E QUALI SONO LE PROSPETTIVE DEL MOVIMENTO “TRANSITION”
DI NAFEEZ MOSSADEQ AHMED
Transition Network
Siamo forse di fronte al momento in
cui il movimento di Transizione è pronto per il proprio decollo.
C’è ormai un desiderio diffuso di un cambiamento radicale, non ci
sono dubbi. Non è una coincidenza che il movimento
Occupy negli Stati Uniti,
nel Regno Unito e nell’Europa occidentale sia cresciuto a vista d’occhio
fin dai primi mesi del 2011, sulla scia delle rivolte della Primavera
Araba che hanno scosso
il Medio Oriente e il Nord Africa dal dicembre 2010.L’esplosione di massa dell’indignazione
pubblica tra Oriente e Occidente ha preso di sorpresa la maggior parte
di noi, più o meno come gli economisti neoliberisti mainstream
non riuscirono a prevedere la crisi
economica nel 2008. Ma
la tendenza era già presente. Poco prima della Primavera Araba era
uscito il mio libro A
User’s Guide to the Crisis of Civilization: And How to Save It. Il libro è il primo serio tentativo di riunire
le crisi apparentemente diverse del cambiamento climatico, dell’esaurimento
dell’energia, della scarsità di cibo, della crisi economica, del
terrorismo, della guerra e della militarizzazione dello stato in un
unico quadro di analisi. Il mio approccio olistico critica la traiettoria
autonegazionista del capitalismo contemporaneo neoliberista, ripercorre
la probabile scomparsa della civiltà industriale nella sua forma attuale
entro i prossimi decenni e suggerisce una serie di cambiamenti fondamentali
a livello politico, economico, culturale, ideologico ed etico che le
comunità devono esplorare per ottenere una transizione verso strutture
più sostenibili, eque e partecipative.
A differenza di molti economisti
mainstream, io avevo previsto nel 2006il crollo finanziario globale
scatenato dal collasso dei mercati immobiliari. Nel mio libro avvertivo
anche che la nostra incapacità a capire le interconnessioni e il contesto
sistemico delle crisi contemporanee avrebbero inibito non solo la nostra
capacità di affrontarle in modo efficace, ma avrebbero portato poi
inevitabilmente a risposte mal concepite, di breve durata e basate sulla
violenza, per controllare i sintomi della convergenza di crisi e mantenere
lo status quo.
È vero che le mie argomentazioni non
sono divertenti, non sono letture da fare per addormentarsi. Così,
quando il regista Dean
Puckett si offrì di promuovere
il mio libro su Youtube, dopo averlo incontrato per caso in un raduno
dei Democratici a St. James Park, ero abbastanza euforico. Dean e io
conoscevamo e rispettavamo da anni il lavoro l’uno dell’altro e
fui molto contento del fatto che si fosse offerto di aiutarmi a esprimere
le mie idee, dopo avermi sentito parlare al raduno.
Ci accordammo per una data e Dean arrivò
nel mio appartamento con la sua macchina da presa per intervistarmi
in quello che pensavamo potesse essere un piccolo video tranquillo da
poter usare nel mio blog o nel mio sito. Si sedette di fronte
a me nel mio piccolo ufficio, sfogliando il mio libro e facendomi domande.
Alla fine avevamo conversato per quasi cinque ore. “Forse potremmo
fare una serie di video, allora”, azzardò Dean mentre usciva
dal mio appartamento.
Circa una settimana dopo, Dean mi chiamò
e mi disse che aveva provato a fare un assemblaggio della nostra intervista
con vecchi
filmati di repertorio degli
anni ‘40, ‘50 e ’60 – soprattutto film di ingegneria sociale realizzati
da aziende e dal governo per celebrare il presunto splendore del capitalismo
industriale – per illustrare le mie tesi.
Aveva anche chiesto all’artista Lucca Benney di creare un’animazione che rappresentasse uno dei temi chiave del libro, collegato a un pop-eye di un mostro disegnato a mano che raffigurava il Mostro della Crescita Illimitata.
da cui è stata presa una sequenza di 6 secondi per l’inizio del video.
“Nafeez”, mi ricordo mi
disse Dean, “penso che questo potrebbe essere un lungometraggio.”
Ero ovviamente emozionato. Un film sul mio libro? Era il sogno di ogni
scrittore divenuto realtà.
Il lavoro con Dean e Lucca con fondi
limitatissimi per fare il film fu illuminante ed esilarante. Per quasi
un anno lavorammo sul modo di tradurre le mie idee riguardo la crisi
di civiltà e la necessità di una transizione radicale verso una società
post-carbone, nel formato di un film-documentario. Si trattava di rompere
ciò che nel libro è presentato come un argomento complesso, rigoroso
e interdisciplinare attinto da centinaia di fonti accademiche e industriali
per ricomporre un quadro olistico teorico sofisticato in un resoconto
di un’ora e venti minuti, zeppo di sorprendenti immagini d’epoca,
cronache attuali e disegni animati colorati.
Il messaggio del film, come il libro,
è in fondo semplice. Se vogliamo superare la convergenza di crisi
di civiltà in cui ci troviamo oggi, dobbiamo rimediare alla frammentazione
del nostro approccio in favore di una visione olistica più allargata.
Ma ciò deve essere fatto non solo in senso puramente epistemologico,
nel modo in cui perseguiamo la conoscenza – che richiede pensiero
aperto e sistemico -, ma anche in senso pratico, in relazione al nostro
modo di fare politica e, forse ancor più importante, di fare attivismo.
Oggigiorno, non parliamo semplicemente
l’uno con l’altro. I nostri economisti, politici, esperti di agricoltura,
ecologisti, imprenditori, artisti e attivisti operano fondamentalmente
in spazi autonomi, raramente comunichiamo oltre i confini delle varie
discipline e tanto meno possiamo coordinare attivamente i nostri sforzi.
Questa frammentazione affligge non solo il modo in cui perseguiamo la
conoscenza, ma caratterizza anche il modo in cui concepiamo la politica
e, di conseguenza, il modo in cui le nostre società smettono di funzionare.
Come attivisti, allora, abbiamo la necessità urgente di poter contrastare
questo fenomeno, rendendo olistico il nostro attivismo.
Sfortunatamente, non sta avvenendo
questo. Anche se il movimento Transition Town ha fatto passi
da gigante, c’è ancora molto da fare. Ad oggi, il movimento rimane
fondamentalmente bianco e formato da elementi della classe media. Malgrado
la visione di una società più sostenibile e equa, si potrebbe pensare,
potrebbe interessare una cittadinanza sempre più ampia e sempre più
disillusa, il movimento della transizione ha tuttavia in gran parte
fallito nel raggiungere e nel coinvolgere proprio quei gruppi che stanno
soffrendo più di tutti nel sistema attuale: nel Nord America, le minoranze etniche, i
giovani e coloro che vivono in condizioni di povertà relativa; nella più ampia politica economica globale, i paesi del Sud, in particolare le regioni più povere e popolose
dell’Africa, Asia del Sud, Medio Oriente e parti del Sud America.
Questo strano fallimento, tuttavia,
non è un caso. È sintomatico dell’approccio frammentato ed egocentrico
che caratterizza oggi la struttura della civiltà industriale. Noi del
movimento abbiamo fallito nell’assicurare che il fenomeno Transition
Town si muovesse oltre l’Occidente-centrismo, nel pensare concretamente
al modo in cui la struttura delle nostre economie consumistiche occidentali
è legata, in modo indelebile, alla violenza massiccia e alla repressione
che avviene in lontanissime parti della terra. Per questo, non abbiamo
riconosciuto la misura in cui la transizione di civiltà non è semplicemente
fatta di sforzi locali per riqualificare, coltivare cibo, produrre energia
e così via (tutte cose ovviamente essenziali), ma anche sfida, resistenza
e trasformazione delle strutture repressive del potere statale in tutte
le sue forme. Un movimento di transizione olistico deve essere in grado
di collegare l’attivismo in vari settori, dall’opposizione al potere
senza costrizioni delle banche alla resistenza all’invasione reazionaria
dello stato verso le nostre libertà civili in nome della “sicurezza”.
nel Regno Unito.
Dobbiamo resistere alla violenza in
scenari esteri, giustificata nel contesto della cosiddetta “Guerra
al Terrore” ma chiaramente motivata a dominare risorse energetiche
in rapido esaurimento, e fare azioni dirette volte a reclamare l’accesso
pubblico alle ricchezze comuni, quali acqua, terra e ricchezze minerali
in tutto il mondo, attualmente controllate dall’”1%”.
Nella misura in cui non siamo ancora
riusciti a riunirci sotto un unico ombrello, nell’ottica di una transizione
verso una visione alternativa della società, il nostro attivismo rimane
disunito e vago, come i problemi che stiamo cercando di affrontare.
Ecco perché, in ultima analisi, i giovani e le persone svantaggiate
sia in Occidente che in Oriente – che potenzialmente potrebbero beneficiare
al meglio di tale
transizione – non possono
ancora considerare importante il movimento Transition Town.
Allo stesso modo, se il movimento
Occupy e la Primavera Araba non si radicano in una comprensione
profonda del più ampio contesto sistemico dei problemi che stiamo affrontando
e nel corrispondente bisogno di un approccio olistico per affrontarli
(non solo allo scopo di influenzare le lobby defunte e gli stati
corrotti per un cambiamento, ma anche per costruire nuove strutture
alternative, dalle fondamenta) – essi falliranno. Questi movimenti
sociali hanno bisogno di attingere dai progressi sorprendenti già effettuati
dal movimento Transition Town, così come dalle sue rivelazioni
più profonde sulle origini delle sfide che stiamo ora affrontando,
per rivitalizzare l’attivismo in modo che diventi qualcosa di superiore
alla singola risoluzione di un problema. Il compito è quello di piantare i semi della
nuova civiltà post-carbone, qui, ora, all’interno del guscio della
morente società industriale. Occupy, Primavera e Transition non devono
parlarsi l’un l’altra. Devono diventare una cosa sola.
Abbiamo realizzato questo film come
uno strumento per aiutare le persone a capire meglio le interconnessioni
tra le crisi multiple e convergenti e il bisogno urgente di una transizione
di civiltà; ma ancora di più per aiutare gli attivisti già informati
di questi problemi, a comunicarli con maggiore efficacia, potenza e
positività a un pubblico sempre più ampio. L’idea era di dare alle
persone un qualcosa di solido con cui capire tutto quello che sta deteriorandosi
nel mondo e quindi riconoscere la necessità di una radicale trasformazione
sistemica per poter sopravvivere, e forse anche prosperare, nel ventunesimo
secolo.
Speriamo di esserci riusciti. Da ottobre
stiamo raccogliendo le intuizioni fantastiche e illuminanti di quest’analisi
collettiva e siamo orgogliosi di annunciare che il 14 marzo potremo
offrirvi questo film gratuito on line, e acquistabile su
supporto DVD con un sacco di extra, in confezione biodegradabile e riciclata,
per mostrarlo ai vostri amici, familiari, colleghi, comunità, rappresentanti
eletti e non eletti. Coscienti. Pronti. Attivi.
Il dottor Nafeez Mosaddeq Ahmed è
Direttore Esecutivo dell’Institute for Policy Research & Development
a Londra. Il suo ultimo libro è A
User’s Guide to the Crisis of Civilization: And How to Save It (Pluto/Palgrave Macmillan, 2010). E’ autore
e narratore del film-documentario The
Crisis of Civilization (2011).
Fonte: Why we made The Crisis of Civilization and what’s next for Transition
20.02.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALESSANDRA BALDELLI