DI GUIDO CALDIRON
Liberazione
«E’ più facile fare un libro su Sarkozy… Il semplice fatto che qualcuno possa scrivere un’inchiesta senza autorizzazione su Zidane è considerato inammissibile. Come se il soggetto rappresentasse qualcosa di religioso». Uno dei responsabili delle edizioni parigine Flammarion ha raccontato così nei giorni scorsi a Le Monde il furto del manoscritto della biografia di Zizu a cui stava lavorando il giornalista Besma Laouri. Nel libro, la cui pubblicazione era annunciata per l’inizio dei campionati europei, sarebbero affrontati argomenti quali il doping, i contratti pubblicitari e gli investimenti finanziari compiuti dal campione. Non sembrerebbe, ma evidentemente si tratta di rivelazioni in grado di togliere il sonno a qualcuno al punto da far scomparire da più di un computer appunti e dichiarazioni di Zinédine Zidane.
Gli interessi che ruotano intorno al calcio, o meglio quella che si potrebbe definire come l’economia del pallone, non conoscono confini. Proprio un francese, Christian Authier, aveva descritto gà nel 2001 con Foot business (Hachette) l’avvento del «neocapitalismo del calcio». «A cosa assomiglia ormai l’economia del pallone? A quale modello si ispira? – si chiedeva Authier – A quello di qualunque altro settore economico guidato dai mercati della Borsa (…) Il calcio è l’affare più globale del mondo nell’epoca della mondializzazione dei mercati e del trionfo dell’industria del piacere. Quale altra merce è comprata da tre miliardi di consumatori? Nemmeno la Coca Cola…».
Il mistero della biografia di Zidane trova posto negli equilibri instabili frutto della “finanziarizzazione” del calcio: ogni segreto svelato può influire non solo sulla fama di questo o quel campione ma anche su interessi ben più concreti, sui delicati meccanismi del mercato. «Il calcio è entrato in una guerra economica e finanziaria i cui eserciti più efficienti sono rappresentati da una ventina di club europei – aggiungeva il ricercatore francese – I migliori giocatori sono dei mercenari che si vendono al maggiore offerente (…) Si può arrivare a immaginare che, ben presto, i numeri delle maglie saranno rimpiazzati dal valore di mercato di ciascun giocatore».
Ciò che non è ancora del tutto chiaro è se la rivoluzione liberale del pallone, che è sul punto di eliminare perfino gli spettatori dagli stadi sostituendoli con gli abbonati delle pay-tv, riuscirà a rompere il vincolo che prima che all’economia ha legato per circa un secolo il gioco del calcio alla politica. Vale a dire se la globalizzazione del mercato del pallone l’avrà alla fine vinta sulla vecchia geopolitica del football. La sfida, come si usa dire in questi casi, è stata lanciata.
Questa vigilia di debutto di Euro 2008 può perciò servire a ripercorrere alcune delle tappe che hanno costruito la storia di questa relazione tra lo spazio pubblico della società e la sua rappresentanza politica e l’universo simbolico di uno degli sport più popolari del mondo. Avendo in mente alcune indicazoni che venivano da un analista molto preciso delle relazioni esistenti tra miti e feticci della realtà contemporanea e le istituzioni sociali, come Roland Barthes. «Lo sport rientra nel mondo non mediato delle passioni e delle aggressioni e vi trascina la folla che era venuta proprio a chiedergli di essere purificata, allontanata da quel mondo. Lo sport è il crinale che separa il combattimento dalla sommossa», scrive Barthes a commento delle immagini girate all’inizio degli anni Sessanta dal regista canadese Hubert Aquin per il documentario Lo sport e gli uomini (testo pubblicato con lo stesso titolo da Einaudi lo scorso anno). «In alcune epoche e in alcune società il teatro ha svolto un’importante funzione sociale – precisava il semiologo – : riuniva tutta la cittadinanza in un’esperienza comune, la conoscenza delle proprie passioni. Oggi questa funzione viene svolta, a suo modo, dallo sport».
Per farsi un’idea di cosa possa significare concretamente il binomio football e politica si può seguire l’itinerario di viaggio tracciato già negli anni Novanta, e poi rivisto a metà di questo decennio, dal giornalista inglese Simon Kuper, il tutto raccolto nel volume Calcio e potere (Isbn , 2008). Nato in Uganda in una famiglia di ebrei inglesi, giornalista del Financial Times innamorato del calcio, Kuper aveva già scritto una storia dell’ Ajax, la squadra del ghetto (isbn, 2005), sorta di biografia collettiva degli ebrei olandesi a cavallo tra le due guerre mondiali, attraverso l’orrore della Shoah e fino al loro ritrovarsi nel dopoguerra intorno al simbolo unificante dell’équipe di calcio di Amsterdam. L’idea di fondo del reportage di Kuper è che «quando un gioco è importante per miliardi di persone, cessa di essere semplicemente un gioco. Il calcio non è mai solo calcio: aiuta a fare guerre e rivoluzioni, affascina mafiosi e dittatori».
Per raccontare il modo in cui il calcio ha contribuito al formarsi delle identità collettive in mezzo mondo il giornalista-tifoso ha viaggiato per nove mesi, visitato ventidue paesi, dal Camerun all’Argentina, dall’Ucraina alla Scozia e incontrato sia campioni dello sport che politici. La conclusione non potrebbe essere più netta: «Ovunque andassi (…) il pallone si rivelava essere molto più importante di quanto non avessi pensato». Alle passioni e al senso di appartenenza si mescolano la ricerca del consenso, il tentativo di piegare le curve degli stadi ai propri disegni politici, la ricerca di una facile vetrina attraverso la visibilità offerta dagli eventi sportivi. «Mussolini e Franco compresero il significato e l’importanza del gioco, così come John Major, Nelson Mandela e il presidente del Camerun Paul Biya». Ma l’elenco, naturalmente, potrebbe essere molto più lungo. Soprattutto perché la geografia politica del calcio non potrebbe essere più mutevole.
L’epoca di quella che lo storico britannico George Mosse ha definito come la «nazionalizzazione delle masse», vale a dire il processo di edificazione nazionale e di costruzione di un’opinione pubblica unita intorno a forti simboli storici e culturali che ha caratterizzato il totalitarismo e in particolare i regimi fascisti sorti in Europa tra le due guerre mondiali è stata contraddistinta da un’esplicito investimento politico nei confronti del calcio. Così ad esempio Simon Martin spiega nel suo Calcio e fascismo (Mondadori, 2004) come «sebbene il fascismo preferisse sport più tradizionalmente accademici come la scherma, o più moderni come l’automobilismo, a differenza delle classi politiche che l’avevano preceduto (liberali, cattolici e socialisti) comprese immediatamente la presa che poteva esercitare sulle masse uno sport come il calcio (…) Il regime fece del calcio uno sport istituzionalmente fascista nel 1926, data a partire dalla quale venne sfruttato in patria per distogliere l’attenzione dai contrasti politici e sviluppare il senso dell’identità italiana, mentre all’estero divenne uno strumento diplomatico per migliorare la posizione del regime a livello internazionale». Intanto nell’Urss degli anni Venti cresceva quel che si potrebbe definire come il “processo di burocratizzazione del calcio” così descritto da Mario A. Curletto in Spartak Mosca (il melangolo, 2005): «ben presto fu operato un tentativo di indirizzare il gioco del calcio verso l’idea didascalica di sport cara a chi reggeva le sorti del paese. Da questo spirito era sicuramente animata la sezione giochi sportivi del Consiglio Provinciale Moscovita per la Cultura Fisica all’inizio del 1924, quando varò un complicatissimo sistema per la determinazione della migliore squadra partecipante al campionato moscovita: i risultati ottenuti sul campo (e i relativi punti) erano soltanto una componente, alla quale si affiancava una serie interminabile di fattori, quali il minor numero di squalifiche, espulsioni, ammonizioni, semplici falli, la partecipazione dei calciatori a gare di altre discipline sportive nonché all’attività delle organizzazioni di quartiere impegnate nella propaganda dell’educazione fisica».
Se l’Europa è stato a lungo, insieme all’America Latina, la scena principale del match tra calcio e politica, oggi si può a ragione a parlare di un fenomeno globale. «Quando ho scritto la mia inchiesta – spiega infatti Simon Kuper – gli scontri calcistici in Europa riflettevano ancora passioni religiose, di classe o regionali. Così come il Barcellona rappresentava il nazionalismo catalano, così il derby Milan-Inter opponeva le classi lavoratrici frutto dell’immigrazione alla classe media locale, mentre nel 1988 gli olandesi si portavano ancora dietro ferite non sanate della guerra contro la Germania. Ma oggi queste passioni sono più deboli. Gli europei stanno smettendo di credere in Dio, le barriere di classe si sono ridotte, ed è difficile essere così fanatici riguardo alla propria regione adesso che paesi come la Spagna sono denocrazie decentrate, e regioni come la Catalogna potrebbero optare per l’indipendenza se davvero lo desiderassero. Quindi, quando i tifosi del Barcellona sventolano bandiere catalane, o quando i tifosi di Glasgow cantano canzoni settarie, stanno semplicemente adottando simboli tradizionali per esprimere una rivalità calcistica (…) Quel che sentite oggi negli stadi di calcio europei non è più il riflesso di altre passioni. Il calcio, più che altro, è diventato una ragione in sé». Ben diversa è la situazione nel resto del mondo: «al di fuori dell’Europa – racconta Kuper – le divisioni tribali persistono. La regola fondamentale è che più un paese è disperato, più il calcio è importante, e quindi esso lo è davvero in luoghi senza libertà come Medio Oriente, Africa del Nord e Golfo Persico».
Passando dalle guerre balcaniche, annunciate tra le opposte tifoserie serbe e croate, alla passione per il calcio di Osama Bin Laden, Kuper concludeva la sua indagine disegnando uno scenario dove il nesso tra guerra, terrorismo e football diventava realtà. Le sue conclusioni rappresentano quasi l’incit della ricerca compiuta da un altro giornalista britannico, Simon Freeman, già in forza al Guardian e al Times, che ha scritto Baghdad Football Club (Isbn, 2006) una storia del calcio iracheno durante il regime di Saddam, negli anni in cui il Ministero dello Sport era diretto da Uday Hussein, il figlio del dittatore noto per i suoi eccessi e le sue violenze. «I calciatori comuni, per lo più sciiti scarsamente istruiti provenienti dai bassifondi di Baghdad, erano le persone che in Iraq si avvicinavano di più agli eroi. Avevano voluto solo giocare a calcio – scrive Freeman – Molti sono stati imprigionati e picchiati selvaggiamente da Uday per nessun’altra ragione se non il fatto che godeva nell’infliggere dolore. Erano eroi nel senso che erano rimasti onesti. Ma gli uomini che hanno portato avanti il calcio per conto di Uday, quelli che avevano ricchezza, status e potere, non erano così. Avevano mentito, barato e tradito, perché quella era l’unica maniera per sopravvivere». Il calcio serve così per raccontare la realtà, in questo caso quella dell’Iraq prima e dopo il regime e la guerra, per cercare di comprendere «ciò che accade a un popolo quando è governato da mostri».
Guido Caldiron
Fonte: www.liberazione.it
6.06.08