Una serie in tre parti sulle
cause del fenomeno delle correnti migratorie
DI DAVID BACON
www.cipamericas.org
Si sta sviluppando un’alleanza politica
tra paesi con una politica di esportazione della forza lavoro e le grandi
aziende che utilizzano questo lavoro nel nord globale. Molti paesi che
inviano migranti nel mondo sviluppato dipendono dalle loro rimesse per
finanziare i servizi sociali e per tenere a freno lo scontento sociale
dovuto alla povertà e alla disoccupazione, continuando comunque a effettuare
enormi pagamenti per il debito. Le corporazioni che usano queste persone
dislocate dai luoghi di origine condividono un sempre maggiore interesse
coi governi di queste nazioni nel regolamentare il sistema che le fa
arrivare sul posto.
In modo crescente, i meccanismi per
regolare questo flusso di persone sono i programmi di lavoro a contratto,
chiamati negli Stati Uniti programmi per “lavoratori ospiti”
o “lavoratori temporanei “, o “migrazione gestita”
nel Regno Unito e in gran parte dell’UE. Con o senza questi programmi,
la migrazione negli Stati Uniti e negli altri paesi industriali è comunque
un dato di fatto. Nonostante l’uso costante di una retorica che demonizza
gli immigrati, il Congresso degli USA non sta valutando un modo per
porre fine all’emigrazione. Non può nulla, senza un riordino radicale
dell’economia mondiale. E neppure le ondate ricorrenti di incursioni
contro l’immigrazione e le deportazioni dagli Stati Uniti hanno l’intenzione
di fermarla. In un’economia in cui il lavoro del migrante gioca un ruolo
fondamentale, il prezzo da pagare per porre fine all’emigrazione sarebbe
la crisi economica. L’intenzione delle politiche migratorie è quella
di gestire il flusso di persone, determinando il loro status negli Stati
Uniti, nell’interesse di coloro che gli danno lavoro.
Gli emigranti sono comunque prima di
tutto esseri umani, e il loro desiderio di avere una comunità
è forte quanto il bisogno di lavorare. L’utilizzo delle riforme
neoliberiste e dei trattati economici per trasferire le comunità, per
produrre un esercito globale di lavoratori disponibili e vulnerabili,
ha un impatto brutale. Gli accordi di libero scambio proposti ed esistenti
tra USA e Messico, Canada, America Centrale, Perù, Colombia, Panama,
Corea del Sud e Giordania non solo non fermano le trasformazioni economiche
che sradicano le famiglie e le gettano nella corrente migratoria, ma
spingono tutto il processo con forza.
A livello mondiale il flusso migratorio
è ancora di solito auto-avviato. In altre parole, anche se le
persone possono essere guidate da forze che vanno oltre il loro controllo,
si muovono per conto proprio e a propria discrezione, tentando di cercare
la sopravvivenza e un’opportunità economica per riunirsi alle loro
famiglie e per creare nuove comunità nei paesi che ora chiamano casa.
Ma l’idea di gestire il flusso di migrazione sta crescendo.
Questo articolo vuole affermare che
queste forze economiche e globali stanno guidando lo sviluppo delle
politiche migratorie degli Stati Uniti. In modo crescente, le tensioni
politiche che dividono negli USA il movimento per i diritti dei migranti
sono determinate, da un lato, dalla decisione di sostenere questa tendenza
politica generale e i propri rappresentanti politici a Washington, dall’altro
da un tentativo di opporsi e di creare un movimento sociale per l’uguaglianza
e i diritti che si basi sulle comunità dei migranti.
Lo sviluppo della fornitura di forza
lavoro e il sistema di gestione del lavoro per governare il flusso dei
migranti, ovvero di persone, richiede un potenziamento sempre più feroce.
Con la criminalizzazione del lavoro dei migranti privi di documenti
di venticinque anni fa, e alla riedizione di un programma per i loro
contratti, l’Immigration Reform and Control Act del 1986, furono
stabiliti i parametri per il dibattito sulle politiche di immigrazione
che continua fino ai nostri giorni. Oggi i raid contro l’immigrazione
e le iniziative a contrasto, una legislazione aspra e razzista e l’isterismo
che arriva di conseguenza, stanno debellando il nostro paese. Gli emigranti
di oggi sono considerato allo stesso tempo lavoratori richiesti per
il basso salario e criminali.
Questo articolo dapprima delineerà
le forze economiche e globali che guidano il dislocamento e la migrazione,
e il loro impatto sulle comunità. Delineerà poi la struttura basilare
e i propositi delle politiche statunitensi sull’immigrazione e le
proposte di base per modificarle. Esaminerà la divisione tra i sostenitori
mainstream di stanza a Washington della riforma corporativa dell’immigrazione
sociale, e la comunità e i gruppi di lavoratori che auspicano un’alternativa,
e alla fine delineerà le loro proposte per un’alternativa basata sui
diritti umani e quelli del lavoro.
Noi cominciamo con l’esame di un particolare
flusso di emigranti, quello delle persone indigene della regione di
Oaxaca, sia perché la loro esperienza è simile ad altre, ma anche
perché le organizzazioni nelle comunità coinvolte hanno articolato
un’analisi sofisticata del sistema in cui si muovono.
Dove inizia il flusso di persone
Rufino Domínguez, l’ex coordinatore
del Binational Front of Indigenous Organizations, ora è a capo
dell’Oaxacan Institute for Attention to Migrants, stima che
ci siano approssimativamente 500.000 persone di Oaxaca che vivono negli
Stati Uniti, 300.000 nella sola California.
Secondo Rick Mines, autore dello Studio
sui Lavoratori Agricoli Indigeni del 2010, “la popolazione totale
dei lavoratori agricoli indigeni messicani in California
è di circa 120.000 elementi […] per un totale di 165.000 agricoli
indigeni e familiari in tutta la California.” Contando le molte
persone indigene che vivono e lavorano nelle aree urbane, il numero
è notevolmente più alto, afferma, arrivando facilmente alle stime
di Domínguez.
Lo studio ha contattato 54.000 persone
che erano emigrate da 350 città di Oaxaca, circa 150 per città.
Data la dimensione di molte piccole comunità, ciò conferma le
affermazioni ricorrenti degli indigeni di Oaxaca, secondo cui alcune
città sono oramai spopolate, o sono comunità composte da gente
molto vecchia o molto giovane, in cui la gran parte di persone in età
lavorativa si è spostata al nord.
“Nei primi anni
’90 c’erano approssimativamente 35.000 lavoratori agricoli indigeni
in California“, afferma Mines, “mentre nel periodo
dal 2004 al 2008 erano all’incirca quattro volte superiori, 120.000
lavoratori agricoli messicani indigeni.” Inoltre, gli indigeni
formavano il 7% dei migranti messicani nel 1991-3, gli anni precedenti
all’introduzione del North American Free Trade Agreement. Nel
2006-8 erano il 29%, quattro volte di più.
La California ha una forza lavoro in
agricoltura pari a circa 700.000 lavoratori, e non è quindi lontano
il giorno in cui gli emigranti di Oaxaca saranno maggioranza. Sono davvero
la forza lavoro che è stata prodotta dal NAFTA e dalle modifiche neoliberiste
nell’economia globale. Per di più, “il sistema alimentare degli
Stati Uniti è da tempo dipendente dall’afflusso sempre rinnovato di
lavoratori che stabiliscono i livelli di salario e le condizioni lavorative
per il lavoro di ingresso nel settore agricolo“, riporta Mines.
Il salario bassissimo corrisposto alla più recente ondata di migranti
– gli indigeni di Oaxaca – stabilisce il minimo salariale per tutti
gli altri lavoratori agricoli in California, tenendo basso il costo
del lavoro e facendo alzare i profitti.
Le crisi economiche provocate dal
North American Free Trade Agreement e dalle altre riforme economiche
stanno ora sradicando e spostando questi messicani nelle aree più remote
del paese, dove le persone ancora parlano lingue che erano antiche quando
Cristoforo Colombo arrivò dalla Spagna. Mentre i lavoratori agricoli
venti e trenta anni fa arrivavano dalle zone centrali del Messico con
una più forte presenza spagnola, gli emigranti odierni provengono sempre
più spesso dalle comunità indigene. “Non c’è lavoro e il NAFTA
ha spinto il prezzo di mais così in basso che non
è più economicamente possibile seminare“, afferma Dominguez:
“Veniamo negli Stati Uniti a lavorare perché
non possiamo permetterci il prezzo degli alimenti a casa nostra. Non
c’è alternativa.”
Come da lui sottolineato, le politiche
migratorie e commerciali degli USA sono strettamente intrecciate. Fanno
parte di un singolo sistema, non sono politiche separate e indipendenti.
La negoziazione del North American Free Trade Agreement è stata
un passo importante nello sviluppo di questa relazione.
Fin dall’introduzione del NAFTA nel
1993, il Congresso USA ha dibattuto e approvato vari accordi commerciali
con Perù, Giordania, Cile, oltre al Central American Free Trade
Agreement. Allo stesso tempo ha trattato le politiche di immigrazione
come se quegli accordi commerciali non avessero alcuna relazione con
le ondate di persone che migrano negli Stati Uniti alla ricerca di lavoro.
Nel frattempo, una marea crescente di isteria anti-immigrazione ha sempre
più demonizzato questi emigranti, portando a misure per negargli il
lavoro, i diritti o una qualsiasi pretesa di uguaglianza con le persone
che vivono nelle comunità a loro vicine. Per risolvere questi dilemmi,
adottando politiche umane e razionali per ridurre le paure e l’ostilità
verso i migranti, bisogna partire esaminando il modo in cui le politiche
statunitensi hanno prodotto emigrazione e criminalizzato i migranti.
L’Immigration Reform and Control
Act e il NAFTA
Gli accordi commerciali e le politiche
migratorie sono state formalmente congiunte quando il Congresso approvò
la Legge sulla Riforma dell’Immigrazione e il Controllo (IRCA) nel
1986. Gli attivisti per i diritti dei migranti parteciparono a una campagna
contro la legge perché conteneva sanzioni padronali, e proibiva per
la prima volta ai datori di lavoro l’assunzione di lavoratori senza
documenti. Questi sostenitori dissero che la proposta avrebbe provocato
la criminalizzazione del lavoro per i senza documenti. I difensori liberisti
dell’IRCA sottolinearono il loro provvedimento di amnistia come un
sistema per giustificare le sanzioni, e la legge alla fine dette modo
a quattro milioni di persone prive di documenti di immigrazione che
vivevano negli USA di ottenere la residenza permanente. Con un largo
consenso dei due partiti per l’approccio del dispositivo nei confronti
dell’immigrazione, le legge fu approvata da Ronald Reagan, un Repubblicano
e il presidente più conservatore fino a quel momento.
In pochi notarono un altro provvedimento
della legge. L’IRCA istituì una Commissione per lo Studio della Migrazione
Internazionale e lo Sviluppo Economico Cooperativo per studiare le cause
dell’immigrazione negli Stati Uniti. La commissione è rimasta inattiva
fino al 1988, ma iniziò a convocare udienze quando gli USA e il Canada
firmarono un accordo bilaterale di libero commercio. Dopo che il presidente
messicano Carlos Salinas de Gortari rese noto che avrebbe visto di buon
occhio un accordo simile per il Messico, nel 1990 la commissione fece
un rapporto al Presidente George Bush Sr e al Congresso. Rilevò, senza
sorprese, che la motivazione principale per venire negli Stati Uniti
era di natura economica. Per rallentare o fermare questo flusso, raccomandò
di “promuovere una maggiore integrazione economica tra i paesi
che inviano migranti e gli Stati Uniti attraverso il libero scambio“.
Concluse che “gli Stati Uniti dovrebbero promuovere lo sviluppo
di una zona di libero commercio Stati Uniti-Messico e incoraggiare la
sua incorporazione col Canada in un’area di libero commercio nordamericana“,
avvertendo che “ci vorranno molti anni
– forse generazioni – di crescita per realizzare l’effetto desiderato“.
Le negoziazioni che hanno portato al
NAFTA sarebbero iniziate pochi mesi dopo questo rapporto. Mentre il
Congresso stava dibattendo il trattato, il presidente messicano Carlos
Salinas de Gortari fece un viaggiò negli Stati Uniti, parlando a una
platea insoddisfatta dagli alti livelli dell’immigrazione che l’approvazione
del NAFTA l’avrebbe ridotta, offrendo lavoro ai messicani in Messico.
Tornato in patria, Salinas e gli altri sostenitori del trattato ripeterono
le stesse frasi. Il NAFTA, dissero, avrebbe messo il Messico sui binari
per diventare una nazione del primo mondo. “Diventammo parte
del primo mondo“, dice Juan Manuel Sandoval, coordinatore del
Seminario Permanente di Studio sui Chicanos e i Confini all’Istituto
Nazionale di Antropologia e Storia di Città del Messico: “Il
cortile dietro casa.”
Ma il NAFTA non portò a un aumento
dei redditi e del lavoro, e quindi non diminuì il flusso dei migranti
negli Stati Uniti. Al contrario, divenne un’importante fonte di pressione
sui messicani, particolarmente gli Oaxacani, per emigrare. Il trattato
pose in concorrenza sul proprio mercato il mais giallo coltivato dagli
agricoltori messicani senza sussidi con il mais degli enormi produttori
statunitensi, sovvenzionati dalle politiche agricole degli USA. Le esportazioni
agricole in Messico più che raddoppiarono negli anni del NAFTA, passando
da 4,6 a 9,8 miliardi di dollari l’anno, 2,5 miliardi di dollari di
solo mais. In Messico, nel gennaio e febbraio del 2008, enormi manifestazioni
cercarono di bloccare l’implementazione del capitolo finale dell’accordo,
che abbassava le barriere tariffarie per il mais bianco e i fagioli.
In conseguenza di una crisi sempre
più forte nella produzione agricola, dagli anni ’80 il Messico
è diventato un importatore di mais. Le importazioni di mais sono salite
da 2.014.000 a 10.330.000 tonnellate dal 1992 al 2008. Secondo Alejandro
Ramírez, direttore generale della Confederazione Messicana dei Produttori
di Carne di Maiale, il Messico ha importato 30.000 tonnellate di carne
di maiale nel 1995, l’anno in cui NAFTA entrò in vigore. Dal 2010 le
importazioni di carne di maiale, quasi tutte dagli Stati Uniti, erano
cresciute più di 25 volte, raggiungendo 811.000 tonnellate. Di conseguenza,
i prezzi per questo tipo di carne imposti ai produttori messicani calarono
del 56%.
Le importazione ebbero un effetto drammatico
sul lavoro in Messico. “Sparirono 4000 fattorie con i maiali”,
stima Alejandro Ramírez. “Nelle fattorie messicane, ogni 100
animali vengono a formarsi cinque posti di lavoro, e quindi perdemmo
direttamente 20.000 lavori in agricoltura per le merci di importazione.
Considerando cinque posti di lavoro indiretto per ogni lavoratore diretto,
in totale scomparirono 120.000 impieghi. Ciò
ha prodotto migrazione verso gli Stati Uniti o verso le città
messicane, un grosso problema per il nostro paese.” Una volta
che i produttori messicani di carne e di mais sono stati dirottati verso
le merci di importazione, l’economia messicana divenne sempre più vulnerabile
alle modifiche di prezzo dettate dall’agrobusiness o dalle
politiche statunitensi. “Quando gli USA cambiarono la
loro politica sul mais incoraggiando la produzione di etanolo”,
ha aggiunto, “i prezzi del mais salirono del 100% in un solo anno.”
Il NAFTA proibì poi i sostegni
ai prezzi, senza i quali centinaia di migliaia di piccoli coltivatori
si trovarono nell’impossibilità di vendere il mais o gli altri prodotti
agricoli per quanto costava produrli. Il sistema del CONASUPO, con cui
il governo messicano acquistava mais a prezzi sovvenzionati, lo trasformava
in tortillas che poi lo vendeva nei negozi di alimentari da gestiti
dallo stato a prezzi bassi e sovvenzionati, fu abolito.
Il Messico non poteva più proteggere
l’agricoltura dalle fluttuazioni del mercato mondiale. Un eccesso
di offerta globale di caffè globale negli anni ’90 spinse i prezzi
immersi sotto il costo di produzione. Un governo meno ingabbiato forse
avrebbe acquistato i raccolti dei coltivatori di Veracruz per farli
sopravvivere, o avrebbe forniti sussidi per altre coltivazioni. Ma una
volta introdotte le strutture di libero mercato che proibivano l’intervento
statale di aiuto, questi coltivatori pagarono un duro. I campesinos
di Veracruz si unirono al flusso di lavoratori diretti a nord. Qui diventarono
una parte importante della forza lavoro nel settore della trasformazione
della carne di maiale a Smithfield nel North Carolina, così come in
altre industrie.
Alle aziende statunitensi fu permesso
di possedere terra e fabbriche, anche in Messico, senza partner
messicani. La Union Pacific di stanza negli USA, in collaborazione
con la famiglia Larrea, divenne proprietaria della principale linea
ferroviaria nord-sud del paese, e venne interrotto immediatamente tutto
il traffico passeggeri, come già avevano fatto le grandi aziende negli
Stati Uniti. L’impiego nel settore ferroviario messicano passò da
90.000 a 36.000 lavoratori. Di fronte alla privatizzazione, i dipendenti
delle ferrovie dichiararono uno sciopero selvaggio per tentare di salvare
il lavoro, ma persero e il loro sindacato è diventato l’ombra della
sua precedente presenza nella politica messicana.
Il taglio dei salari nelle imprese
privatizzate e lo sventramento degli accordi sindacali aumentarono il
differenziale di salario tra USA e Messico. Secondo Garrett Brown della
Maquiladora Health and Safety Network, nel 1975 il salario medio
in Messico era il 23% della paga manifatturiera statunitense. Nel 2002
era meno di un ottavo, secondo l’economista messicana ed ex senatrice
Rosa Albina Garabito. Brown afferma che, da quando il NAFTA ha preso
effetto, il salario reale messicano è calato del 22%, mentre la produttività
del lavoro è salita del 45%.
I bassi salari sono il magnete utilizzato
per attrarre gli investitori statunitensi e di altri paesi stranieri.
Nella metà di giugno del 2006, Ford Corporation, già allora uno
dei più grandi datori di lavoro in Messico, annunciò di voler investire
altri nove miliardi di dollari per costruire nuovi stabilimenti. Nel
frattempo, Ford disse di voler chiudere almeno 14 impianti negli Stati
Uniti, eliminando il lavoro di decine di migliaia di lavoratori statunitensi.
Le due iniziative facevano parte del piano strategico della società
per arginare le perdite, tagliando drasticamente il costo del lavoro
e stimolando la produzione. Quando General Motors fu salvata dal governo
federale nell’attuale recessione, chiuse una dozzina di stabilimenti
negli USA e lasciò per strada decine di migliaia di lavoratori. Il
suo progetto per la costruzione di nuove fabbriche in Messico è proseguito
senza colpo ferire.
Nel primo anno del NAFTA, il 1994,
uno milione di messicani perse il lavoro, in base ai dati del governo,
quando il peso fu svalutato. Per evitare la svendita di obbligazioni
a breve termine e un flusso di capitali verso il nord, il Segretario
del Tesoro Robert Rubin pianificò un prestito al Messico da 20 miliardi
di dollari, che fu pagato dagli obbligazionisti, principalmente banche
degli Stati Uniti. Come effetto, le banche statunitensi e britanniche
ottennero il controllo del sistema finanziario del paese. Il Messico
doveva impegnare le sue entrate petrolifere per pagare il debito straniero,
rendendo indisponibile per le finalità sociali la fonte primaria di
reddito della nazione.
Mentre l’economia messicana, soprattutto
quella specialmente l’industria di assemblaggio ai confini, divenne
sempre più legata al mercato statunitense, i lavoratori messicani persero
il lavoro quando il mercato rifornito da quelle fabbriche si restringeva
nelle fasi recessive. Nel 2000-2001 furono persi 400.000 posti di lavoro
sul confine tra USA e Messico, e nella recessione attuale se ne sono
andati altre migliaia.
Flussi migratori, un prodotto
delle riforme del libero mercato
Tutte queste politiche hanno prodotto
profughi, persone che non riescono più a tirare avanti o a sopravvivere
come avevano fatto prima. Le rosee previsioni dei sostenitori del NAFTA,
che avrebbe dovuto aumentare il reddito e rallentare la migrazione,
si sono dimostrate false. La Banca Mondiale, in una ricerca del 2005
prodotta per il governo messicano, rilevò che il tasso di povertà
rurale estrema, che era del 35% nel 1992-4 prima di NAFTA, era
salito al 55% nel 1996-8, dopo che il NAFTA entrò in vigore. Ciò poteva
essere spiegato, secondo il rapporto, “principalmente dalla
crisi economica del 1995, dalle performance deprimenti dell’agricoltura,
dai salari agricoli stagnanti e dalla diminuzione dei prezzi reali degli
alimenti.”
Nel 2010 cinquantatre milioni di messicani
vivevano in povertà, secondo il Monterrey Institute of Technology,
metà della popolazione. Circa il 20% vive in povertà estrema,
quasi sempre nelle aree rurali. L’aumento della povertà, a sua volta,
ha favorito l’emigrazione. Nel 1990 erano 4,5 milioni le persone nate
in Messico che vivevano negli Stati Uniti. Un decennio più tardi, questa
popolazione più che raddoppiò, portandosi a 9,75 milioni, e nel 2008
raggiunse i 12,67 milioni. Quasi l’11% dei messicani ora vive negli
USA. Circa 5,7 milioni sono stati capaci di reperire un qualche visto,
ma altri sette milioni non ci sono riusciti, ma sono partiti lo stesso.
Le persone sono emigrate dal Messico
agli Stati Uniti anche molto tempo prima che fosse introdotto il NAFTA.
Juan Manuel Sandoval sottolinea che il “lavoro messicano
è stato sempre collegato alle varie fasi dello sviluppo capitalistico
degli USA sin dal XIX secolo, nei periodi di prosperità
con l’incorporazione di un gran numero di lavoratori nell’agricoltura,
nella produzione, nei servizi e in altri settori, e nei periodi di crisi
economica, dalla deportazione in Messico di un numero enorme di lavoratori
messicani.” L’ondata corrente di deportazioni – uno milione
di persone negli ultimi due anni – ce lo conferma.
Dal 1982 per tutta l’era del NAFTA,
una serie di riforme economiche hanno prodotto sempre più migranti.
Il trasferimento di persone era già cresciuto così tanto nel 1986,
che la commissione istituita dall’IRCA fu incaricata di trovare le
misure per fermarlo o rallentarlo.
Il suo rapporto auspicò che “i
paesi di partenza dei migranti dovrebbero incoraggiare la modernizzazione
tecnologica, rafforzando e assicurando la protezione della proprietà
intellettuale e rimuovendo gli impedimenti esistenti agli investimenti”
e raccomandò che “gli Stati Uniti condizionassero gli aiuti
bilaterali concessi ai paesi di partenza dei migranti, facendogli prendere
le misure necessarie per gli aggiustamenti strutturali. Allo stesso
modo, il sostegno degli Stati Uniti per i prestiti non collegati al
progetto da parte delle istituzioni finanziarie internazionali dovrebbero
essere basato sulla realizzazione di programmi di aggiustamento soddisfacenti.”
Il report della commissione dell’IRCA riconobbe i danni potenziali
notando che “dovrebbero essere fatti sforzi per alleviare i
costi in sofferenza umana dovuti alla transizione.”
Comunque, il North American Free
Trade Agreement non aveva come obbiettivo quello di alleviare la
sofferenza umana. Nel 1994, l’anno in cui il trattato prese effetto,
gli speculatori statunitensi iniziarono a svendere le obbligazioni governative
messicane. Secondo Jeff Faux, direttore fondatore dell’Economic Policy
Institute, “il collasso del peso nel 1994 fu direttamente
collegato al NAFTA, che aveva creato una bolla speculativa sui titoli
messicani che poi sono crollati quando gli speculatori sono andati all’incasso.”
“Sono i crash finanziari e
i disastri economici che spingono le persone a lavorare per dollari
negli Stati Uniti, per rimpiazzare i risparmi di una vita, o solo per
guadagnare abbastanza per tenere unita la famiglia a casa”, ha
detto lo John Womack Harvard. “La crisi indotta dal debito negli
anni ’80, prima del NAFTA, ha spinto le persone al nord […] Il crash
finanziario e la riforma indotta da Rubin del NAFTA, l’espropriazione
finanziaria newyorkese delle finanze messicane tra il 1995 e il 2000
ha costretto i poveri, i tartassati e i diseredati ancora una volta
verso il nord.”
Negli Stati Uniti il dibattito sull’immigrazione
non ha un vocabolario che descriva ciò che accade agli emigranti prima
di attraversare il confine, le motivazioni che li portano a muoversi.
Nel dibattito politico statunitense, il raccoglitore di caffè sradicati
da Veracruz o i lavoratori disoccupati che vengono da Città del Messico
sono tutti immigrati, perché questo dibattito non riconosce la loro
esistenza prima che abbandonino il Messico. Sarebbe più accurato chiamarli
migranti, e il processo migrazione, dato che così si prende in considerazione
le comunità di origine di queste persone e quelle di coloro che abitano
i luoghi dove vanno a cercare lavoro.
Lo stesso dislocamento diventa una
parola impronunciabile nella vulgata di Washington. In un quarto di
secolo dall’approvazione dell’IRCA, non c’è stata una singola
proposta sull’immigrazione del Congresso che abbia cercato di gestire
le politiche che hanno sradicato minatori, insegnanti, piantatori di
alberi e coltivatori, nonostante il fatto che i membri di Congresso
abbiano votato a favore di queste politiche. Infatti, mentre stava discutendo
le leggi per criminalizzare i migranti senza documenti e per introdurre
giganteschi programmi per i lavoratori ospiti, sono state introdotti
altri quattro accordi commerciali, ognuno dei quali ha causato ancora
più profughi e migrazione.
Fonte: Migration: A Product of Free Market Reforms
12.01.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE
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