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RESISTERE ALLA MILITARIZZAZIONE DELLO STATO

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DI NAFEEZ MOSADDEQ AHMED
Counterpunch

Il movimento Occupy è la più

potente manifestazione di resistenza pubblica e disobbedienza civile

che abbia preso piede in Occidente dagli anni ’60. E come risposta,

ha provocato una militarizzazione della violenza di Stato senza precedenti.

Negli Stati Uniti l’utilizzo di gas lacrimogeni, spray al peperoncino

e proiettili di plastica è stato impiegato – deliberatamente e brutalmente

– contro civili che esercitavano il loro diritto a manifestazioni

pacifiche: solo e soltanto per ragioni di “ordine pubblico”.

Più che mai l’insistenza della gente nel reclamare spazi pubblici in

opposizione all’ingiustizia di cui è responsabile il proverbiale 1%

della popolazione mondiale sta tirando giù la maschera allo stato democratico

per rivelare il dominio incontrastato del denaro e delle armi su cui il suo potere si fonda. Rispetto ad altre proteste del XX secolo,

il movimento Occupy si distingue per spontaneità, assenza di leader

e per la sua proliferazione globale nelle strade di tutte le più importanti

città industriali del Nord. La forza propellente di Occupy, tuttavia,

non deriva soltanto dall’incedere della recessione globale, anche se

il ruolo di quest’ultima non va sottovalutato. Piuttosto, la determinazione

dei cittadini a occupare luoghi pubblici strategici è ispirata da una

convergenza di percezioni comuni.

La maggioranza delle persone oggi ha

una visione dei governi occidentali e della natura del potere tali che

ne avrebbero fatto degli emarginati sociali dieci o venti anni fa. Si

tratta di persone scettiche sulla guerra in Iraq, convinte del ritiro

delle truppe dall’Afghanistan, risentite nei confronti delle banche

e del settore finanziario responsabile della crisi, sono consapevoli

delle questioni ambientali come mai prima d’ora. Nonostante la confusione

negazionista promulgata dalle lobby petrolchimiche, negli Stati

Uniti e in Gran Bretagna la maggioranza delle persone è seriamente

preoccupata per il surriscaldamento globale; è stanca della prassi

della politica partitica e delusa dal sistema parlamentare dominante,

con il suo continuo susseguirsi di scandali su scandali. In altre parole,

su tutta una serie di questioni si è avuto uno spostamento dell’opinione

pubblica verso una critica dell’attuale sistema politico-economico.

Si tratta, certo, di un fenomeno per lo più subliminale, non elaborato,

e manca di una visione coerente di cosa sia necessario fare, ma senza

dubbio questo spostamento c’è stato e diventa sempre più profondo.

La gente si fa sempre meno illusioni sulle strutture socio-politiche

dominanti. Ha sete di alternative. E tuttavia non ne trova nessuna a

portata di mano, nessun meccanismo che dia veramente espressione alle

voci di dissenso. Cosa resta da fare, allora, oltre alla semplice occupazione

di suolo pubblico nel tentativo di reclamare, in qualche modo, del potere?

Civil Contingencies: i preparativi

dello Stato per la contro-insurrezione

Eppure, fin dai primi colpi della recessione

globale nel 2008, l'”uno per cento” di cui dicevamo – o

parte di esso – era ben consapevole che una delle conseguenze immediate

sarebbe stato il riversarsi dei cittadini in strada. E sono stati fatti

dei preparativi.

Sul finire del 2008 un promemoria interno

emanato da Citigroup, membro della Us Bank e della Federal Reserve,

firmato dal responsabile delle strategie tecniche Tom Fitzpatrick, avvisava

di un “crescente deterioramento finanziario, causa di un ulteriore

deterioramento economico, in un circolo vizioso” il quale “porterà

a instabilità politica […] alcuni capi di stato sono oggi ai minimi

di popolarità. C’è rischio di rivolte interne, a cominciare dagli

scioperi, perché la gente si sente privata del diritto di poter decidere

di sé stessa.”

Cosa fare? Una risposta è quella avanzata

dall’US

Army Strategic Studies Institute nel

dicembre di quell’anno, in un rapporto che sollecitava l’esercito americano

a prepararsi per un “dislocamento strategico all’interno degli

Stati Uniti” che sarebbe stato giustificato da “imprevisti

dissesti economici“, “mancanza di un ordine politico

e giuridico” e “resistenza decisa e insurrezione interna“,

assieme a altre minacce. Il rapporto prospettava la necessità di impiegare

risorse del Dipartimento della Difesa “al servizio di autorità

civili per contenere e sovvertire minacce di violenza alla pace civile

e contemplava “l’uso di forze armate […] contro gruppi ostili

all’interno degli Stati Uniti“. Il nobile scopo di tale militarizzazione

è, naturalmente, quello di “restaurare l’ordine pubblico e

proteggere popolazioni minacciate“, da sé stesse, a quanto sembra.

In modo analogo, in Gran Bretagna dal

2004 il governo si è arrogato poteri straordinari per mezzo del

semi-sconosciuto Civil Contingencies Act, un decreto per le situazioni

di emergenza.

Il decreto spianò la strada alla

nascita di uno stato totalitario. Con i poteri conferitigli, il governo

può proclamare lo stato d’emergenza a propria discrezione senza

una consultazione pubblica o un voto parlamentare. E una volta proclamato

lo stato d’emergenza, entrano in gioco strumenti di potere di ogni tipo.

I ministri possono introdurre nuove leggi, “normative d’emergenza

tramite la Prerogativa Regale, senza ricorrere al Parlamento. Tali leggi

possono andare dalla confisca della proprietà privata al divieto di

proteste e assemblee pubbliche di qualsiasi tipo, all’istituzione del

coprifuoco, al divieto di spostamento, all’impiego dell’esercito su

suolo britannico e così via: isolamento di intere città, chiusura

di siti internet, censura dei media. Quel che è peggio, lo Stato

può permettersi di classificare come offesa qualsiasi comportamento

a propria discrezione.

Il problema è che il decreto

non ha niente a che vedere con emergenze reali. Secondo la rivista della British Association of Public

Safety Communication Officials,

il governo è del tutto privo di “chiare direttive, fondi specifici,

apparati normativi” utili a preparare il Paese a concrete emergenze

o scenari disastrosi. La pubblicazione chiede, a ragione: “Se

il Governo è realmente intenzionato a proteggere la nazione, come mai

i ministri non stanno impiegando i poteri forniti loro dal Civil Contingencies

Act per monitorare preventivamente le condizioni effettive di preparazione

dello stato?

La nuova guerra transnazionale

tra le classi

È una domanda intelligente, perché

l’insieme delle misure di prevenzione da parte dei governi occidentali

nei confronti degli “imprevisti domestici” si è focalizzata

in modo del tutto sproporzionato sulla centralizzazione e il consolidamento

di poteri militari e degli apparati di polizia. Perché? Per farsi un’idea

di che razza di ideologie retrograde alberghino nelle menti che dirigono

il Dipartimento della Difesa, vale la pena di dare un’occhiata al rapporto

2007 del Ministero della Difesa americano. Il rapporto, steso dagli

strateghi del Mod’Defence Concepts and Doctrines Centre – un

think-tank militare responsabile della pianificazione di iniziative

– mette in evidenza che entro il 2035 la popolazione mondiale raggiungerà

probabilmente gli 8,5 miliardi di persone, un aumento riconducibile

per il 98% ai paesi sottosviluppati. Il rapporto riconosce che questo

enorme incremento della popolazione avrà luogo in un contesto di enormi

tensioni mondiali dovute a crisi economiche, energetiche e ambientali.

Cosa interessante, le previsioni contenute

nel rapporto si focalizzano sulla cosiddetta “preminenza giovanile“,

con circa l’87% delle persone sotto i 25 anni concentrate nel Sud sottosviluppato.

In particolare, si fa notare che la popolazione in Medio Oriente aumenterà

del 132% e nell’Africa Sub Sahariana dell’81%. Si tratta di regioni

a maggioranza musulmana. Di qui il rapporto avverte del pericolo che

l’acuirsi delle crisi globali possa fungere da propellente per la militanza

musulmana: “Le aspettative di un numero

sempre maggiore di giovani in queste regioni, molti dei quali dovranno

fare i conti con prospettive di disoccupazione endemica, difficilmente

saranno soddisfatte. Il dilagare dello scontento tra fasce sempre più

larghe della popolazione giovanile nei confronti di regimi non democratici

sarà canalizzata nella militanza politica, compresa quella d’ispirazione

islamica radicale, il cui concetto di Umma, la comunità

islamica globale, e di resistenza al capitalismo si troverebbero a cozzare

con un sistema internazionale basato su stati-nazione e flussi globali

di mercato.” Ma il rapporto non si ferma qui. Prosegue individuando

un pericolo di radicalizzazione non solo nel Sud, ma anche nel Nord,

e prospetta la possibilità di una rivoluzione mondiale delle classi

medie: “Le classi medie potrebbero diventare la fascia sociale

più propensa alla rivolta, assumendo lo stesso ruolo che Marx destinava

al proletariato.” Ciò potrebbe avvenire su scala transnazionale,

grazie al sempre crescente divario tra un’élite di super-ricchi e le

classi medie, e alla nascita di una sotto-classe urbana. “Le classi

medie di tutto il mondo potrebbero unirsi, utilizzando il loro accesso

a conoscenze, risorse e capacità per dare forma a processi internazionali

nell’interesse della loro condizione.” Previsioni azzeccate,

anche se leggermente in ritardo sulle date (di 24 anni, per la precisione).

Facciamo un passo indietro per un momento

e riflettiamo su questo straordinario documento. Non solo problematizza

il dato della crescita demografica all’interno di particolari gruppi

etnici e religiosi: demonizza anche qualsiasi possibile forma di resistenza

alle strutture politico-economiche dominanti a livello globale. E lo

fa individuando alcuni sintomi superficiali, a cui offre una risposta

reazionaria e militarizzata, anziché individuarne le cause strutturali

intrinseche all’organizzazione stessa del sistema globale.

Tutto questo sta per finire

Il sottinteso, inespresso assunto ideologico

di questo genere di analisi è semplice: l’attuale ordine politico-economico

globale deve essere sostenuto, mantenuto, perpetrato a ogni costo; non

può essere soggetto a riforme profonde e strutturali, perché è già

perfetto: siamo già arrivati a quella che Francis Fukuyama chiama “la

Fine della Storia”, “la vittoria incontrastata del liberalismo

politico-economico” in Occidente, e “il punto di arrivo

dell’evoluzione ideologica del genere umano” che spazza via

ogni possibilità di alternativa al capitalismo neo-liberista. Di conseguenza,

la resistenza al neoliberismo è delegittimata e merita di essere soppressa

senza rimorsi.

Ma Fukuyama si sbagliava di grosso.

Al momento siamo davanti non a una semplice crisi, ma a una convergenza

di molteplici crisi globali: finanziaria, idrica, alimentare, bellica

e terroristica. Ognuna di queste non è che un sintomo di una più profonda

Crisi della Civiltà. Persino l’International Energy Agency

stima che non rimangano più di cinque anni all’inizio di un’era imprevedibile

di stravolgimenti climatici pericolosi e irreversibili che renderanno

il pianeta inabitabile, dominato da una macchina industriale che lavorerà

per la crescita economica illimitata a beneficio di una sparuta élite

contro i bisogni della stragrande maggioranza della popolazione umana.

La Primavera Araba nel Medio Oriente

e il movimento Occupy in Occidente sono, in questo contesto, rivolte

popolari contro un suicidio collettivo di portata planetaria; i primi

colpi mortali inferti a una forma di civiltà vecchia e malfunzionante.

La natura stessa della nostra civiltà – e della sua traiettoria inarrestabile

verso l’autodistruzione ecologica e economica – viene ora messa in

dubbio assieme alle sue idee di vita, al suo ambiente, al sistema di

valori e il modo in cui questi sono strettamente collegati alle sue

forme socio-politiche, economiche e culturali.

E tuttavia quello che abbiamo sotto

gli occhi non è semplicemente una civiltà sull’orlo del

collasso, ma un processo di transizione, i cui esiti finali sono ancora

imprevedibili.

Per la prima volta nella storia dell’umanità

affrontiamo una crisi di civiltà di proporzioni realmente planetarie.

Inoltre, assistiamo all’autodistruzione di una civiltà industriale

basata sullo sfruttamento, destinata a collassare nel giro di pochi

decenni, di certo entro la fine di questo secolo. Con ciò, abbiamo

una possibilità senza precedenti nella storia di sviluppare modi diversi

di vivere, agire, essere – in senso economico, politico, culturale

etico, persino spirituale – che sono d’un tratto, almeno in potenza,

molto più compatibili con la prosperità e il benessere del genere

umano di quanto si potesse finora immaginare.

Per fare questo è necessario

sfruttare al massimo l’energia e l’entusiasmo del movimento Occupy in

modo da sviluppare anzitutto una diagnosi critica coerente della natura

del problema e, su tale base, un quadro coerente di azioni alternative.

Dobbiamo lavorare all’unisono per dimostrare l’efficacia e superiorità

di alternative sociali, politiche, economiche, culturali e etiche. Su

questi modelli dobbiamo improntare il nostro agire, ma dobbiamo anche

sviluppare modi nuovi di presentare i modelli stessi, diffonderli, educare

comunità e istituzioni. Con un approccio critico, dobbiamo analizzare

il modo in cui le comunità, in particolare quelle più emarginate,

potrebbero adeguarsi a questi modelli nelle contingenze presenti. Per

iniziare a creare un reale cambiamento che parta dalle radici, dal basso

verso l’alto. Come possiamo lavorare insieme per sviluppare forme partecipative

di cambiamento economico? Come far sì che le risorse comunitarie a

livello locale siano al riparo da eventuali shock energetici, diventando

più autosufficienti nella produzione decentralizzata di energie rinnovabili?

Come acquisire le conoscenze necessarie a produrre il cibo che mangiamo

e a dipendere di meno dalle reti internazionali – inique e capricciose

– dell’industria agricola? Come costruire nuove strutture politiche

e culturali a livello locale che possano rendere sempre meno influente

la piramide dello Stato militarizzato?

Scendere nelle strade e occupare luoghi

pubblici sono azioni importanti, ma da esse dovrebbero germogliare i

modelli di quella trasformazione sociale che il 99 per cento di noi

può iniziare a esplorare, in dialogo gli uni con gli altri e persino

con quell’1 per cento di cui contestiamo il monopolio. Perché queste

energie popolari non possono rimanere prive di analisi accurate e l’attivismo

deve puntare nella direzione giusta, non solo a quell’1 per cento, ma

al più vasto sistema economico, ideologico ed etico che ne consente

l’esistenza e che segna la via autodistruttiva che, al momento, stiamo

tutti seguendo.

Il dr. Nafeez Mosaddeq Ahmed è Executive

Director dell’Institute

for Policy Research & Development.

Blog: The

Cutting Edge. Ultimo libro, A User’s Guide to the

Crisis of Civilization: And How to Save It (Pluto/Macmillan,

2010), è alla base del documentario The

Crisis of Civilization

(2011), largamente acclamato dalla critica.

**********************************************

Fonte: Occupy Planet Earth

02.12.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di DAVIDE ILLARIETTI

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