazioni si rivelano irrilevanti:

per esempio, la vecchia élite comunista faceva finta di lavorare per

la creazione del sistema comunista in tutto il mondo, ma in realtà

si dedicava alla creazione del “socialismo in un paese” per

accumulare indebitamente ricchezza. In Occidente i leader politici

insistono nell’asserire che il loro obiettivo è la diffusione della

democrazia liberale e dei relativi presunti benefici economici, ma la

realtà è che sono più interessati alle loro campagne elettorali e

alle relative probabilità di vittoria: i motti antichi della classe

dirigente anglosassone, che ha diffuso il principio della “noblesse

oblige“, sono così logori e ridotti a brandelli che nessuno

si preoccupa nemmeno di invocarli più.

I politici, insomma, sono in politica

per rimanervi: il loro interesse è acquisire e mantenere il potere,

e questo è ciò che li motiva in tutte le questioni nazionali

e straniere. L’”interesse nazionale”, la “rivoluzione

mondiale”, il destino peculiare che viene offerto a noi in qualità

di beneficiari canonizzati dell’”eccezionalismo americano”,

tutti questi diversi marchi ideologici dalla fumosa consistenza, usati

fino al completo logorio, altro non servono che a mascherare con varie

tonalità di retorica senza alcun costrutto nudi interessi egoistici.

Un governatore saggio, come ad esempio

Marco Aurelio, poteva pervenire alla lunga durata del suo governo (per

non parlare del positivo giudizio della storia) tramite il perseguimento

della pace, di politiche relativamente benefiche, mentre un folle e/o

un malefico come Hitler poteva perseguire politiche che sembrassero

espandere il loro potere nel breve, ma lo distruggevano nel lungo periodo.

Entrambi, però, erano di fatto motivati ​​dalla soverchiante ambizione

di indossare l’Anello del Potere e quindi di modellare il corso degli

eventi.

Nel cercare di capire perché

i governi si comportano in un modo o nell’altro in politica estera,

il primo compito di un osservatore intelligente è quello di guardare

verso il fronte interno. Le spiegazioni “ufficiali” per le

azioni belliche sono sempre legate a qualche “crisi” presente

a migliaia di chilometri di distanza, di solito attribuita ai vili atti

del cattivo del mese. In realtà, la vera causa di solito molto molto

più prossima e ci riguarda direttamente.

Per esempio, diamo un’occhiata agli

eventi in Libia, per i quali ci è stato detto che se gli Stati

Uniti e la NATO non fossero intervenuti ben centomila civili sarebbero

stati massacrati dalle forze fedeli a Muammar Gheddafi. Questa presunta

“crisi umanitaria”, tuttavia, si è rivelata essere simile

ad altre diffuse con la propaganda tipica delle guerre precedenti, alla

pari dei bambini uccisi negli incubatrici in Kuwait, ma non così convincente

quanto quella dei bambini belgi che si dice siano stati infilzati sulle

baionette del Kaiser.

Lo stiamo facendo per “i bambini”:

questo è il tipo di guerra che il Segretario di Stato Hillary

Clinton può sostenere! E lei certamente lo ha fatto: infatti,

è stata lei, in combutta con altre due importanti arpie “progressiste”

dell’alto comando della sicurezza nazionale, a chiedere che gli Stati

Uniti intervenissero in Libia, decisione che il presidente era chiaramente

riluttante a prendere. Eppure ha accettato per accontentare l’ala clintoniana

del suo partito, sempre più inquieta, che sta aggressivamente spingendo

perché Hillary sostituisca Biden nel 2012 e per placare George Soros.

La dichiarazione improvvisa di una “crisi umanitaria” è stata,

lapalissianamente, un ridicolo pretesto per l’intervento, cosa che si

è resa ancor più chiara a posteriori, quando una vera crisi umanitaria

è stata causata dai diversi ribelli delle “milizie” nelle

roccaforti lealiste come Sirte e nella Libia occidentale in genere.

La vera ragione dell’avventura libica

è stata la necessità di evitare una crisi politica all’interno

della coalizione dei Democratici: Obama voleva una “squadra di

rivali” e questo è ciò che ha ottenuto. Dopo aver ceduto

la politica estera della sua amministrazione ai Clinton, il presidente

non ha avuto altra scelta che lasciare che Hillary affermasse sé stessa:

quella della Libia è stata la sua guerra e Obama le ha dato spazio

per ragioni puramente interne.

La nostra politica imbarazzante e vacillante

sulla questione palestinese, e il conflitto israelo-palestinese in generale,

è un altro esempio lampante di come le dinamiche della politica interna

possano guidare il processo decisionale della politica estera. Dopo

un inizio promettente, l’amministrazione Obama ha abbandonato la sua

politica di “grande equilibrio”, tanto vituperata dai neoconservatori,

e ha finito con il capitolare dinanzi agli israeliani, riluttanti a

tale svolta politica, e alla loro politica di “insediamento”,

unendosi a loro anche nel disdegnare l’offerta dell’Autorità Palestinese

per il riconoscimento dinanzi alle Nazioni Unite di un obiettivo a lungo

perseguito da presidenti degli Stati Uniti, tra cui Bill Clinton e George

W. Bush: la creazione di uno Stato palestinese. Perché questo improvviso

voltafaccia?

Come una volta sottolineò il

candidato dei Democratico alla presidenza Wesley Clark, i grandi donatori

del partito, “la gente con i soldi di New York“, non

vede di buon occhio i candidati che non concordano con la linea del

governo israeliano. La tempistica degli eventi che hanno portato al

veto alle Nazioni Unite è un indizio: è avvenuto appena una settimana

dopo la sconfitta di un Democratico in un distretto congressuale ebraico

di New York, sino ad allora profondamente democratico. L’ultima tensione

in rapido acuirsi nelle relazioni tra USA e Iran, il falso complotto

“terrorista” iraniano – presumibilmente realizzato da un venditore

di auto usate alcolizzato – è ancora di più la prova evidente che

la politica estera è poco connessa a quello che accade in realtà,

mentre esercitano su di essa grande importanza le esigenze politiche

dei vari attori della vita politica interna del paese. In un’epoca in

cui le prospettive di rielezione del presidente si fanno sempre più

cupe, l’amministrazione Obama ha paura di perdere i donatori chiave

e i blocchi di voto che dubitano del suo impegno per la “sicurezza”

di Israele. Così, voilà, la grande inversione di rotta è fatta.

Nell’asserire che la politica interna

di un Paese è fondamentale per comprendere le relazioni con gli altri

Stati, è importante non fare distinzioni, sia ideologiche che strutturali.

Cioè, non si devono considerare nel ragionamento le descrizioni autoreferenziali

e altri concetti che mascherano la comunanza di fondo di tutti gli Stati

in tutto il mondo. Se stiamo parlando di democrazie, o monarchie, “repubbliche

della gente” sul vecchio modello sovietico o repubbliche delle

banane alla Hugo Chavez, si applica la stessa regola: l’”establishment“,

sia esso capitalista, “socialista”, teocratico, o di qualunque

altro sapore ideologico è tenuto e determinato a mantenere il potere,

e farà di tutto per acquisirne di più.

Questa comunanza è dimostrata

dal fatto che le democrazie hanno le stesse probabilità di impegnarsi

nelle guerre imperialistiche quanto le dittature di qualsiasi tipo:

la nostra attuale politica della guerra infinita dimostra questa regola

in modo abbastanza drammatico, e la storia lo conferma. La Gran Bretagna,

di gran lunga l’impero più liberale e democratico che sia mai esistito,

era allo stesso tempo il più grande aggressore, espandendo senza sosta

l’impero in quasi tutti i continenti, abolendo la schiavitù ma schiavizzando

milioni di persone sotto altre forme. I rivoluzionari francesi erano

allo stesso modo espansionisti, come dimostra chiaramente la carriera

di un famoso caporale francese. Come Roma, l’Atene dell’antichità classica,

fondatrice dell’ideale democratico, era inizialmente una repubblica

e successivamente ha costituito un impero nel Mediterraneo, che alla

fine è andato in rovina.

Una teoria libertaria degli affari

esteri inizia con l’assioma che chi detiene il potere ci vuole rimanere:

tutto il resto segue da questa proposizione di base. È il “tutto

il resto”, tuttavia, a essere la parte importante e non un mero

dettaglio da chiarire successivamente. Poiché la politica e le decisioni

politiche sono fatte da persone reali, non da “forze” impersonali

e da astrazioni fluttuanti, il contesto specifico in cui vengono prese

queste decisioni è la chiave per comprendere il corso degli eventi.

Non basta dire che c’è qualche grande complotto organizzato dagli Illuminati,

dai partecipanti al Bilderberg o dai Savi di Fandom, i quali operano

dietro le quinte e manipolano la “crisi” del momento a proprio

vantaggio. È necessario citare dettagli particolari, cioè connessioni

causali tra specifici individui, certe scelte politiche e i benefici

ottenuti.

Questo è il motivo per cui il

giornalismo è una branca importante delle arti letterarie, e perché

il suo declino è un duro colpo per la causa della pace e della libertà.

Senza dettagli specifici e senz’armi di fronte ai fatti, né l’analista

professionale né il cittadino interessato possono ottenere un indizio

su ciò che sta accadendo nella più grande, e più pericolosa, potenza

del pianeta. Ecco perché Antiwar.com è uno strumento così importante

nella lotta contro il militarismo e l’interventismo: perché portiamo

alla vostra attenzione le informazioni che non vogliono farvi conoscere.

Il nostro orecchio è sempre a terra, ascoltando i segni rivelatori

di un’altra “guerra per la democrazia” e/o “crisi umanitaria”

che richiedano l’intervento militare degli Stati Uniti. Portandoli aldilà

dei titoli dei giornali, diamo ai nostri lettori notizie importanti

sulle ultime mosse del Partito della Guerra e, come il Partito della

Guerra, non ci fermiamo mai.

Non possiamo riposare, perché

la tendenza dei governi a cercare costantemente opportunità di

espandere il proprio potere, anche oltre i confini nazionali, è

intrinseca al potere stesso e quindi costante. Non può essere né eliminata

né ignorata: deve essere costantemente osservata e sfidata. Ecco perché

siamo qui, e per questo dobbiamo continuare a essere qui sino a quando

i governi esisteranno.

* Un think tank

(letteralmente “serbatoio di pensiero” in inglese) è un organismo,

un istituto, una società

o un gruppo, tendenzialmente indipendente dalle forze politiche

(anche se non mancano think tank governativi), che si occupa di analisi delle politiche pubbliche e quindi nei settori che vanno dalla politica sociale

alla strategia politica, dalla economia

alla scienza e la tecnologia,

dalle politiche industriali

o commerciali alle consulenze militari.

**********************************************

Fonte: Why Governments Make War

26.10.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALESSIA

______________________________________________________

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