DI SAMUEL
Quilombo
Nell’estate di quaranta anni fa,
l’allora presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, adottò due
decisioni che avrebbero segnato il futuro del suo paese, e del mondo
intero. Una fu lo sganciamento del dollaro dall’oro (15 agosto
del 1971), il cosiddetto “shock Nixon” che liquidò unilateralmente il sistema fisso di cambio fissato a Bretton Woods a favore di un sistema di fluttuazione libera delle valute, che avrebbe poi facilitato da finanziarizzazione. L’altra fu l’iniziativa puritana lanciata un mese prima, il 17 giugno 1971, che battezzò come “guerra contro le droghe”, identificando il consumo di droga come il “nemico” pubblico numero uno. Della prima scrivono preferibilmente economisti e storiografi. Della seconda giuristi, sociologi e criminologi. Ma le sue sono molto più relazionate di quanto appaia a prima vista, perché fanno parte della risposta data dal potere ai tumultuosi anni ‘60, alla ribellione controculturale negli Stati Uniti e alle rivolte popolari nei paesi dell’allora Terzo Mondo. Entrambe anticiparono l’era neoliberista.
Durante il decennio 1961-70 negli Stati
Uniti proliferarono lotte e rivendicazioni sulla base di varie identità
che spesso si incrociavano tra loro (giovani, neri, donne, gay e lesbiche,
eccetera) attorno al desiderio di emancipazione individuale e sociale.
Un aspetto fondante fu la questione del corpo, o piuttosto della
riappropriazione del proprio corpo, che di solito veniva accompagnato
dall’alterazione chimica volontaria e ludica degli stati della coscienza,
con i rischi connessi. Questi movimenti misero in discussione apertamente
gli equilibri politici ed economici del fordismo e coinvolsero i lavoratori
delle fabbriche o chi direttamente respingeva la disciplina produttivista.
I cambiamenti profondi determinarono una risposta del capitale per via
tecnologica, finanziaria e poliziesca.
Come avviene anche con altre “guerre”
interminabili (la guerra contro il terrore, la lotta contro l’immigrazione
illegale), la guerra contro le droghe fomentò quello che pretendeva
ufficialmente di sradicare, solo per reincanalarlo in altro modo. Quattro
decenni dopo l’annuncio di Richard Nixon e dei divieti precedenti (l’LSD
nel 1968, le anfetamine nel 1971), gli statunitensi consumano sempre
più droghe, legali e illegali che siano.
Questo perché il proibizionismo
e la penalizzazione del commercio e del consumo di droghe favorirono
l’interventismo in politica estera e il dispiegamento di varie modalità
di controllo sociale e di polizia (particolarmente intenso su neri
e ispanici, sia uomini che donne), soprattutto a partire dal 1980, in coincidenza
con la liberalizzazione dell’economia e dell’espansione finanziaria.
Gli Stati Uniti hanno un quarto dei carcerati di tutto il mondo, in
buona misura per delitti connessi al possesso o al traffico di stupefacenti,
e il tasso di prigionia è di 748 carcerati ogni 100.000 abitanti, otto
volte superiore a quello della Germania. Negli anni ’90 a questa “guerra”
si assommò la politica della “tolleranza zero”, che generalmente
ha comportato detenzioni e pene per delitti minori vincolati con quello
che qui si chiama “ordine pubblico”. Negli Stati Uniti vengono
pronunciate più condanne al carcere che in tutti gli altri paesi sviluppati
e le pene sono più lunghe: cinque anni di carcere per reati connessi
alle droghe, contro un anno e mezzo in Finlandia. La conseguenza è
che, alla fine, uno giovane su tre negli Stati Uniti è stato detenuto
in qualche occasione.
Il bastone poliziesco è accompagnato
necessariamente dalla carota finanziaria. Una carota che ha trovato
un terreno di coltura importante nell’economia parallela – dato questa
non è sottoposta ai circuiti ufficiali di controllo – che fu provocata
dal proibizionismo. Prodotti come la cocaina o l’eroina non renderebbero
tanto se non fosse per la proibizione. D’altra parte, le eccedenze di
narcodollari devono circolare, come i petrodollari o i buoni sovrani,
mentre le finanze – e gli Stati – hanno bisogno a loro volta della liquidità
fornita dai commerci illegali e dal “riciclaggio” facilitato
dalle banche grazie ai paradisi fiscali. Di fatto, il denaro “nero”
e “grigio”, proveniente in gran parte dal narcotraffico e
dal altri commerci illegali, ha contribuito enormemente ad attenuare
il collasso finanziario del 2008. L’ex direttore dell’Ufficio delle
Nazioni Unite contro le droghe e il crimine, Antonio Maria Costa, ha riconosciuto nel 2009 che, agli inizi della crisi finanziaria, l’unico
capitale liquido disponibile fu quello ricavato dal commercio illegale
di stupefacenti. Il riciclaggio tenne a galla molte banche. Ad esempio,
Wells Fargo acquisì la banca Wachovia, la quarta più grande per gli
attivi totali, dopo che questa aveva
ripulito per anni miliardi
di dollari provenienti dal narcotraffico messicano. “Il collegamento
tra crimine organizzato e istituzioni finanziarie partì
dalla fine degli anni ’70 e dall’inizio degli anni
‘80, quando si globalizzò anche la mafia“, spiega Antonio
Maria Costa. Se gli Stati non si decidono a porre fine ai paradisi fiscali
non è (solo) perché le élite politico-imprenditoriali li utilizzano
per evadere imposte ma anche perché sono necessari per il buon funzionamento
dell’apparato circolatorio del capitalismo finanziario.
La connessione più intima tra
finanza e droga riguarda la soggettività. Il capitalismo di
oggi, più uno scambio tra oggetti materiali, produce nuove relazioni
sociali o forme di vita, che poi cooperano e creano nella rete, un processo
che si vorrebbe controllato indirettamente da una nuova servitù volontaria,
il lavoro individuale su sé stessi e collettivo imposto dai rapporti
di debito. Viene così valorizzata l’attività delle nostre menti quando
si compongono in reti cognitive (Internet, ma non solo) e la capacità
di contestualizzazione complessa che in questo modo possono si può
sviluppare. L’economia dell’attenzione del capitalismo cognitivo richiede
individui attivi, animati, creativi, cooperativi, socievoli, poliedrici
e capaci di resistere allo stress. Non deve meravigliare che questa
trasformazione del capitalismo sia stata accompagnata da importanti
cambiamenti nelle politiche relative alle sostanze chimiche che contribuiscono
a modellare le nostre soggettività e a mantenere attivi i corpi di
fronte all’usura di lavori sempre di più esigenti in campo intellettuale.
Un primo passo fu quello di delimitare
cosa è legale e cosa è illegale. Inizialmente si cercò
di porre fine alla produzione popolare e al consumo libero, locale,
variegato. Non si cercò quindi di sradicare completamente la produzione
o commercio di determinate droghe – impossibile finché c’è domanda
– con una produzione o un commercio non controllato – dagli
stati, dalle mafie o dalle aziende collegate -, fino a che quest’
e con quegli utilizzi che contrastano con la produzione di soggettività
nel senso auspicato dal capitale. La delimitazione non fu semplice in
ambito internazionale per quel che riguarda le sostanze chimiche sintetizzate
in laboratorio e non derivate dalle piante. Molte sostanze erano state
sviluppate dall’industria farmaceutica europea e statunitense per varie
applicazioni, e questo settore poteva dunque rimanere pesantemente colpito
dalla deriva proibizionista. Così la Convenzione del 1971 sulle Sostanze
Psicotrope introdusse meccanismi di controllo più deboli rispetto a
quelli stabiliti nella Convenzione Unica sugli Stupefacenti (1961) derivati
da piante (coca, cannabis). Entrambe le convenzioni internazionali vollero
far terminare l’uso tradizionale della coca, dell’oppio e della cannabis,
limitando la coltivazione alle quantità necessarie per l’uso medico
e per frenare l’impiego di psicofarmaci per utilizzo non medico, obiettivi
che sono stati rafforzati nel
1988. L’altro gran problema
fu che la proibizione e la finanziarizzazione permisero la formazione,
su dimensioni senza precedenti, di organizzazioni parastatali che competono
con gli Stati o arrivano a dominarli.
Parallelamente si spronò il
consumo massiccio delle sostanze considerate legali, con un forte
spesa pubblica sanitaria per gli europei. L’aspetto più particolare
di questo processo fu la rivoluzione psichiatrica di cui parla Andrew Scull, ossia il passaggio del regno della psicoanalisi
a una psichiatria dominata dai neuroscienziati, dagli psicofarmacologi
e, quindi, dall’industria farmaceutica, un iter che coincide
esattamente col passaggio dal fordismo al post-fordismo e con le teorizzazioni
alternative come l’Anti-Edipo di Gilles Deleuze e Felix Guattari (1972).
Deleuze e Guattari avevano abbattuto “il pilastro centrale della
psicoanalisi che vedeva il desiderio come una carenza, sostituendolo
con una teoria delle macchine desideranti viste come pura produttività
positiva che deve essere codificata dal socius, la macchina di produzione
sociale” (Metafisiche
cannibali, Eduardo Viveiros
de Castro, 2009). Una dei modi seguiti dal capitalismo per adattarsi
al desiderio liberatore fu mediante il controllo medico-farmaceutico.
Secondo Andrew Scull, “le manifestazioni ‘superficiali’ delle
malattie mentali che gli psicoanalisti avevano disprezzato per tanto
tempo come meri sintomi di disordine della personalità
psicodinamici, diventarono i marcatori scientifici, gli elementi che
definivano le differenti forme di disordine mentale. E il controllo
di tali sintomi, preferibilmente con mezzi chimici, si trasformò
nel nuovo Santo Graal della professione.” L’arma principale
fu “un sistema anti-intellettuale pubblicato sotto forma di
libro“, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali
(DSM). La terza edizione del DSM, edito nel 1980, incluse una lista
di nuovi disturbi a cui l’industria farmaceutica trovò un pronto rimedio.
Per esempio, lo psichiatra Josè
Valdecasas e l’infermiera specializzata in salute mentale Amaia Vispe
ci raccontano nel loro eccellente blog
Postpsiquiatría – dove
fustigano con regolarità la
promiscuità esistente
tra industria farmaceutica e professione medica, come negli anni ’80
quando la timidezza si trasformò in una fobia sociale curata con la
sostanza corrispondente. Milioni di persone finirono per consumare un
farmaco di dubbia efficacia e sicurezza, il Paxil, brevettato da SmithKline,
oggi GlaxoSmithKline, grazie a potenti campagne di marketing.
Attira l’attenzione la precocità a cui vengono prescritti queste sostanze.
Un’altro disturbo fondamentale, la sindrome
da deficit di attenzione e iperattività,
provocò negli Stati Uniti un’esplosione del consumo dello psicostimolante
metilfenidato (Ritalin), specialmente tra bambini ed adolescenti. In
generale, si stima che due bambini statunitensi su tre consumano qualche
tipo di psicofarmaco porta induce modifiche comportamentali. Il sacrificio
teletrasmesso del Dr. Conrad Murray, condannato per l’omicidio involontario di Michael Jackson,
o quello di altri medici in favore della lotta contro il doping, nascondono
tutti i problemi.
La società produttivista non
ammette che possiamo essere distratti, inquieti, o tristi. O per meglio
dire, possiamo esserlo, purché ciò ci sproni per massimizzare
le nostre potenzialità fisiche e mentali. Fino a questo punto
può arrivare la paura o il senso di colpa. Col risultato che il
consumo di farmaci di ogni tipo normalmente va oltre quello che viene
normalmente considerato patologico, lasciando opportunamente da parte
rischi, abusi e effetti secondari che invece giustificano la proibizione
di altre sostanze. Ma come succede con le droghe sporche, il problema
non è la sostanza in sé – come di solito arringano i moralisti,
sia di destra che di sinistra – ma come viene prodotta, come si commercializza
e come si rastrellano i profitti, come si consuma e a che fine.
Ogni società ha il suo regime
di produzione e consumo di narcotici, stimolanti e farmaci. Fautori
del libero mercato, come Milton Friedman, la rivista The Economist
o nei nostri lidi Antonio Escohotado, pur essendo favorevoli alla depenalizzazione,
pretendono di farci credere che la libertà del capitale è incompatibile
col controllo poliziesco, statale o corporativo dei nostri corpi che
vengono concepiti come proprietà privata. Ma, come ho cercato di descrivere,
niente potrebbe essere più lontano dalla realtà. Nel capitalismo gli
stati hanno sviluppato, specialmente durante il periodo di egemonia
statunitense, il regime di controllo più sofisticato che sia mai esistito,
e col tempo si è diffuso e fomentato l’uso di un’enorme quantità di
sostanze, sia per fare la guerra (il soldato moderno non si può concepire
senza un consumo abbondante di droghe, dalle anfetamine agli antidepressivi)
che per la produzione materiale o immateriale.
La crisi di egemonia dell’Occidente sta agevolando una riflessione
più profonda sulla depenalizzazione.
Nel gennaio del 2012 si commemora un
secolo del controllo internazionale
della produzione e del traffico degli stupefacenti, un buon momento
per reclamare riforme fondamentali, anche se negli Stati Uniti – la
fonte della repressione internazionale – sarà un anno elettorale.
La lotta contro l’ordine finanziario, contro la servitù del lavoro
per una società più giusta e democratica, passa anche da un cambio
di approccio del modo in cui ci riferiamo alle sostanze che hanno un
effetto somatico e psichico, e dal modo in cui organizziamo socialmente
la produzione, il commercio e il consumo. Senza ipocrisia
Fonte: Narcocapitalismo
25.12.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE