''PER UNA NUOVA RADICALITA'''

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DI MASSIMO VIRGILIO

Miguel Benasayag e Dardo Scavino
Il Saggiatore, Milano.
192 pagine.
17 euro.

“Le istanze sociali più elementari devono piegarsi ai vincoli sempre più forti del capitale”. E questo è un Male che deve essere contrastato con forza. Sin dall’introduzione del loro “Per una nuova radicalità” gli autori, Miguel Benasayag e Dardo Scavino, esprimono con chiarezza il loro punto di vista: il nemico da battere è il capitalismo neoliberista e la “catastrofe economica” che esso inevitabilmente porta con se. Ma per vincere occorre valutare l’avversario con criteri di giudizio del tutto nuovi e adottare metodi di lotta originali, completamente diversi da quelli fin qui utilizzati dai contestatori del sistema capitalista, marxisti-leninisti compresi. Certo, gli impressionanti progressi scientifici e tecnologici realizzati negli ultimi cento anni hanno giocato a favore dell’idea di un capitalismo potenzialmente in grado di soddisfare le esigenze dell’intera umanità, fino ad arrivare, in un futuro sempre più prossimo, ad assicurare l’abbondanza di tutto a tutti e quindi la felicità a ciascuno.

Pochi sono capaci di cogliere quanto falsa e ingannevole sia questa idea del sistema capitalista. Le scoperte scientifiche e le invenzioni tecnologiche, infatti, non sono lasciate al libero utilizzo di tutti, né sono liberamente riproducibili. Esse vengono brevettate non appena realizzate. Le aziende proprietarie dei brevetti si assicurano così il diritto di sfruttarle per trarne profitto. Ecco allora che quello che potrebbe essere utile e benefico per tutti diventa fonte di ricchezza per pochissimi e accessibile solamente a coloro che possiedono i mezzi per poterlo acquistare.

Al riguardo, l’esempio dei medicinali è emblematico. Le case farmaceutiche, in possesso dei brevetti, si arricchiscono producendo e commercializzando i farmaci. Questi ultimi, però, possono essere utilizzati soltanto da chi guadagna denaro a sufficienza per comprarli. Per tutti gli altri le medicine restano inaccessibili: non solo non possono permettersene l’acquisto, ma è anche impedito loro di produrle per proprio conto a prezzi contenuti. E così milioni e milioni di persone nel mondo sono completamente o parzialmente escluse dai progressi realizzati in campo farmaceutico e molte muoiono quotidianamente di malattie facilmente curabili. Tutto ciò al solo scopo di garantire alle multinazionali del farmaco margini di profitto sempre più ampi.

Il capitalismo neoliberista, dunque, per sua natura produce esclusione. Coloro che controllano l’economia globale ne sono pienamente coscienti, anche se non lo riconoscono mai apertamente. In questo si differenziano dai capitalisti delle origini, non pochi dei quali finirono per credere al mito da loro stessi creato, il mito, cioè, di un progresso senza fine e di un sistema di produzione e di distribuzione della ricchezza – quello capitalista, appunto – che al termine del suo processo di sviluppo sarebbe stato in grado di garantire a chiunque prosperità e gioia.

I neoliberisti, invece, hanno gettato alle ortiche l’illusione di un progresso capace di includere l’intero genere umano, senza lasciare indietro nessuno. Essi sanno che la loro ricchezza si fonda sullo sfruttamento indiscriminato di una moltitudine di persone. Il sistema che assicura ai padroni una vita principesca si regge non sull’inclusione, bensì sull’esclusione di intere popolazioni di vastissime aree del mondo, relegate al ruolo di manodopera a basso costo e priva di diritti adibita alla produzione di beni. Beni che, una volta prodotti, tali popolazioni non potranno però consumare, perché troppo povere per permetterselo, ma che andranno comunque a riempire i già carichi scaffali dei negozi dei paesi più sviluppati. Gli squilibri fra nazioni ricche e nazioni povere e, all’interno delle singole nazioni – comprese quelle maggiormente industrializzate –, fra chi accumula ricchezze sempre più grandi e chi invece scivola senza sosta verso il baratro della povertà e dell’indigenza, si fanno sempre più accentuati e sfociano sovente in tensioni e conflitti anche molto sanguinosi. Come ha scritto Jérome Baschet nel suo libro intitolato “La scintilla zapatista”, edito da Elèuthera, “se sulla folle bilancia delle disuguaglianze neoliberiste, 24 persone pesano, con le loro ricchezze, quanto 38 milioni di loro compatrioti (in Messico), mentre 358 supermiliardari equivalgono a 3 miliardi di esseri anonimi (nel mondo), chi oserà dire che esistono solo disuguaglianze sociali residue?”.

Ovviamente tutto questo non viene presentato dagli apologeti del neoliberismo come un difetto strutturale e permanente del loro amato sistema. Gli esperti – scienziati, professori, tecnici, analisti, economisti, giornalisti, scrittori – ci tranquillizzano: si tratta di disfunzioni temporanee, che con il passare del tempo verranno progressivamente eliminate e che comunque non hanno impedito di garantire a una larga parte della popolazione mondiale di vivere agiatamente. Che milioni e milioni di persone soffrano pene indicibili non è importante, se alla fine i loro dolori serviranno a dare alle generazioni future dell’intero pianeta quel benessere e quella agiatezza di cui tutti meriterebbero di godere sin da ora.

A dimostrare l’efficacia e il grado di penetrazione della propaganda a favore del capitalismo neoliberista sta il fatto che al dogma di un progresso scientifico, tecnologico e produttivo in grado di migliorare sempre più la condizione umana fino a portarla alla perfezione hanno finito per credere anche molte di quelle forze politiche che da sempre dichiarano di riconoscere proprio nel capitalismo neoliberista il loro principale nemico. Le organizzazioni della sinistra d’ispirazione marxista-leninista, infatti, ritengono sia sufficiente riuscire a impossessarsi del potere e indirizzare il sistema produttivo in modo da piegarlo al soddisfacimento dei bisogni dell’intera collettività anziché di una ristretta cerchia d’individui per assicurare all’umanità il conseguimento del massimo di benessere e di felicità possibili. Certamente tale processo non sarà né breve, né indolore, ma se si opererà con determinazione e spirito di sacrificio alla fine si giungerà senz’altro a un risultato positivo.

Dunque tutto deve essere subordinato all’obbiettivo principale: la presa del potere. “Per questo – affermano gli autori – ogni impegno è concepito in termini di potere e di redenzione. (…) La mistica della redenzione, infatti, vuole che l’oppresso sogni il giorno in cui le cose si ribalteranno, in cui potrà finalmente avere la supremazia. (…) La redenzione è il sogno dello schiavo che vuole diventare padrone”. In ogni politica di potere, in particolare in quella che si definisce rivoluzionaria, è presente una trappola tremenda. Oltre cento anni di lotte rivoluzionarie che hanno messo al centro la questione del potere attestano indiscutibilmente che, malgrado l’impegno e la buona volontà dei dirigenti, “questo è il luogo dell’impotenza, delle promesse che non si possono mantenere.” E’ probabile che né Lenin né i suoi più vicini collaboratori avessero intenzione di fare fucilare degli operai, eppure quando questa violenza gli è sembrata necessaria per consolidare il potere comunista e per proseguire lungo il cammino che infine avrebbe dovuto portare l’intero popolo russo ad essere libero e prospero, non hanno esitato ad attuarla. Così come Fidel Castro, per proteggere la rivoluzione cubana, non ha esitato a sopprimere le libertà civili nell’isola e Pol Pot non si è fatto scrupolo di sterminare una grossa parte del suo stesso popolo. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.

“I partiti comunisti di tutto il mondo, nella loro ricerca, nel loro amore per il potere”, sono caduti in questa terribile trappola. La loro convinzione è che il potere sarebbe necessario a distruggere il capitalismo e a volgere la macchina produttiva da questo ultimo creata a favore del popolo, nonché a punire i colpevoli delle ingiustizie praticate. La loro illusione è che una volta realizzati questi obbiettivi i “buoni al potere” non praticheranno più il male. La realtà, però, è purtroppo diversa. Essa è ben descritta da Nietzsche, secondo il quale “il riformatore sociale si sente separato dal mondo al punto che, per rimettervi ordine, può ricorrere alle stesse ingiustizie e alle stesse violenze che combatte”. Ad eccezione di alcuni gruppi libertari, tutte le organizzazioni rivoluzionarie o a vocazione elettorale d’ispirazione marxista-leninista hanno avuto e hanno tutt’oggi il chiaro obbiettivo della conquista del potere, subordinando così, nella loro pratica concreta, “le esigenze politiche del presente alla futura presa del potere”. Giustificando i mezzi con il fine. Arrivando fino ai “massacri tattici di operai e contadini perpetrati in nome della liberazione di quegli stessi operai e contadini”.

La questione, per Benasayag e Scavino, non è certo di condannare la tecnica in nome di una imprecisata “innocenza primitiva” né di negare l’importanza della tecnica. Si tratta, piuttosto, di chiedersi fino a che punto “il modello del dominio della tecnica si sia imposto come paradigma di qualsiasi pensiero e, in particolare, del pensiero politico”. E, come si è detto, da questo punto di vista “esiste una certa connivenza tra l’attuale trionfo dell’ideologia manageriale e le utopie autoritarie che sognavano di costruire una società razionale in cui si sarebbero definitivamente risolti tutti i problemi umani. L’una e le altre si muovono dall’illusione della possibilità di un dominio razionale delle condizioni di esistenza degli esseri umani, per cui i problemi politici sarebbero solo inconvenienti tecnici”. Al pari del capitalismo, dunque, anche il marxismo-leninismo ha finito per essere un progetto totalizzante e totalitario, e come tale deve essere rifiutato. Tuttavia, troppo spesso questo rifiuto non ha prodotto un pensiero radicale capace di puntare a una politica alternativa. “In realtà, la crisi del marxismo ha gettato il sospetto su ogni politica radicale: dato che un pensiero rivoluzionario non poteva che essere marxista, se questo si rivelava una favola, qualsiasi politica emancipatrice non poteva che essere un mito”. Con la caduta delle teorie marxiste-leniniste, considerate giustamente totalitariste, molti militanti si sono abbandonati a una sorta di “pessimismo politico”.

Per queste persone “la ribellione è impossibile, assurda e pericolosa”, e il sistema sarà in grado, prima o poi, di risolvere tutti i problemi. “La democrazia parlamentare sarebbe così il regime in cui tutti gli elementi della molteplicità sociale sono rappresentati senza eccedenza possibile”.

Per i due autori, però, un simile ragionamento andrebbe ribaltato. Poiché nessun modello sociale può essere compiuto, nessuno può includere tutte le parti di una società. In altre parole, non può esistere nessun modello completamente identificabile con la realtà. “Questo eccedente, necessario e ineluttabile, mette in discussione il modello e lo detotalizza, perché non può esserne riassorbito”. Per questo “ogni modello sociale ha la sua rivolta. (…) Nessuna società sarà l’ultima o la migliore delle società possibili e ci saranno sempre problemi o elementi che resisteranno alle soluzioni dominanti. Possiamo chiamarla con un altro nome, ma una politica radicale ci sarà sempre”. E per non cadere nella trappola del potere tale politica dovrà si essere rivoluzionaria, ma non più improntata al marxismo-leninismo, bensì all’utopia libertaria. “Essa non propone una soluzione futura per l’umanità, perché sa che qualunque soluzione vuole essere definitiva, ma pone il problema qui e ora, il caso che non ha soluzione se le cose stanno così. (…) Utopia è ciò che non ha luogo nello stato di cose corrente, un’ipotesi che la situazione permette di formulare ma che considera impossibile da realizzare e che non può in effetti realizzare a causa del suo stesso funzionamento”.
L’utopia libertaria riconosce che nessuno può essere rivoluzionario “come è uomo, donna, nero, bianco, medico o tornitore”. Si è rivoluzionari quando ci si fa carico degli atti che la situazione esige e che sono quindi indipendenti da qualunque volontarismo razionale. Non esiste uno stato d’animo rivoluzionario, ma solo atti rivoluzionari. “Per questo, anche se in un certo momento qualcuno ha fatto la rivoluzione, nessuno ha il diritto di considerarsi intrinsecamente rivoluzionario, soprattutto quando (…) dirige gli affari di uno Stato”. Quando la rivoluzione finisce per identificarsi con uno Stato, la libertà con il suo “congelamento”, la “verità in eccesso” di cui si è già parlato con la dottrina ufficiale, allora “rivoluzione, libertà e verità diventano le giustificazioni ideologiche dei peggiori totalitarismi”.

La rivoluzione, affermano Benasayag e Scavino, per essere veramente tale, deve fondere la solidarietà e la condivisione, “in una parola il comunismo”, con la libertà. Cioè deve rappresentare una rottura radicale rispetto alla serialità costituita dalle istituzioni e, quindi, dai ruoli e dalle funzioni, dalle divisioni in parti. La politica rivoluzionaria incentrata sull’utopia libertaria, “in quanto condivisione e ipotesi, comincia da un’esigenza di uguaglianza che mette in discussione, almeno per un momento, le divisioni istituite”. I militanti libertari si organizzano sulla base di un principio di solidarietà, di condivisione e di liberazione dai modelli dominanti, dalla serialità tipica del sistema capitalista. Essi si adoperano non per realizzare un mondo nuovo in un futuro che si allontana sempre di più con il trascorrere del tempo, bensì per cambiare lo stato delle cose nel presente, nella vita quotidiana, partendo dalle piccole vicende che li coinvolgono. “E’ questa l’utopia: inventare altri mondi, altri modi d’essere” qui e ora. La politica rivoluzionaria di stampo libertario, scrivono gli autori, “invece di definire le strade della liberazione secondo i criteri scientifici dell’ufficio politico, (…) mette il pensiero politico al servizio di una lotta di liberazione qui e ora perché la situazione è pensabile solo sulla base delle esigenze. L’impegno politico e intellettuale si può definire in sintesi in questo modo: la teoria e la pratica si articolano a partire dalle esigenze. La scuola di Francoforte chiamava utopia l’esigenza che stabilisce il legame tra la filosofia, la sua epoca e una situazione”.

Il libro di Miguel Benasayag e Dardo Scavino si chiude con un monito rivolto a tutti coloro che parlano di fine della politica radicale, che affermano che nella nostra epoca non c’è niente, proprio niente, per cui valga la pena mettersi in gioco e impegnarsi. Costoro, secondo gli autori, si sbagliano di grosso. “Rivolte, lotte di liberazione e di solidarietà ci saranno sempre, come sempre ci sono state. In compenso è la fine (almeno si spera) di una certa modalità storica di concepire la rivolta politica. Questa crisi, certo, non è estranea all’individualismo e allo scetticismo della nostra epoca. Si tratta in ogni caso di chiedersi: Che fare in questa situazione? qui e ora, per continuare a fare quel che si è sempre fatto, che non si smetterà mai di fare e che, però, ha bisogno del nostro impegno per continuare a esistere”.

Massimo Virgilio
Questa recensione è stata pubblicata nel n. 267 di “Diorama Letterario” , Mensile di attualità culturali e metapolitiche
settembre-ottobre 2004.
Fonte:http://metapolitica.splinder.com/
3.11.04

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