Lotta di classe: come, quando e perché

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DI ANDREA CAVALLERI

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In un articolo del New York Times del 2006 compariva la citazione di una frase che ha fatto epoca:

C’è una lotta di classe, d’accordo, ma è la mia classe, quella dei ricchi, che sta facendo la guerra e sta vincendo.

A far scalpore il fatto che a pronunciare questa frase fosse Warren Buffet, all’epoca classificato come terzo uomo più ricco del pianeta.

Poiché il profeta della lotta di classe è universalmente riconosciuto in Karl Marx, le parole di Buffet possono sembrare un gioco al paradosso, un revival rovesciato che ha inaugurato una nuova stagione.

La lotta di classe che tutti ricordano è quella dei proletari che si devono unire, è quella dei poveri che combattono per avere un posto al sole.

Ma in realtà chi l’ha cominciata? A quale periodo storico possiamo farla risalire? Come viene combattuta e, soprattutto, perché?

Esiste davvero una ragione per cui debba esistere una lotta di classe?

Quando.

I contrasti corporativi si perdono nella notte dei tempi.

Molto probabilmente rivolte di schiavi si sono verificate in quasi tutte le più antiche civiltà.

Per ricordare la sola Roma nostrana, abbiamo la crisi della plebe risolta, secondo leggenda, dalla persuasione di Menenio Agrippa, e la celebre guerra del 73 a.C. in cui ogni ribelle combatté e morì al grido di “io sono Spartaco”.

Tuttavia non voglio parlare dei tempi antichi, nei quali esisteva una reale scarsità di risorse e la bassa produttività del lavoro permetteva solo a una piccola minoranza di non impegnarsi in attività finalizzate alla sopravvivenza.

Intendo riferirmi all’epoca moderna, da quando non solo il sostentamento di tutto il popolo  divenne facilmente conseguibile, ma anche il tenore di vita si sarebbe potuto innalzare decorosamente per tutti.

Ebbene, proprio alle soglie di quest’epoca, vengono formulate delle teorie che contengono i germi della lotta di classe e che postulano la necessità teorica di un ceto povero, in assenza di una ragione pratica della sua esistenza.

La svolta antropologica avviene con la filosofia di John Locke (1632 – 1704), secondo cui la comunità è costituita da un patto sociale in base a cui le persone si assoggettano allo Stato e in cambio lo Stato deve garantire loro tutti i diritti, pena la rivoluzione.

Ma il primo e inalienabile diritto, da cui discendono tutti gli altri, sarebbe quello di proprietà!

Questa trovata balzana fa tabula rasa della natura socievole dell’uomo di aristotelica memoria, della dignità della persona umana (fondata sull’essere a immagine e somiglianza di Dio) portata dal cristianesimo, dei monumentali studi sul bene comune di san Tommaso d’Acquino.

In base a questo principio lo Stato non esiste più, come nel Medioevo, per proteggere i deboli, ma per garantire i possessi dei ricchi. O, per essere precisi fino alla pignoleria, lo Stato esiste per garantire i possessi di tutti, quindi garantire niente per i nullatenenti e tutto per i ricchi.

Questa visione sociale, grossolana e insostenibile, ma tutt’oggi predicata e insegnata nelle scuole di economia, sarà la base imperitura dell’economia liberista.

Particolare da non dimenticare mai, l’autore di queste idee appartenne al ceto superiore e fece fortuna con le azioni di una società per la tratta degli schiavi.

Quindi un esponente della classe ricca dichiarò che la base della convivenza civile è il diritto dei ricchi a vedere tutelata la propria ricchezza: le premesse per la lotta erano state poste e chi si preparava ad attaccare erano i ricchi.

Ma la dichiarazione di guerra tra le classi doveva aspettare ancora un secolo, perché giunse con Thomas Robert Malthus (1766 – 1834), di famiglia benestante (ca va sans dire), pastore anglicano e professore universitario.

Celebre è la sua tesi demografica secondo cui, crescendo la popolazione più in fretta dei mezzi di sussistenza (l’una in progressione geometrica, gli altri in progressione aritmetica) o si limita la popolazione o avverranno catastrofi e carestie.

Il rimedio da lui proposto è quello di impedire ai poveri di procreare e la trovata geniale con cui attuare questo proposito è quella del salario al minimo di sussistenza.

Se i salariati facessero troppi figli aumenterebbe la popolazione e con essa l’offerta di lavoro; ma aumentando l’offerta, il prezzo del lavoro (cioè il salario) calerebbe, scendendo al di sotto del minimo di sussistenza, il che impedirebbe ai lavoratori di sposarsi e avere figli (e magari anche di mangiare tutti i giorni).

Quindi il salario al minimo di sussistenza sarebbe la soluzione autoequilibrante tramite cui cautelarsi in vista del rischio demografico.

Si potrebbero trovare numerosi errori nel ragionamento di Malthus, ma non è il mio scopo denunciarli; invece, stando nel tema di questo articolo, è opportuno sottolineare i significati impliciti che esso porta con sé.

Per prima cosa noto che il bene che Malthus lascia intendere di voler tutelare è quello della autoconservazione della specie: se la popolazione cresce troppo l’umanità ne soffrirà.

Ma allora perché a limitarsi dovrebbero essere i poveri?

Nell’ottica di preservare la specie, dovrebbe essere concesso di fare figli agli individui più sani, più belli, con il miglior patrimonio genetico… e invece sono i ricchi a poterlo fare, coloro che oltretutto consumano una maggior quantità di quelle preziose risorse che scarseggiano.

Da questa preferenza emerge il sottinteso che la ricchezza viene considerata alla stregua di una qualità intrinseca, che rende l’individuo più adatto alla sopravvivenza e al progresso della specie.

Un secondo appunto che evidenzio è che se ai lavoratori fosse conferito un salario abbondante, essi non sarebbero più poveri; ma allora cosa sta predicando Malthus, che è necessario che i poveri non facciano figli perché poi non possono mantenerli, o che è necessario che ci siano i poveri, in modo che la popolazione non cresca?

Per quanto la realtà abbia dimostrato la fallacia del ragionamento malthusiano (sono i Paesi più miseri quelli col maggior incremento demografico) il punto fermo è che in nome dell’umanitarismo,  dell’economia e dell’equilibrio (equilibrio “sostenibile, sostenibile!” aggettivo tantrico presente negli ultimi vent’anni di retorica politicamente corretta) si afferma che deve esistere un congruo numero di persone povere, una classe.

Una terza osservazione fondamentale riguarda la tempistica con cui questa dottrina apparve.

Perché fu in concomitanza con la rivoluzione industriale, cioè nel momento in cui si moltiplicavano le capacità produttive e si prospettava un’abbondanza diffusa, che fu suscitato l’allarme per la scarsità delle risorse.

E il fatto non è isolato, anzi rappresenta uno schema che da quel momento divenne ricorrente.

Il boom del dopoguerra, improntato a politiche postkeynesiane, fu arrestato dallo shock petrolifero e dall’introduzione dell’austerità in vista dell’esaurimento delle risorse energetiche, e questo poco dopo l’entrata a regime delle centrali nucleari e l’abbandono del gold standard, eventi che prospettavano grandi possibilità espansive.

La morale è sempre la stessa: c’è una catastrofe in vista, per scongiurare la quale la maggioranza delle persone deve tirare la cinghia, mentre la minoranza più ricca può fare quello che vuole.

Di volta in volta la catastrofe può essere indicata come l’inflazione, il degrado ambientale o climatico; la prossima catastrofe-spauracchio è quella sanitaria, per cui “se in questo mondo siamo troppi non si può mantenere il distanziamento sociale” e ci si contagia con i virusss letali.

Non mi stupirei se nel giro di qualche decennio uscissero teorie che predicano una maggior quiete terrestre per non irritare gli alieni che ci bombarderebbero con gli asteroidi o per non risvegliare i mostri di fuoco che vivono nel centro della terra e potrebbero venire in superficie a divorare le nostre città.

Qualunque siano i progressi scientifici e qualunque sia la conseguente crescita di potenzialità per l’umanità, di volta in volta verrà trovato un pretesto per dire che non bisogna essere in troppi e non bisogna consumare molto; e a dirlo, nei termini di “armiamoci e partite” sarà sempre un esponente della minoranza ricca, quella che non si limita né nella prole e tanto meno nei consumi.

Malthus si fece conoscere anche come difensore della rendita, ovvero di quel meccanismo che accresce le proprietà senza lavorare.

In un certo senso questo è il completamento della distinzione delle classi: se i veri poveri vengono qualificati dal reddito al minimo di sussistenza, i veri ricchi vengono qualificati dalla disponibilità di una rendita, quasi che lo status di ricco fosse, oltre a una qualità intrinseca, una specie di diritto divino che rende l’eletto superiore alla plebe.

In ogni caso non solo la lotta di classe è stata teorizzata, preparata e avviata dai ricchi, ma soprattutto l’esistenza stessa delle classi è sempre stata pretesa e imposta dall’alto, dalla classe superiore.

Il perché di questa pretesa lo vedremo nel paragrafo dedicato.

Come.

Non voglio fare una rassegna dettagliata dei metodi di divaricazione dei redditi, perché sono quasi tutti ben conosciuti.

Ne ricordo alcuni come i prestiti a interesse, la disoccupazione forzata (con tanto di armamentario teorico a base di “tasso di disoccupazione naturale” e di NAIRU), la corruzione e l’asservimento del sindacato agli interessi del grande capitale, l’uso massiccio di tasse indirette e addirittura la tassazione regressiva, cioè quella per cui chi guadagna di più paga aliquote più basse.

Vorrei invece soffermarmi su un metodo molto praticato nell’ultimo secolo, che ha conosciuto un forte incremento a partire dal nuovo millennio, e che al tempo stesso è il metodo che è passato più inosservato, sia tra gli economisti sia nell’opinione pubblica.

Mi riferisco a quella che chiamo “distribuzione asimmetrica dell’inflazione” e che devo spiegare con un po’ di agio.

L’inflazione è un aumento generalizzato dei prezzi, dovuto al fatto che la domanda supera l’offerta.

Bisogna notare in proposito che non tutte le merci rispondono allo stesso modo all’incremento della domanda.

Ad esempio un aumento della domanda delle caramelle provoca come prima reazione un aumento della produzione di caramelle, cosa non tanto difficile dato che una linea automatica ne sforna 80.000 all’ora, e ben difficilmente arriverà a farne aumentare il prezzo.

All’estremo opposto abbiamo il pezzo unico, ad esempio la fontana di Trevi, per cui qualunque aumento della domanda viene trascritto integralmente nel prezzo di vendita.

Anche i tempi di produzione influiscono sulla risposta dei prezzi alle variazioni della domanda: ad esempio di fronte a un aumento della richiesta è molto più facile che cresca il prezzo delle case piuttosto che quello delle caramelle, dato che di caramelle se ne fanno due e mezza in un secondo e di case una in un anno.

In base a questi orientamenti di massima si capirà che il regno dell’inflazione quasi perfetta è la Borsa, il mercato dei titoli finanziari.

Infatti la percentuale dei titoli nuovi (i collocamenti) sul totale delle transazioni è ridicolmente bassa, sia perché i collocamenti non sono molto numerosi, sia perché il totale delle compravendite è enorme, soprattutto da quando esiste il trading online.

Altri fattori che potrebbero incidere sul prezzo (conservazione, trasporti, tempi di distribuzione) non ce ne sono, e quindi la reazione domanda-prezzi è molto simile a quella di un’asta di opere d’arte.

In fondo anche i più sprovveduti sanno che se aumenta la domanda il valore dei titoli cresce, con un automatismo infallibile.

Quindi quella che in borsa viene chiamata “crescita del listino” è quasi solo una forma di inflazione, stranamente salutata con giubilo dai media, di solito così severi con tutti gli altri aumenti dei prezzi.

Al contrario, quando salgono i prezzi dei prodotti di consumo subito scattano i campanelli di allarme come se potesse accadere qualcosa di grave.

E qual’è la caratteristica sociale collegata a queste tipologie di merci?

Semplice: i prodotti di consumo sono le merci prodotte e vendute dai poveri (e che devono costare poco) mentre i titoli finanziari sono la merce che vendono i ricchi (e che li devono far guadagnare molto)!

In proposito Thomas Piketti, nel suo “Il capitale nel XXI secolo” ci offre delle statistiche molto dettagliate ed eloquenti.

Per il 99% della popolazione i redditi da lavoro superano quelli da capitale (cioè affitti, dividendi e interessi), anche se nel 10% più ricco compaiono entrate da capitale, gradualmente crescenti, che arrotondano il reddito da lavoro.

Ma è per l’1% superiore che i redditi da lavoro si trasformano in redditi d’appoggio, mentre i profitti da capitale  diventano l’entrata principale e in particolare si registra la preminenza delle entrate finanziarie per i redditi più alti.

Dunque approssimativamente si può dire che a beneficiare dell’inflazione di Borsa sia lo 0,5% più ricco della popolazione.

La domanda che si pone a questo punto è: come fa questo 0,5% ad alimentare l’inflazione finanziaria?

Certamente il fatto che i media e le agenzie di rating appartengano a esponenti dello 0,5% superiore aiuta, attraverso la manipolazione della cultura, dell’informazione e quando non basta attraverso l’aggiotaggio.

Certamente il fatto che le politiche espansive istituzionali, denominate Quantitative Easing, vengono effettuate acquistando titoli e non, ad esempio, mezzi di produzione industriale o servizi al cittadino, aiuta similmente.

Ma negli ultimi lustri si è praticato un metodo ben più spiccio e diretto, di cui ci ha informato l’ex viceministro statunitense Paul Craig Roberts, ecco le sue parole.

Nel 1989, il governatore della Federal Reserve, Robert Heller, affermò che, poiché la Fed manipola già il mercato obbligazionario con i propri acquisti, essa può anche metter mano al mercato azionario per fermare il calo dei prezzi. Questo è il motivo per cui il Plunge Protection Team (PPT) venne creato nel ’87.

E Craig Roberts prosegue spiegando che oggi queste manipolazioni avvengono: acquistando futures su indici azionari S&P, per arrestare il calo del mercato guidato dalle fundamentals, e per riportare i prezzi in linea con un decennio di creazione di denaro.

In pratica il gestore della macchina che stampa i soldi scommette sul rialzo della Borsa, dando così il segnale agli “investitori” che va tutto bene e che i soldi per dividendi e interessi ci saranno.

E chi sono le persone che fanno queste politiche dirigendo la Fed, esponenti del ceto popolare, rappresentanti eletti, o elementi cooptati dalla élite plutocratica di cui già facevano parte o in cui sono stati accolti?

Non mi risulta che Alan Greenspan sia mai stato visto intento a vendere collanine sulla spiaggia, né Ben Bernanke a lavare i vetri al semaforo, né Janet Yellen a fare la questua.

Piuttosto costoro frequentano club e raduni esclusivi, come il Bilderberg o il forum di Davos, ma abbiamo le prove, grazie alla revisione dei conti del 2011, promossa dal coraggioso senatore Ron Paul, che una campagna segreta di aiuti post crisi in forma di prestiti senza interesse (e, al momento dell’audit, senza nessuna restituzione) era stata fatta a grosse società, per lo più finanziarie, di cui dirigenti e azionisti della Banca Centrale americana erano soci.

Quindi i dirigenti della Fed, in palese conflitto di interessi, possiedono capitali finanziari e, vuoi per interesse personale, vuoi per solidarietà di classe, vuoi per alienazione dalla realtà, profondono i loro sforzi per sostenere il reddito tipico dello 0,5% più ricco (i profitti da capitale) mentre si sono opposti agli aiuti ai poveri, inducendo Bernie Sanders a dire che Questo è un classico caso di socialismo per i più forti e ricchi e di individualismo “arrangiati e fai da te” per tutti gli altri.

Perché.

Qual’è il motivo per cui i ricchi si sentono spinti a condurre perennemente una guerra di classe contro i poveri?

Per provare a rispondere a questa domanda bisogna addentrarsi nei meccanismi psicologici che le condizioni di ricchezza e povertà recano con sé.

Una prima risposta che si può indicare è per atavismo.

Nell’antichità, data l’assoluta preponderanza del lavoro manuale su altri mezzi di produzione, qualunque progetto passava per il reclutamento (sovente coatto) della forza lavoro e il suo inquadramento in un ordine gerarchico, vista la penuria dei mezzi di comunicazione.

Non c’erano molte alternative a queste prassi e sembra che ancora oggi le classi dominanti facciano fatica a liberarsi dal riflesso pavloviano che li induce a sottomettere i collaboratori.

Una seconda risposta la si può trovare nei gradi di soddisfazione e di felicità che provengono dal possesso di beni.

Quando si è molto poveri si soffre per l’indigenza ed è naturale aspirare al benessere, tant’è che gli aumenti di reddito che cambiano la condizione delle persone, facendole passare dalla fascia della miseria a quella della classe media, provocano effetti immediati nell’aumento di felicità.

Ben diverse sono le ripercussioni sulla felicità quando il reddito si innalza ulteriormente dalla fascia media a quelle superiori.

Da indagini specifiche, condotte da varie scuole sociologiche, è risultato che tale incremento dei guadagni è associato a un calo della felicità (misurato con le dichiarazioni degli interessati) e contestualmente a un calo dei beni relazionali.

In sostanza, quando non ci si deve preoccupare di come sbarcare il lunario, non è la ricchezza che aumenta la soddisfazione della vita, ma le buone relazioni umane.

E troppi soldi inducono a trascurare o restringere le relazioni umane, per eccesso di cura verso i beni materiali, per paura di perdere le ricchezze, per il sospetto di essere frequentati per interesse e non per amicizia, per lo sviluppo di un senso identitario particolare che induce ad accompagnarsi solo con altri ricchi…

Qui sotto vediamo uno dei grafici della curva di Kutznet che illustra quanto ho appena esposto.

E purtroppo è facile immaginare come la delusione provocata dall’insoddisfazione pur in presenza di ricchezza possa mutarsi in qualcosa di peggio.

I casi tipici sono due: un arricchito di prima generazione che per un po’ è stato sempre più felice grazie agli aumenti di reddito, dapprima insisterà con questo schema (arricchire sempre di più) poi, dopo un certo numero di prove dell’inutilità di questa tattica, cercherà conferme di natura comparativa per dimostrare a se stesso che non ha sbagliato tutto.

Allora gli sarà di conforto misurare la distanza che c’è fra lui e i poveri, anzi l’infelicità dei poveri fungerà da supporto alle sue certezze e sarà la base su cui fonderà la propria autostima: ecco che è comparsa una forma sadica che sospinge questo tipo di ricco alla lotta di classe.

La seconda psicopatologia si sviluppa in certi ricchi da generazioni, abituati a vivere in un limbo separato dalla realtà: per costoro il rischio è il delirio di onnipotenza di cui un caso esemplare è stato David Rockefeller.

Questo banchiere che invocava un governo mondiale di banchieri (perché ovviamente pensava di essere lui a comandare) vedendo che le folle non scattavano ai suoi ordini, prese a detestare la loro ottusità, pensando quindi a come manipolarle, coartarle, schiavizzarle e anche sterminarle (non si dimentichi la sua ossessione per la riduzione della popolazione mondiale), al fine di conservare solo un gruppo scelto di sudditi che fosse capace di obbedire presto e bene.

L’affetto da delirio di onnipotenza proietta il conseguimento della felicità in un progetto utopistico, il mancato raggiungimento del quale giustifica lo stato di insoddisfazione del momento presente.

Per questo secondo tipo di malato, contagiato dalla ricchezza, la lotta di classe esprime il tentativo di rimuovere gli ostacoli che si frappongono fra il soggetto e la sua felicità, o meglio, la sua idea di felicità.

Bene in proposito aveva sintetizzato Silvio Gesell nel suo “Sistema economico a misura d’uomo” affermando che nella divisione della società in classi ci sono: da una parte quelli che sudano, imprecano e lavorano e, dall’altra i gaudenti che vivono a spese altrui, avviando quindi entrambi verso personalità asociali e conflittuali, perché anche i primi aspirano a diventare… (come i secondi nda)…mentre lo spirito di rivolta serpeggia nei repressi…nei finora vincenti capitalisti aleggia tutta la brutalità della volontà di potenza e di tirannia.

Frase che riassume quanto ho esposto e che sottolinea anche l’effetto di ritorno che hanno i sentimenti popolari nei confronti dei ricchi: l’invidia sociale conferma e inasprisce la brutalità del sadico, mentre lo spirito di rivolta spinge l’aspirante onnipotente a non patteggiare e a perseguire le vie più tiranniche.

Conclusioni.

Le classi si formano a partire dall’attitudine corporativa dei ricchi, i quali tendono anche a stabilire un atteggiamento ostile nei confronti delle classi inferiori.

Di fronte al dato storico della lotta di classe dei ricchi contro i poveri, Marx promosse in risposta una simmetrica lotta dei poveri contro i ricchi, senza rendersi conto (ammesso che fosse ingenuo e non in mala fede) che in questo modo aveva già accettato la logica della divisione dell’umanità in categorie in conflitto reciproco e, peggio ancora, aveva già accettato l’esistenza e per usare il suo linguaggio “la necessità storica” di classi ricche e povere.

Invece Silvio Gesell, nell’opera citata, scrive: in una società ben organizzata ricchezza e povertà non devono esistere e dovrebbero suscitare in ogni uomo libero orrore sorpresa e rivolta.

Pace e libertà sono sinonimi ed è veramente libero solo l’uomo che possa modificare la sua posizione economica col suo lavoro e in funzione delle sue necessità”.

Quindi non sopraffazione da parte dell’una o dell’altra classe, ma eliminazione delle classi (pur conservando dei premi al merito per chi lavora meglio in quantità e in qualità) attraverso l’eliminazione del meccanismo che cristallizza gli strati sociali, cioè i profitti da capitale.

In quest’ottica ho segnalato l’inflazione della borsa come un’arma, poco considerata, della lotta di classe.

Ma l’esistenza delle classi non è necessaria o dovuta e le situazioni di conflitto personale e sociale rendono le persone infelici e possono anche farle ammalare.

Persino un libello cinico e machiavellico come i “Protocolli dei savi di Sion” descrivendo il momento in cui si faranno le cose bene dice che le tasse saranno fortemente progressive e che i ricchi dovranno comprendere che hanno il dovere di dare una parte della loro soverchia ricchezza al governo, perché questo garantisce loro il possesso sicuro del rimanente ed inoltre dà loro il diritto di guadagnare del denaro onestamente.

E aggiunge che tale riforma è la prima e la più importante del nostro programma, essendo la garanzia principale della pace.

Chissà quando i proprietari delle grandi ricchezze si renderanno conto che ciò che devono tutelare non sono i propri possessi, ma la propria felicità, alimentata innanzitutto dalla pace, dalle buone relazioni umane.

 

Andrea Cavalleri

18.07.2020

Di Andrea Cavalleri è uscito il suo primo libro “Processo al liberismo“, con prefazione di L. Roselli e postfazione di P. Ferrari.

 

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