NOTTE DELL’OCCIDENTE, ANGOSCIA DI MORTE E AMORE PER LA VITA

Esposti a una temuta apocalisse, riflettiamo su come l’incontro con la morte possibile possa da un canto paralizzare, dall’altro condurre a una più intensa e progettuale passione per la vita.

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di Alessia Vignali
comedonchisciotte.org

Novembre 2022: il timore si mescola alla tristezza nel tempo dello Scorpione, quello del segreto rifugiarsi della vita tra le cavità ctonie, quando la natura sta per fermarsi e il calendario c’impone la tradizionale celebrazione di chi non c’è più. La riflessione in cui sempre inciampiamo è amara, sulla scia di quanto ammonisce la frase impressa all’ingresso del cimitero dei Cappuccini a Palermo che ricordo così: “Fummo ciò che siete; sarete ciò che siamo”.
Quest’anno la contemplazione della propria e altrui finitudine è resa ancora più dolorosa dalla constatazione di trovarci nello snodo epocale che certamente impone una fine, quantomeno degli equilibri dell’occidente e del resto del mondo per come li conosciamo.
Notiamo, allo stesso tempo e come per reazione, il singolare fenomeno del fiorire di gruppalità nuove politiche, associative, culturali in cui si assiste talora al processo di uno “stato nascente” non ancora rovente come accadde nel ’68, ma “agli albori”: il sentimento di sicurezza sperimentato nell’abbraccio dei fratelli è la matrice in cui può farsi strada la speranza di fondare un mondo nuovo, foss’anche solo quello di un’enclave. Un trionfo della vita nel gelo.
Come sempre tenterò qui una riflessione che, traendo lo spunto dall’emozione destata dai fatti dell’attualità, cerchi d’incontrare l’uomo alla luce della psicoanalisi e delle discipline limitrofe.
Deve nasce e a cosa ci porta l’angoscia di morte, di cui tanto siamo stati in scacco durante il Covid e che ora torna ad attanagliarci in tempo di guerra?
Per come ognuno ha imparato a viversi le tante separazioni vissute a cominciare dalla prima, quella dal corpo e dalla protezione materni, e per come ha affrontato l’ipotesi realistica della sua possibile morte, così egli impara a vivere la vita creativamente, oppure difendendosene.
L’angoscia di morte appare molto presto nelle nostre vite e probabilmente la sperimentiamo già nel momento della nostra nascita, se non addirittura prima, diremmo oggi traendo le mosse dalle conoscenze attuali sullo psichismo fetale. Nel grembo materno veniamo a contatto con gli ormoni secreti in risposta a forti emozioni, spaventi o esplosioni di rabbia di nostra madre e non sappiamo perché, né da dove, ma avvertiamo un primitivo pericolo, un “terrore senza nome” che ha radici nel nostro stesso essere vivi e lo scuote nel profondo.
Con Melanie Klein, Donald Winnicott e gli indipendenti britannici, un’area della psicoanalisi asserisce che l’angoscia di morte è primaria e accompagna il soggetto sin dalla primissima infanzia. Sì, “è a rischio di morte il nascimento”, ma non solo: ogni allontanamento che il bambino avverte dagli accudenti gli è pure “a rischio di morte”, poiché il cucciolo dell’uomo da solo non può sopravvivere. Dunque sempre, nella nostra vita, la separazione dall’oggetto amato allude alla morte possibile. Ecco perché l’abbraccio di un simile rimane sempre, nella vita, di straordinaria consolazione e medicina, come ben sa il medico che si occupi di “grandi vecchi”. Da par suo, Freud ebbe ad affermare che la nostra morte non trova rappresentazione in un inconscio che non ha per essa immagini, dunque noi in realtà non possiamo, nel profondo, prendere atto che moriremo e non riusciamo a crederci. Entrambe le tesi, quella che vede la morte come non rappresentabile nell’inconscio e quella che invece la vede come sfondo naturale e onnipresente all’essere vivi, possono esser considerate valide: mentre abbiamo bisogno, per continuare a vivere, di credere alla nostra immortalità, l’angoscia più grande guida silenziosamente le nostre scelte, talora in modo aberrante.

L’INCONTRO CON LA MORTE COME OPPORTUNITA’ DI ESPANSIONE DELLA VITALITA’
Può l’idea della morte salvare l’uomo? La consapevolezza della morte è lo sprone comunemente denegato in grado di spostarci da un modo di esistere ordinario a uno superiore, per Martin Heidegger. La modalità ordinaria di esistere è basata sull’oblio dell’essere; quella non ordinaria o ontologica che giunge, invece, alla piena consapevolezza dell’essere, si consegue soltanto al cospetto dell’idea della morte. In quest’ultimo stato siamo consci della nostra fragilità, dunque della nostra responsabilità sull’essere. Siamo finalmente in contatto con la possibile creazione di noi stessi.
Chi, come il protagonista del film “Aprile” di Nanni Moretti, collochi la propria morte su di un righello, avrà ben chiaro il suo limite invalicabile, e può capitare che ne tragga lo slancio per realizzare il sogno – nel caso del film, il “musical” che il personaggio aveva a lungo procrastinato – .
Anche nel romanzo “Guerra e Pace” di Tolstoj troviamo un esempio di come l’incontro con la morte possa suscitare un cambiamento psicologico radicale. Intorpidito dalla vita vuota dell’aristocrazia russa, il protagonista procede a fatica senza uno scopo per le prime novecento pagine del romanzo. Catturato dalle truppe napoleoniche e condannato a morte per fucilazione, inaspettatamente viene risparmiato all’ultimo momento. Trascorrerà le ultime trecento pagine del romanzo vivendo con vigore.
Il fenomeno si verifica con frequenza nel lavoro di uno psicologo. Per esempio, interviste condotte a sei dei dieci potenziali suicidi che si erano buttati dal Golden Gate ed erano sopravvissuti indicano che avevano radicalmente modificato la loro visione della vita a seguito del loro salto.
La meditazione sulla morte ci prepara, in età avanzata, a staccarci da ciò che non può rimanere con noi; a lasciarlo consapevolmente prima che sia esso ad abbandonarci. Parlavo l’altro giorno con una signora di 98 anni e le chiedevo perché non facesse più a maglia: “Il vecchio”, mi ha detto, “tralascia pian piano una cosa dopo l’altra, il fare a maglia come il cucinare. Con ogni cosa che lascia, perde una parte di sé. Come gli animali, che lasciano indietro la pelle, poi le spoglie… e si preparano alla muta.”
La morte è esperienza di abbandono, riassume in sé tutte separazioni e le perdite di un’intera esistenza. Occorre, approssimandosi ad essa, operare un ritiro capace di gratitudine dagli investimenti libidici e affettivi, una rinuncia serena a tutte le parti di sé in cui non ci si riconosce più, un lento “tralasciare”. Accostarsi alla morte richiede una lunga preparazione, forse quella di un’intera vita… e un sofferto e goduto processo di maturazione. L’uomo d’oggi non vi è più abituato, poiché “non ha tempo “ per pensarci, la rimuove sempre più spesso dal pensiero e anche dalla rappresentazione e ritualizzazione sociale: sostituisce l’ideale della morte subitanea all’idea di una morte annunciata e consapevole; la morte progressiva, invece, indurrebbe come nei tempi antichi a maturare una nuova coscienza, lascerebbe il tempo di prepararsi.

LA MORTE, L’ANGOSCIA, IL RIMEDIO
L’insopportabilità della prospettiva della morte personale è legata al fatto che lì non c’è più espansione possibile, non c’è più riparazione ad alcunché. Non c’è conversione, ravvedimento, esplorazione, scoperta, fondazione di mondi. Non possiamo continuare nel nostro naturale trascenderci, i nostri afflati e ideali non troveranno compimento. Quel che temiamo di più è proprio l’idea del “progetto interrotto”.
La fine della nostra infinita progettualità potenziale, che prevede l’espansione virtualmente infinità del sé in mille diverse dimensioni, è nel profondo inaccettabile. Per essere tollerabile, il pensiero del limite estremo non dovrebbe portare con sé la perdita di un qualche spazio di sviluppo. L’unico “rimedio”, la consolazione che un po’ ci fa pensare alla soluzione proposta da Ugo Foscolo nei “Sepolcri”, è la possibilità di continuare, vedendola negli amori o negli oggetti d’affezione e dedizione che ci sopravvivranno, la nostra progettualità. Dobbiamo coltivare amori e passioni di tutti i tipi: figli, allievi, partner, soci, libri, aziende, imprese, appartenenze, gruppi, impegni politici… cioè oggetti di proiezione per le parti di noi che immaginiamo possano continuare e sviluppare la nostra avventura potenzialmente all’infinito. Se siamo ricercatori, ci appiglieremo alla speranza che ci sarà qualcuno che, portando avanti una nostra intuizione scientifica, farà nuove scoperte, del tutto inedite, che in qualche modo tradiranno e nel contempo celebreranno il nostro passaggio. Il sé aspira alla continuità… per congedarsi dal mondo deve almeno poter sperare che la fiaccola venga tenuta accesa da qualcun altro.
Investire dunque, senza indugio e senza risparmio di sé, nel mondo futuro, coltivarne bellezza e durata sembra essere l’unico antidoto contro il nulla che ci corrode. L’accettazione della scomparsa del sé personale si basa poi sulla valorizzazione e sull’integrazione del passato di cui si è eredi: l’anziano ama ricordare, non solo perché ha molto passato e poco futuro, ma anche perché nell’occasione di riscrivere la sua biografia attraverso la continua rielaborazione dei ricordi scopre la sua nascosta grandezza, trova e ritrova il vero senso della sua vita. Il futuro che non c’è può essere trasmesso e affidato in parte nelle mani di altri, gli “eredi”: è la trasmissione transgenerazionale a recuperare il fiume della vita, la sua continuità da e verso il mare dell’eterno. Rifluire nell’intera cultura, dalla scaturigine dell’umano alla sua continua rinascita, in un’appartenenza e in un amore per l’umanità di cui potersi sentire umile, ma luccicante onda transeunte.

PER CONCLUDERE…
Affrontare la propria morte “di petto” è il compito di ogni adulto, se vuol accettare d’entrar nella vita “da protagonista”. Lo racconta ogni rituale d’iniziazione, nel quale l’adolescente d’ogni cultura doveva sfidare il pericolo per entrare a far parte della tribù; questo ci dovrebbe far riflettere su quanto la profonda necessità d’elaborazione dell’incontro con la morte presente nell’inconscio dei nostri giovani non venga tematizzata dalla nostra cultura, che così li lascia soli nel tentativo d’elaborare la morte, che affrontano allora attraverso “agiti” che la sfidano nel rischio (droghe, alcol, sesso non protetto, violenza, incidenti). Il risultato della mancata tematizzazione della morte è il non viver mai, il rimanere ai margini, l’occupare “vite non vissute” abitate da angoscia, ossessioni come quella di un corpo eternamente giovane e infelicità perenni. O il non uscire di casa a causa di un virus.
Muore una sola volta soltanto chi non teme di morire.
Consapevole del pericolo e dell’ebbrezza che dà, l’ultimo eroe sfida l’alba di un nuovo giorno, col suo incipiente rumore d’ignoto. Accoglie tremori e terrori ma apre i sensi, la mente, il corpo tutto all’incontro col mondo, alla scoperta ed all’estasi… e cerca d’arrivare diverso, più grande e vivo alla notte che l’attende.

Alessia Vignali, psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista e giornalista

Pubblicato da Tommesh per ComeDonChisciotte.org

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