PALESTINESI E ISRAELIANI DI FRONTE ALLA SFIDA DELLA VIOLENZA

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blankDI JEAN-MARIE MULLER
Anarchisme & Non-violence

L’omicidio è la questione

Ho appena finito di leggere attentamente i testi che presentano la campagna di mobilitazione in favore del popolo palestinese, decisa dalla Piattaforma delle ONG francesi per la Palestina [1]. Questa campagna culminerà con una grande manifestazione che si svolgerà il 17 maggio 2008 al Parco delle Esposizioni della porta di Versailles. In amichevole dialogo con queste ONG, vorrei provare ad esprimere la mia analisi della attuale situazione nel Vicino-Oriente.

Certamente, condivido totalmente l’affermazione secondo la quale il popolo palestinese ha diritto alla solidarietà di tutti coloro che hanno a cuore la giustizia. Questa affermazione è il fondamento su cui deve essere costruita la nostra analisi. All’evidenza dei fatti il popolo palestinese è vittima dell’occupazione e della colonizzazione messa in atto dallo Stato d’Israele con la complicità della comunità internazionale. Ma, oggi, la nostra analisi deve basarsi su di un altro fatto non meno incontestabile: non potrà essere elaborata alcuna soluzione senza tenere conto della presenza sulla stessa terra di Palestina del popolo israeliano. Ciò non per ragioni di diritto ma in forza dei fatti. Dal punto di vista palestinese, il mantenimento dello Stato d’Israele non si fonda sulla legittimità ma sulla necessità. Senza il riconoscimento di questa necessità, nessuna pace sarà mai possibile. Per quanto sia contestabile, in teoria, il principio del “fatto compiuto”, esso è divenuto incontestabile in pratica. Non entro affatto nell’argomentazione “sionista”, fondata su considerazioni storiche e/o religiose, per giustificare l’occupazione della Palestina da parte d’Israele. Non sono quindi le esigenze della giustizia, ma gli avvenimenti della storia che ci devono portare ad accettare il fatto compiuto della presenza degli Israeliani in Palestina. Al momento presente, l’idea stessa che ciascuno dei due popoli possa vivere in uno stato libero e sovrano presuppone di accettare il fatto compiuto di tale presenza. Da qui, si impone il “principio di realtà” che consenta di discernere il desiderabile, il possibile e l’impossibile. Il dramma è che sopravvive ancora, tra i Palestinesi, una forte minoranza che rifiuta ogni coesistenza con Israele. Al momento presente, una analoga minoranza esiste ugualmente in Israele che rifiuta la coesistenza con i Palestinesi. Oggi più che mai queste minoranze costituiscono ostacoli difficilmente sormontabili per condurre a termine qualunque processo di pace. La pace non sarà possibile fino a quando Israele non avrà riconosciuto tutte le ingiustizie e tutte le sofferenze che il “fatto compiuto” della loro presenza in Palestina avrà causato ai Palestinesi.

Un altro principio cardine deve fondare la nostra analisi: non è e non sarà possibile alcuna soluzione imposta con la violenza. E’ necessario accettare questo principio in tutta la sua radicalità. Vale per ciascuno dei due popoli nemici. Essendo di fatto Israele l’aggressore, è prima di tutto a lui che bisogna chiedere di cessare di perseguitare e umiliare i Palestinesi. Senza alcun dubbio bisogna iniziare col dire ciò agli Israeliani. Non bisogna smettere di denunciare le violazioni dei diritti dell’uomo che sono quotidianamente poste in essere dagli Israeliani. Ma resta il fatto che la resistenza palestinese si chiude essa stessa in un impasse fintanto che continua a credere di dover ricorrere alla violenza. Tutti i dibattiti astratti sul diritto di un popolo oppresso di ricorrere alla violenza devono essere qui considerati come non pertinenti. La violenza non può che stringere ancor di più il nodo del conflitto, mentre si tratta di scioglierlo. Ora, bisogna convenire che questo principio non è riconosciuto dall’insieme dei Palestinesi, al contrario. E non è ugualmente riconosciuto, al contrario, dall’insieme di chi, soprattutto in Francia, afferma la necessità di ricorrere alla violenza per vedere riconosciuti i diritti dei Palestinesi dallo Stato israeliano. Insisto, il problema, qui e ora, non è di discutere la legittimità della violenza – anche se a me sembra eminentemente discutibile – ma di interrogarsi sull’opportunità politica e strategica di questa violenza. Ora, il realismo ci obbliga a riconoscere che questa violenza è assolutamente controproducente. In-operante. Im-potente. In-efficace. La violenza palestinese non può avere come effetto che di provocare e giustificare una estrema violenza israeliana. Certuni non mancheranno di ripetere che spetta prima agli Israeliani di rinunciare alla violenza dell’occupazione. Sono perfettamente d’accordo. Ma se con questo si vuole intendere che i Palestinesi non potranno rinunciare alla violenza che a partire dal momento in cui i loro diritti saranno riconosciuti da Israele, dire ciò è precisamente rifiutarsi di vedere e comprendere la realtà.

Nelle ultime settimane ho ricevuto molte mail a proposito della situazione a Gaza. Ognuno può capire che, come chiunque, sono profondamente ferito, straziato dalla sofferenza dei Palestinesi di Gaza. Certamente, anche qui, la principale responsabilità è israeliana. Certamente. E’ sostanziale. Certamente. Ma oso dire che così si considerano i Palestinesi persone irresponsabili, si rifiuta di vedere la responsabilità palestinese. Come si può essere accecati al punto di non voler capire che qualche razzo artigianale lanciato da Gaza sul territorio d’Israele non può avere altro effetto che provocare un soprassalto di violenza da parte degli Israeliani. La violenza non è una fatalità. Essa di per sé non impone mai le sue leggi. Ma, una volta che la si è scelta, le sue leggi sono implacabili. Inflessibili. Schiaccianti. Crudeli. Feroci. Disumane. Penso che sia responsabilità di coloro che affermano la loro solidarietà con i Palestinesi dire ciò alto e forte. Per metterci in regola con la violenza, bisogna che la ragione prevalga sull’emozione.

In un comunicato pubblicato il 20 gennaio 2008, l’Associazione France Palestine Solidarité (AFPS) afferma: “I lanci di razzi artigianali su Sdérot non potranno giustificare che una intera popolazione civile sia presa in ostaggio da uno Stato ultrapotente che da 60 anni rifiuta di applicare il diritto internazionale. L’AFPS condanna vigorosamente questa escalation criminale contro civili palestinesi indifesi (…) Essa chiede che cessi immediatamente l’assedio mortale di Gaza.” Una tale dichiarazione è particolarmente significativa. Essa esprime esattamente l’errore di analisi che rende sterile ogni protesta, per quanto indignata e incantatoria, contro la politica in effetti inaccettabile dello Stato d’Israele. In realtà, un tale atteggiamento di rifiuto costituisce una confessione. Dire che “i lanci di missili non potranno giustificare …”, è riconoscere che in realtà giustificano …. Se è necessario dire che non dovrebbero giustificare, è precisamente perché giustificano … E per privare gli Israeliani di questa giustificazione di cui si avvalgono davanti all’opinione pubblica internazionale e grazie alla quale beneficiano dell’impunità, bisogna cessare il lancio di razzi. La semplice logica ci obbliga a correggere così la formulazione dell’AFPS: “ I lanci di razzi artigianali su Sdérot non potranno giustificarsi in quanto conducono ineluttabilmente alla presa in ostaggio di un’intera popolazione civile da parte di uno Stato ultrapotente.” C.v.d.

E’ un imbroglio quando, col pretesto di essere solidali con la resistenza dei Palestinesi, facciamo mostra di affermare la nostra solidarietà con la loro violenza. Accomodarsi su questa violenza non è essere solidali con la resistenza dei Palestinesi, ma essere complici della loro disgrazia. In definitiva, non è nella speranza di vincere che i Palestinesi ricorrono alla violenza, ma come ultima risorsa. Non dovremmo essere conniventi con questa disperazione. L’esito tragico della violenza palestinese è di essere un processo suicida. Abbiamo l’obbligo di fare di tutto per fermare questo processo. Con la scusa di non voler far disperare Gaza, non si vuole riconoscere, e soprattutto non si vuole dire, che sul terreno, da lungo tempo, i Palestinesi hanno perso la guerra. Quando la guerra è persa non serve a nulla volerla continuare. I combattenti che si attardano sono già perduti. Detto questo, non è che gli Israeliani abbiano vinto la pace. Per questo, essi devono prima riconoscere i diritti inalienabili dei Palestinesi a vivere sulle loro terre.

D’altronde, come analizzare quello che il testo della Piattaforma chiama “gli scontri inter-palestinesi”? Essi, vi è affermato, “hanno turbato un certo numero di militanti”. Si aggiunge: “Per dissipare questo conflitto bisogna approfondire il dibattito sulle questioni in campo”. Il dibattito è in effetti necessario, anche se alcuni affermano che i sostenitori della causa palestinese non devono entrare in un dibattito che non è il loro. Prima di tutto, è sicuro che il rifiuto della comunità internazionale, e in particolar modo dell’Europa, di dialogare con i rappresentanti di Hamas, dopo la sua vittoria alle elezioni libere e democratiche del 25 gennaio 2006, costituisce un grande errore politico. Tale rifiuto non ha fatto altro che chiudere Hamas nella sua ideologia estremista. Del resto al Fatah, da parte sua, portava anch’esso una pesante responsabilità per il fallimento della sua gestione politica ed economica dei territori palestinesi.

In una dichiarazione del 3 febbraio 2006, il presidente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite “ si felicita con il popolo palestinese in occasione della consultazione elettorale libera e giusta che si è svolta in tutta sicurezza”. Tuttavia, a proposito dello “sviluppo dei finanziamenti messi a disposizione del governo “, il presidente “nota che i principali donatori hanno fatto sapere che riesamineranno la loro futura assistenza al nuovo governo dell’Autorità palestinese in relazione all’attaccamento di questo governo ai principi della non-violenza (il corsivo è mio) e al riconoscimento d’Israele e all’accettazione degli accordi e delle obbligazioni precedentemente sottoscritti”. Ci si può stupire che il Consiglio ingiunga al governo dell’Autorità palestinese di conformare la propria politica “ai principi della non-violenza”. Sarebbe interessante sapere precisamente cosa il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite voglia intendere. E’ perlomeno insolito che utilizzi questo linguaggio. Si può essere certi che lo stesso Consiglio, in ciascuna delle sue decisioni, conformi la sua politica ai principi della non-violenza? E’ tutto sommato da rimarcare che il presidente non formuli la medesima esigenza verso lo Stato d’Israele, come pure per essere coerente avrebbe dovuto fare. Riguardo a Israele, la dichiarazione si contenta di riaffermare “che il proseguimento delle colonie deve cessare” e di ribadire “la preoccupazione che suscita il tracciato del muro”. Che è dire molto poco. Ci sono dunque due pesi e due misure. Da parte mia, non intendo appoggiarmi a questo appello alla “non-violenza” che mi appare alquanto equivoco.

Stando così le cose, non potremmo negare le responsabilità dei Palestinesi negli scontri fratricidi in cui si oppongono e contentarci d’incriminare Israele e gli Occidentali. Quando i Palestinesi uccidono altri Palestinesi, c’è una certa disonestà intellettuale nel negare qualsivoglia responsabilità palestinese e contentarsi di dire “è colpa degli israeliani” oppure “è colpa della comunità internazionale”. Quando i Palestinesi uccidono altri Palestinesi cosa ne è della nostra solidarietà? Non è irrisoria quanto impotente? Tanto sconveniente che inefficace? Come rotta? Perché, in fin dei conti, di quale causa sono martiri gli uccisi? Di quale causa che ancora meriti la nostra solidarietà? Come essere solidali con il fratricidio? Eppure, la nostra solidarietà con il popolo sofferente della Palestina è più necessaria che mai. Ma a condizione che non sia mai complice.

In definitiva, a me sembra che l’urgenza assoluta sia che i Palestinesi decidano di rinunciare alla violenza. Questa decisione avrebbe tanta più forza in quanto unilaterale. Perché sta ai Palestinesi fare il primo passo? Perché nel gioco tragico della lotta armata, se non c’è nessun vincitore, loro sono i primi perdenti. Ho la convinzione che l’annuncio di tale decisione avrebbe una risonanza formidabile e un impatto considerevole che trasformerebbe radicalmente il conflitto che li oppone agli Israeliani. Non c’è dubbio che la rinuncia alla violenza farebbe apparire la causa palestinese in tutta la sua chiarezza agli occhi dell’opinione pubblica mondiale e varrebbe ai Palestinesi una solidarietà internazionale senza paragone con quella attuale. Questa rinuncia alla violenza non sarebbe una semplice tregua. Le tregue s’inscrivono ancora nella logica della violenza – esse annunciano già all’avversario la ripresa della violenza – , non trasformano la natura del conflitto.


[Manifestante non-violento a Bil’in]

Le autorità di Hamas hanno proposto un cessate il fuoco, se Israele mette fine al blocco di Gaza. Ma Israele afferma di voler continuare i suoi raid militari su Gaza fintanto che Hamas proseguirà i suoi lanci di razzi. Ciascuno rimane nella sua logica che è la logica della violenza. Una logica di morte. E ciascuno dirà di non avere altra scelta. Che la scelta gli è imposta dalla scelta dell’altro. E’ quello che si chiama un circolo vizioso.

L’abbandono unilaterale della violenza da parte dei Palestinesi non apparirebbe come un atto di debolezza, ma come un atto di forza. Riconosciuto come tale, prenderebbe completamente in contropiede lo Stato d’Israele la cui potenza militare, che costituisce tutta la sua forza in uno scontro violento, diventerebbe inutile. Ciò avrebbe ugualmente il vantaggio di permettere alle reti israeliane ed ebraiche di militanti per la pace di aumentare ampiamente la loro audience in seno alla società civile d’Israele e nel mondo. Ciò potrebbe rivelarsi decisivo. Perché anche la violenza israeliana è un processo suicida. In fondo, gli Israeliani e gli ebrei che, attaccati alla realtà d’Israele, non sono meno disgustati dai crimini e le distruzioni di cui lo Stato d’Israele si rende colpevole, non dovrebbero adottare anch’essi una strategia non violenta per combattere la colonizzazione della Palestina?

Inoltre, la rinuncia dei Palestinesi alla violenza permetterebbe il dispiegamento di una forza d’intervento civile di pace, il cui progetto fu l’oggetto di una campagna organizzata dal MAN [Movimento per un’Alternativa Non-violenta, ndT] nel 2005 in collaborazione con numerose ONG europee, palestinesi e israeliane [2]. Questa forza sarebbe composta da volontari internazionali disarmati, con una formazione nella risoluzione non-violenta dei conflitti, che avrebbero la missione di condurre presso la popolazione civile azioni di osservazione, interposizione e mediazione di prossimità, al fine di permettere agli attori di pace palestinesi e israeliani di riappropriarsi della posta in gioco nel conflitto, oggi confiscata dalla logica della violenza, e di creare le condizioni per una soluzione politica del conflitto accettabile da entrambe le parti. Si tratterebbe di dispiegare sul terreno decine, centinaia, migliaia di diplomatici di prossimità la cui presenza disarmata all’interno della società civile avrebbe come prima finalità quella di fare diminuire le paure ed abbassare il senso di insicurezza, e di creare misure di fiducia tra gli attori del conflitto.

Mi sembra già di sentire quelli che protesteranno rimproverandomi la presunzione di dare lezioni morali a un popolo oppresso. Possono rassicurarsi, considero intoccabile il principio secondo il quale spetta ai Palestinesi, e soltanto ad essi, di decidere i mezzi della resistenza che sembreranno loro i più appropriati. Essi soltanto, del resto, pagheranno il prezzo che ci sarà da pagare. Ma l’idea che ho della solidarietà non esclude né il dialogo, né la condivisione, né il dibattito e neppure, se è il caso, il disaccordo. Penso che ciò faccia parte integrante di una solidarietà fraterna.

Si dirà che i Palestinesi non sono violenti per scelta; vi sono costretti dalla situazione loro imposta a causa dell’aggressione del nemico sionista e la complicità della comunità internazionale. Ma credere questo non è forse pensare che i Palestinesi sono prigionieri di un destino tragico che li condanna ad essere o martiri o assassini? Credere questo non è negare loro ogni autonomia di pensiero e d’azione? Rifiutarsi di discutere con loro sulla scelta delle armi, non è in realtà negare loro quella autonomia che si pretende di riconoscere? Non è espropriarli della responsabilità di essere capaci d’analisi e di capacità decisionale? Voler discutere con loro non è scommettere sulla loro capacità di autonomia, sulla loro libertà di decidere, in fin dei conti sulla loro dignità? Riconoscere la responsabilità palestinese nella tragedia della violenza non è minimizzare la responsabilità israeliana. L’una e l’altra non obbediscono al principio dei vasi comunicanti.

No, non sto dando una lezione di morale, tento di discernere un’analisi politica che implica una scelta strategica. Non che la problematica morale sia estranea a questo dibattito – ne è in definitiva essenziale – ma, al momento, non voglio mettermi su questo registro. Da anni e anni la violenza palestinese inquina la propria causa agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. I militanti pro-palestinesi s’indignano dell’indifferenza della comunità internazionale senza capire che, in larga misura, questa indifferenza si nutre proprio della violenza palestinese. L’idea prevalente presso la maggioranza silenziosa è che “Israele deve pur difendersi”. Questa idea in cui, che ci piaccia o no, dobbiamo in fin dei conti riconoscere una parte di verità, agisce sull’opinione pubblica come un anestetico. Si può certamente dispiacersi, ma non la si può negare.

La scelta politica qui analizzata di rinunciare alla violenza non è ispirata alla scelta della non-violenza. Essa è dettata da un’analisi politica che si sforza di considerare la realtà della situazione. Pertanto, la rinuncia alla violenza dovrebbe essere tutto tranne una rinuncia alla resistenza. Tutto sommato, non si tratta di rinunciare al diritto alla violenza, ma di rinunciare all’esercizio di tale diritto. In nome del realismo politico. Ed è qui che si pone la questione di una strategia dell’azione non-violenta come alternativa alla violenza. Sappiamo che i Palestinesi, da molti anni, riflettono sulla non-violenza. Ma, anche tra di loro, prevale spesso l’idea che la scelta della non-violenza non implicherebbe una critica radicale della scelta della violenza. Il più delle volte conservano l’idea che la necessità di resistere alle ingiustizie che subiscono dall’occupazione israeliana dia ai Palestinesi il diritto di ricorrere alla violenza. Anche se essi stessi scelgono l’azione non-violenta, accettano il principio della “diversità delle tattiche” – o della “pluralità delle tattiche” – secondo il quale è utile conciliare nella medesima lotta sia azioni violente che azioni non-violente. Così, per molti di loro, la non-violenza può sempre andare di pari passo con la violenza. Da qui, non propongono la rinuncia alla violenza come principio politico. Ho abbastanza amicizia verso di loro per dire che questa posizione non è sostenibile. Se la complementarietà tra violenza e non-violenza ha un senso dal punto di vista della violenza, non ne ha dal punto di vista della non-violenza. Fintanto che considerano la non-violenza come un complemento alla violenza, essi si situano ancora nella logica della violenza.

Stando così le cose, capisco le difficoltà in cui si trovano. Non osano affermare la scelta della rinuncia alla violenza perché sono consapevoli che tale affermazione li renderebbe sospetti, agli occhi di molti di loro, di essere dei traditori della resistenza palestinese. Ed è vero che qualcuno li accuserebbe di fare il gioco dei sionisti. Bisogna considerare il fatto che negli ultimi anni si è sviluppata all’interno del popolo palestinese una vera e propria “cultura della violenza”. Il ricorso alla violenza appartiene al suo immaginario. E’ diventato un fondamento dell’identità nazionale. L’esito tragico della situazione è che si tratta in effetti di una “cultura di morte”. Questa “cultura di morte” si basa particolarmente sul “culto dei martiri”. Il compito, ed è un compito gigantesco, è dunque di decostruire questa cultura di violenza e di costruire una cultura di non-violenza.

Idealmente, la rinuncia alla violenza dovrebbe accompagnarsi alla scelta di una strategia di resistenza non-violenta. E’ possibile? Non c’è nulla di meno certo nelle circostanze presenti. Probabilmente è attualmente impossibile come strategia globale da attuarsi su tutto il territorio palestinese. Impossibile non solo in sé ma nei fatti. Tuttavia, l’ azione non-violenta degna di nota condotta dagli abitanti di Bil’in costituisce una reale speranza [3].

Viene spesso detto che la prima Intifada, cominciata nel 1987 e durata più di quattro anni e mezzo, sia stata non-violenta. Ciò a rigore non è esatto. Certamente, il Comitato esecutivo dell’OLP ha deciso di vietare l’uso di armi da fuoco e questa decisione ha rappresentato un avvenimento di cui è bene sottolineare l’importanza. Peraltro, sono state messe in atto numerose azioni non-violente (disobbedienza civile, boicottaggio, istituzioni parallele, ecc.). Ma la scelta della non-violenza non è mai stata posta in primo piano. Il simbolo della prima Intifada è stato il lancio di pietre. Non era un simbolo di non-violenza ma esattamente un simbolo di violenza. In questo modo la resistenza palestinese non ha beneficiato dell’impatto che avrebbe avuto una resistenza non-violenta [4]. Un amico palestinese mi ha detto: “Se durante la prima Intifada fossimo stati non-violenti, lo saremmo stati anche nella seconda.” Trovo queste parole molto sagge.

Gli avvenimenti svoltisi a Gaza il 25 febbraio sono particolarmente significativi. Si è formata una catena umana da nord a sud della striscia di Gaza per circa 40 chilometri. I manifestanti erano per la maggior parte studenti. La manifestazione era stata organizzata dal Comitato popolare contro l’assedio di Gaza, diretto dal deputato Jamal Al-Khoudari. Egli ha dichiarato: “Si tratta di un’attività pacifica e civile che permette alle persone di esprimere il loro rifiuto dell’assedio e della punizione collettiva. Lanciamo un grido di allarme affinché il mondo reagisca.” Secondo l’AFP [Agenzia France-Presse, ndT], “l’esercito e la polizia israeliani si tenevano pronti per fronteggiare ogni sconfinamento della frontiera, facendo capire che non avrebbero esitato a sparare pallottole vere come ultima risorsa.” Secondo la formula di rito “non ci sono stati incidenti di rilievo”. Tuttavia, al momento dello scioglimento della manifestazione, qualche giovane palestinese ha lanciato pietre ai soldati israeliani al passaggio di Erez. Questo genere di agitazioni possono bastare per fare degenerare una manifestazione pacifica. Bisogna anche notare che all’inizio della manifestazione sono stati lanciati due razzi dal nord della striscia di Gaza in direzione del territorio israeliano. Ma non c’è un’insanabile contraddizione tra l’organizzare una catena umana, che è la tipica azione non-violenta, e il lancio di razzi? Come pretendere che il “messaggio” dato dalla prima azione sia complementare al “messaggio” lanciato dalla seconda? Certo, i dirigenti di Hamas hanno dichiarato che i lanci di razzi erano una risposta ai lanci di missili israeliani che avevano ucciso tre Palestinesi nella notte tra il 24 e il 25 febbraio. E’ esattamente questo ingranaggio mortale che fa perdere la pace a ciascuno dei due contendenti.

Il 27 febbraio ho ricevuto una mail da Ziad Medoukh, fondatore e coordinatore del Centro della pace universale Al-Aqsa di Gaza nel quale mi scriveva: “Ci sono molte manifestazioni pacifiche contro il blocco organizzate da organizzazioni della società civile. Sappiamo che la non-violenza potrebbe giocare un ruolo molto apprezzato.” Bisogna accogliere questo segnale di speranza.

Sono ben consapevole che il discorso sulla rinuncia alla violenza è difficilmente ascoltabile da parte di un gran numero di militanti pro-palestinesi francesi. Però, più ci rifletto, più mi convinco che solamente la decisione palestinese di rinunciare unilateralmente alla violenza sia capace, alla fine, di cambiare i giochi in Palestina. Altrimenti, la situazione rischia di peggiorare ogni giorno di più. E ciò malgrado le attuali gesticolazioni diplomatiche. Altrimenti, continueremo ad assistere, impotenti e scandalizzati, al montare sempre più estremo della violenza.

Le rivendicazioni avanzate dalla Piattaforma delle ONG francesi per la Palestina sono tutte in teoria giustificate:

– Ritiro dai Territori palestinesi e creazione di uno Stato palestinese vivibile all’interno delle “frontiere” del 1967;
– Smantellamento del muro;
– Smantellamento delle colonie, ristabilimento della libertà di circolazione di persone e merci nei Territori palestinesi occupati;
– Riconoscimento di Gerusalemme –Est come capitale del futuro Stato palestinese;
– Riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi palestinesi;
– Liberazione dei prigionieri politici palestinesi detenuti in maniera illegale.

Ma ho molta paura che queste rivendicazioni siano oggi, e probabilmente domani, fuori portata. Bisogna avere la lucidità di riconoscere che rispetto alla situazione che, in ciascuno dei due campi, prevale sul terreno e soprattutto nelle mentalità, queste esigenze sono irrealistiche. Oggigiorno, con tutta probabilità, esse provengono da una visione idealistica della realtà. Continuare a proporle, come viene fatto da anni, non cambierà nulla nella reale situazione. E’ per questo, del resto, che numerosi osservatori pensano che la situazione reale renda sempre più impossibile la creazione di uno Stato palestinese vivibile. E’ per questo che un numero sempre maggiore di Palestinesi pensa seriamente alla creazione di un unico Stato bi-nazionale democratico e laico. Per sfortuna, anche questo progetto è certamente fuori portata. Leggevo l’altro giorno una conversazione, del resto molto educata, tra due personalità palestinesi che su questa questione avevano opinioni opposte. Quello che mi ha colpito è che le argomentazioni dell’uno per rigettare il punto di vista dell’altro erano infinitamente più convincenti di quelle che si sforzavano di fare valere per giustificare il proprio punto di vista.

Stando così le cose, resta che gli obiettivi avanzati dalla Piattaforma sono giusti riguardo al diritto internazionale. In linea di principio, il rispetto delle esigenze formulate dai Palestinesi non dipende da una decisione dei palestinesi, ma dalla decisione degli Israeliani. Ciò che spetta ai palestinesi è di decidere quali iniziative prendere per creare le condizioni politiche che permettano loro di realizzare questi obiettivi. Devono per questo ricorrere alla violenza? I fatti hanno già dato una risposta negativa alla domanda. E, come ben sappiamo, i fatti sono testardi. La risposta dei fatti è non soltanto che la violenza non fa progredire la giustizia, ma la fa indietreggiare. La rinuncia alla violenza appare come una delle condizioni sine qua non per raggiungere questi obiettivi. Ma la rinuncia alla violenza, aldilà del suo impatto immediato sull’opinione pubblica, di per sé non potrà essere sufficiente. Permetterebbe giusto d’inventare e sperimentare i metodi di una strategia di resistenza non-violenta [5].

In definitiva, di fronte alla situazione al momento prevalente in Palestina, quale è la scelta più realistica? La scelta realistica è quella nello stesso tempo possibile, probabile e efficace. La scelta della violenza è possibile e probabile. Ma è inefficace. La scelta della non-violenza è possibile ed è efficace. Ma non è probabile. Da qui, la scelta realistica è quella di prendere tutte le iniziative possibili per aumentare le probabilità della scelta non-violenta. La scelta della resistenza non-violenta offre un’uscita “ideale”, ma non è idealistica. I Palestinesi che la adotteranno possono sperare di mettere dei picchetti che saranno utili quando delitti e rovine avranno suscitato, di fronte al disastro, una presa di coscienza mondiale.

Oggi la situazione è gravissima, probabilmente più di quanto osiamo riconoscere. Ma non è una fatalità. A condizione di sforzarsi di dare prova di lucidità. E’ quello che mi sono sforzato di fare. Senza tuttavia pretendere di esserci riuscito.

Oggi si tratta di evitare il peggio. E il peggio sarebbe una esplosione di violenza generalizzata. Catastrofica. La comunità internazionale deve mobilitarsi senza indugi per fare cessare il blocco economico imposto da Israele alla popolazione della Striscia di Gaza. La situazione umana e umanitaria è diventata tragica. Assolutamente. Bisogna con urgenza, senza condizioni, allacciare un dialogo diplomatico con le autorità di Hamas che controllano la zona e fare pressione sulle autorità d’Israele. L’idea, che ha prevalso finora, che “non si dialoga con i terroristi” non è accettabile ed è contestabile, come penso di aver sottolineato a sufficienza, quanto il lancio di razzi. Questi non potranno essere più a lungo un pretesto per l’inazione della comunità internazionale. La quale sarà più credibile nel richiedere un cessate il fuoco ai Palestinesi se si sarà impegnata con la massima determinazione perché siano rispettate nei confronti degli abitanti di Gaza le semplici esigenze di umanità. Ci sono tutte le condizioni per applicare il principio d’ingerenza umanitaria e democratica. Domani sarà troppo tardi.

26 febbraio 2008

PS1: I fatti sono decisamente testardi. Da quando ho finito di scrivere questo testo, i fatti non hanno cessato di parlare. Molto forte. Violentemente. Mortalmente. La mattina del 27 febbraio, un raid israeliano colpisce un minibus del braccio armato di Hamas a Khan Younès a sud di Gaza, uccidendo cinque persone e ferendone una sesta. Un secondo raid condotto sullo stesso luogo qualche minuto più tardi provoca tre feriti. Lo stesso giorno, un razzo della resistenza è lanciato dalla striscia di Gaza e colpisce in pieno la scuola Sapir, a nord della città di Sdérot, uccidendo un israeliano. Si tratta del primo morto israeliano dopo la presa del potere da parte di Hamas a Gaza nel giugno 2007. Il lancio del razzo, afferma un comunicato di Hamas, è “una risposta al massacro sionista commesso dall’aviazione israeliana questa mattina a Khan Younès”. Poco dopo, due Palestinesi sono uccisi e altri due feriti in un nuovo raid israeliano a nord-est della città di Gaza. Giovedì, vengono condotti numerosi raid dell’aviazione israeliana su Gaza. In due giorni, vengono uccisi trentuno Palestinesi, tra cui quindici civili e tra essi otto bambini uno dei quali di sei mesi. Giovedì sera, Hamas dichiara di aver lanciato 82 razzi. Due di essi raggiungono Ashkemon, una città di 120.000 abitanti a 40 chilometri da Tel Aviv. E i fatti non sono ancora pronti a tacere. E ciascuno dei due campi nemici continua a giustificare i suoi morti con altri morti. La violenza è un ingranaggio cieco. “Noi non sapremo niente – scriveva Albert Camus – fino a quando non sapremo se abbiamo il diritto di uccidere l’altro che ci sta di fronte o consentire che venga ucciso. (…) L’omicidio è la questione.” Si, l’omicidio è la questione. A ciascuno di rispondere. Con piena responsabilità. 29 febbraio 2008

PS2: Il 6 marzo 2008, un giovane Palestinese di 25 anni, Abu Dheim, penetra nella biblioteca di una scuola talmudica situata a Gerusalemme-Ovest e, armato di kalashnikov, uccide otto studenti e ne ferisce altri nove prima che un agente israeliano gli spari due colpi alla testa. 7 marzo 2008.

Jean-Marie Muller è il portavoce nazionale del Movimento per un’alternativa non-violenta (MAN; [email protected] ; sito : www.nonviolence.fr). Autore del Dictionnaire de la non-violence (Le Relié Poche)

NOTE

[1] Crf : www.plateforme-palestine.org

[2] Al riguardo, si veda il mio intervento all’incontro internazionale di Betlemme del dicembre 2005, Choisir la non-violence pour rendre possibile un autre monde [Scegliere la non-violenza per rendere possibile un altro mondo], Centre de ressources sur la non-violence de Midi-Pyrénées, 2006.

[3] Cfr: : www.bilin-village.org/français/decouvrir-bilin

[4] Su questo tema si veda lo studio rigoroso e documentato di Mohammed Abu-Nimer, Non-violence and Peace Building in islam, Theory and Practice [ Non-violenza e costruzione della pace nell’islam, teoria e pratica], University Press of Florida, 2003.

[5] Al riguardo, un documento estremamente prezioso è il libro del palestinese Mubarak Awad Non violent struggle – 50 crucial points [Lotta non-violenta – 50 punti cruciali]. Cfr anche il mio opuscolo La non-violence en action [La non-violenza in azione], edito dal MAN, tradotto in inglese e in arabo. Consultare anche il sito arabo: www.maaber.org.

Titolo originale: “Les Palestiniens et Israéliens face au défi de la violenc”

Fonte: http://anarchismenonviolence2.org
Link
27.03.2008

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da MATTEO BOVIS

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